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Omnia

I giorni dell’indipendenza

1 settembre 2002 — Arena Parco Nord (BO).
Missione: documentare la maratona dell’Independent Days Festival, dodici ore di musica, quattordici gruppi, un solo giorno, migliaia di persone, quintali di piadina romagnola e un numero imprecisato di birre.
Equipaggio: la sottoscritta Giulia Blasi, pessima guidatrice e reporter, e l’imperturbabile Alex Barnaba, navigatore e fotografo. Si parte la mattina prestissimo, ancora con le cispe negli occhi, in direzione Bologna, armati di mail-papiro fornita dagli organizzatori del concerto, con un’idea solo teorica della locazione del festival.
Equipaggiamento: panini, tè alla pesca, macchina fotografica, Uno Fire mille cilindri, che a centoventi non si sente l’autoradio.
Le domande fondamentali: quanta gente ci sarà? Riusciremo ad arrivare a un’ora ragionevole? Ci sarà l’accredito, richiesto all’ultimo minuto la sera prima? E soprattutto, perché “Days”, visto che il giorno è uno solo?

Di gente ce n’è veramente tanta. L’età media è intorno ai diciotto-vent’anni. Divisa tipo dei ragazzi: torso nudo, mutanda in bella vista e pantaloni in caduta libera. (Si nota anche una curiosa incidenza di kilt: rivoluzione sessuale, moda del momento o scoperta della comodità di un bel gonnellone?) Divisa tipo delle ragazze: uno o più capi sformati sovrapposti, pancia in mostra, anfibi infangati, broncio perenne. Ambosessi: capelli distrutti da multiple tinture, piercing, tatuaggi.

L’accredito non c’è. Ci mettiamo quindi in fila per il biglietto, pigiati come acciughe sott’olio davanti all’unica cassa aperta. Fa un caldo tale che dal mohicano del punk toscano davanti a me cola un rivoletto di tintura fucsia.

Tutto questo per giustificare il fatto di esserci persi i primi tre gruppi della giornata, nell’ordine Pulley, D4 e Bouncing Soul. Peccato, ma per fortuna arriviamo in tempo per l’esibizione degli Ikara Colt. Inglesi, ricordano nell’atteggiamento e nello stile The Make-Up. Il motivo del loro piazzamento a un’ora così ingrata — l’una e venti del pomeriggio — rimane un mistero: il loro rock è troppo sexy per essere lasciato evaporare in pieno sole. Meritavano la serata, luci e gente già scaldata da ore di musica. Il pubblico è al meglio disinteressato, al peggio aggressivo: nonostante le perquisizioni all’entrata, volano bottiglie piene d’acqua, e sassi raccolti da terra. Dov’è il servizio d’ordine?

Agli Ikara Colt subentrano i Sick Of It All, già visti e stravisti, solidi nel loro hardcore tiratissimo e forti di un pubblico consolidato. A questo punto ci si mette la natura, e a metà del loro concerto si scatena il diluvio universale.

La pioggia ha l’effetto di separare i punk autentici (o molto ubriachi) da quelli spurii: i primi rimangono determinati a pogare nonostante stia venendo giù a secchiate, mentre i secondi si rifugiano dove possono, tra i pochi alberi o sotto l’esigua tendina dello stand della piadina romagnola, dal quale emanano aromi paradisiaci (salsiccia, cipolla, peperone) e anche meno paradisiaci (ascella).

Già, le note aromatiche: dimenticavo che un festival non è tale senza la sua quota di individui dall’igiene personale disinvolta. Una lunga usmata dell’aria circostante porta all’attenzione dei sensi gli effluvi più vari: ascella, appunto, condita o meno dal deodorante; ma anche cibo, birra, incenso (dalle parti della relativa bancarella), profumo femminile (non diffusissimo, ma rintracciabile in alcuni elementi), sigaretta, cannabis sativa e derivati della cannabis indica. Tutto uno spettro di olezzi, che si fanno ancora più distinti quando smette di piovere, in tempo per permettere ai Something Corporate di prendere il palco.

Orecchiabili, grintosi, ma forse per il pubblico duro e puro del festival c’è troppo “emo” nel loro emo-core. Il prestito dai Ben Folds Five — pianoforte verticale di traverso al palco — non va molto bene con i punk, e l’esibizione si conclude sotto una vera e propria sassaiola.

Ormai siamo tutti bagnati, infangati e distrutti dal mal di piedi, e non siamo neanche a metà dell’opera. I No Use For a Name rassicurano la platea con un’altra dose di punk bello pesante — niente pianoforti in vista — e forniscono agli intrepidi cronisti un’ottima scusa per andarsi a riparare sotto gli alberi, in tempo per sfuggire al secondo acquazzone della giornata.

Alle cinque meno venti, quando tocca ai Meganoidi, l’area del festival è cosparsa di pozzanghere. I Meganoidi sono un sollievo: che piacciano o meno, stanno perfezionando un set coinvolgente, divertente e ironico, con tanto di balletti pilotati (avete mai visto tremila punk agitare le mani in sincrono come ballerine di charleston? Non sapete cosa vi siete persi) e numeri di quasi-cabaret. Quasi quasi dispiace far notare che hanno un solo singolo veramente originale, Meganoidi (che infatti lasciano in fondo alla scaletta, servendolo poco alla volta), e un altro singolo buono, Supereroi. Per il resto c’è un po’ troppa fuffa in inglese, ma speriamo nel prossimo album, perché a parte tutto sono davvero bravi. E ridere, a un concerto, fa bene alla salute.

I Punkreas sono il prosieguo naturale dei Meganoidi: dotati della stessa ironia, ma armati di una missione politica. L’inclinazione sinistrorsa (autentica o di facciata) dei presenti è data per scontata. I Punkreas possiedono un’energia eccezionale, non sbagliano un riff, sono immediati e accessibili; le loro canzoni si ricordano e si fanno canticchiare. Quando invitano sul palco la sezioni fiati dei Meganoidi per due canzoni, è una piccola festa.

Il grande momento atteso da tutte le creste, ormai afflosciate da due rovesci e da ore di pogo indefesso, è finalmente giunto. E’l’ora dei NoFX.

C’è ancora troppa luce per un concerto da headliner, ma i NoFX se la cavano con una certa dose di spiritosaggine, e una freschezza che stupisce in un gruppo di così lungo corso. I fan — perché di fan si tratta — apprezzano. “I want to see the President drop dead” intonano, forse contenti di trovarsi in un luogo dove il loro antiamericanismo è consoderato solo tale, e non un alto tradimento alla patria, per quanto simbolico.

L’esibizione dei NoFX segna il grande spartiacque della giornata. Il pubblico più estremo si allontana in direzione dei cancelli, soddisfatto. Siamo in dirittura d’arrivo, per così dire, considerato che quattro gruppi devono ancora salire sul palco, e noi cominciamo a dare segni di cedimento.

A galvanizzare gli ormai stanchissimi festivalieri sono gli ormai inossidabili Modena City Ramblers. La loro musica è un irresistibile mix di prestiti (folk celtico, ballate sudamericane, inni proletari) che li rende il perfetto gruppo da festival, quello che quando sei sudato, infangato e ripieno di birra e piade ti fanno sgambettare come un grillo. I Modena City Ramblers fanno ballare tutti; e la gente che balla è gente contenta, spesso anche se ha mal di piedi. C’è addirittura chi fa il trenino, come ai capodanni aziendali di fantozziana memoria.

Il cambio palco è indispensabile, questa volta, per riacclimatare il pubblico. è il turno di Jon Spencer e della sua Blues Explosion.

La decenza e un minimo di supposta serietà giornalistica mi impedirebbero, a questo punto, di dirvi che l’esplosione di blues di Jon Spencer sembra fatta apposta per provocare esplosioni di tipo ormonale. Così ci metto prima le note tecniche: sono molto rari i gruppi in grado di creare un tappeto sonoro così profondo in assenza di un bassista. Aggiungeteci la presenza scenica, l’ora ormai tarda, le luci e l’entusiasmo del pubblico, ed ecco pronta una performance assolutamente memorabile (e incidentalmente, migliore di quella, recentissima, di Pordenone.)

A questo punto gli Ikara Colt ci sarebbero stati benissimo. Invece ecco The Music, attesissimi e iper-pubblicizzati dai canali musicali, definiti “un incrocio fra i Led Zeppelin e i Chemical Brothers”. Al di là delle strombazzature di marketing — secondo le cui leggi per promuovere un gruppo è sufficiente dire che sono un incrocio fra altri due gruppi che non c’entrano nulla fra di loro — i The Music sono, prima di tutto, quattro ragazzini. Quattro ragazzini con un gran tiro, un singolo assassino (The People), un cantante che si muove come James Brown e una fifa blu. Salgono, suonano, se ne vanno con appena un “grazie” e un “cheers” mormorati fra canzone e canzone; non tentano nemmeno di interagire con il pubblico, che evitano addirittura di guardare; in un paio di canzoni si dimenticano completamente dei Chemical Brothers e si agganciano piuttosto al trip psichedelico dei primissimi Verve. Sono delle promesse ancora da mantenere, specialmente dal punto di vista della performance dal vivo; però non male, non male. Devono finire di crescere. E incastrarli fra un mostro come Jon Spencer e il più grosso gruppo italiano del momento, i Subsonica, è assurdo e anche un po’ crudele.

I Subsonica partono benissimo. Ma che lo dico a fare: nonostante i volumi da bisbiglio e la regolazione audio approssimativa, i loro live sono sempre indimenticabili. Dal palco, Samuel invita i ragazzi accampati sulle colline che circondano l’arena a scendere (e possibilmente a condividere le sostanze psicotrope…) è troppo buio per capire se qualcuno accolga o meno l’invito. Il concerto riprende, e siamo tutti pronti alla consueta esplosione di suoni e bassi e cattiverie aurali.

Invece? Invece no.

A metà di Tutti i miei sbagli, si spegne tutto. Di colpo. Buio e silenzio calano sul pubblico, che finisce di cantare il ritornello in perfetto unisono, sperando in un problema temporaneo.

Il gruppo sparisce. Passano dei minuti. Si teorizza di tutto, ma nessuno ha un’idea molto precisa di cosa stia succedendo. Le luci si riaccendono, ed eccoli di nuovo: Tutti i miei sbagli, di nuovo, poi Liberi tutti. E poi…

E poi, basta. è proprio finita: per un po’ aspettiamo, speranzosi, ma quando i faretti si riaccendono definitivamente sappiamo che è ora di sciamare via, in silenzio e a testa bassa, come bambini privati del dolce dopo la cena.

Il giorno dell’indipendenza, per quest’anno, è passato.

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