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Omnia

L’ora di religione

Sull’onda delle polemiche che hanno accompagnato la vittoria di Peter Mullan all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, il numero 44 di Fucine Mute propone un approfondimento, come d’abitudine curato da Martina Palaskov Begov, nella forma delle interviste e della riproposizione di una conferenza stampa, nell’attesa dello stesso regista scozzese che risponderà alle nostre domande il mese prossimo.

E che interviste!, verrebbe da dire: ritorna Tsukamoto – vincitore del Premio Speciale della Giuria (sezione Controcorrente) al Lido – accompagnato da un nostro antico amore, un po’ per gusti personali, un po’ per il ricordo di una illuminante rassegna triestina alcuni anni orsono, che di nome fa Takeshi Kitano.

E poi le polemiche, dicevamo: quelle di marca cattolica che hanno accompagnato la vittoria di Mullan, quelle di marca non dichiaratamente cattolica provocate dal bacio saffico de Le ragazze di Miss Italia, e quelle di marca decisamente cattolica riservate ai crocifissi nei luoghi pubblici del ministro Moratti.

Mentre rileggevo “Opinioni di un clown” mi capitava di pensare che non esiste più la mediocrità di una volta, solida nella sua ipocrisia e capace di individuare spazi ben definiti cui opporre un eroe dei nostri tempi, pur perdente per definizione: ed ecco quindi il moralista, il politico riciclato, l’ideologo, il mestierante avido, categorie dal riscontro tanto immediato quanto più il punto di vista di chi scrive si fa condivisibile. Poi ci si accorge che la prospettiva è, appunto, insita nella proposta del testo, e si arriva a comprendere che, sforzandosi di rafforzare per l’occasione il distacco dalle cose del nostro tempo, le sfumature di grigio connaturate al nostro essere parte di una società complessa lasciano il posto a segmenti più netti grazie ai quali prendere le distanze e procedere per schemi, potendosi tuttavia permettere il lusso di non cadere in luoghi comuni. Il metodo può non essere semplice nel suo evolversi, ma eccovi alcuni spunti per altrettanti bachi del vivere civile nel terzo millennio dell’era cristiana.

Il video All the things she said delle t.A.T.u.“Proselitismo omosessuale” è l’accusa mossa in prevalenza dalle associazioni dei genitori nei confronti di Dino Risi, quando di episodi diseducativi è piena la televisione in termini indubbiamente più sfacciati, nella misura in cui il comune senso della spudoratezza li rende scontati ed accettabili anche al più triste dei bacchettoni. Se stai a casa con i figli hai poche alternative: controllarne la scelta televisiva, rinunciare alla fiction di Rai Uno se possiedi un solo apparecchio televisivo e se temi che un bacio tra donne possa suscitare troppe domande, o guardarla insieme a tutta la famiglia e far capire a tuo figlio che l’omosessualità è parte del mondo in cui vivi, magari entrando nell’ordine di idee che se da grande compirà determinate scelte sul proprio orientamento non sarà colpa di Risi, né avrai allevato un degenerato. Eppure su All the things she said non mi pare di aver avvertito lo stesso astio: a riprova che il controllo dei genitori non si è esercitato su quello che vedono i figli, ossia MTV ed il Festivalbar. C’è ben altro a far gridare all’indecenza, senza che i genitori si preoccupino di protestare per Tex Willer che in santa pace fuma una cicca o si fa un cicchetto. Cerca di capire cosa ascolta tuo figlio in discoteca e ti verranno idee migliori su come chiamare un movimento di mamme incazzate, visto che “anti-rock” ha ben poco a che vedere con le scorribande notturne della prole adolescente.

Dato che siamo in tema, e visto che le minoranze non ci hanno mai schifato, pubblichiamo un’intervista a Veruska Sabucco, tra i massimi esperti di fumetto omoerotico di provenienza nipponica, tanto da aver esordito con un’opera prima sul tema ai tempi di Castelvecchi. Un sentito ringraziamento a Ilaria Arianna Cecchini e a Rosanna Conte, e chissà che non si ritorni sull’argomento, visti il consenso riscontrato dal genere in Italia – specialmente presso il pubblico femminile – e l’interesse normalmente riposto in un contesto socialmente ricco di spunti quale il manga nelle sue forme più distanti dalla visione occidentale delle cose.

La manifestazione promossa da Adel Smith e i cartelli contro il cristianesimo

Paradossalmente la questione dei crocifissi ha diviso più i cattolici che l’Islam, nonostante l’ignoranza di quei musulmani che si sono permessi lo sbeffeggio al “cadaverino” (sic) appeso, invocando risvolti macabri che, riferiti ad un simbolo comunque fondamentale per una cultura intera, non rappresentano certo il segno della più elevata concezione della convivenza civile e, ancor più alla base, della volontà di raggiungere nel rispetto reciproco tra diverse culture, etnie, gruppi che dir si voglia il traguardo dell’integrazione al di là della fisiologica tensione sociale.

Non amo certo la cultura delle reliquie, che nell’anno di grazia 2002 mi pare scarsamente igienica e largamente votata alla superstizione (avete notato come le due cose vadano spesso a braccetto?) – ed ecco che il proselitismo ritorna nella forma degenere dello sfruttamento della credulità -, ma so riconoscere l’insulto gratuito. Forse dovremmo attaccarci un po’ meno ai simboli, e dico questo nel timore di appigliarmi io stesso alle mie brave forme di rappresentazione più o meno rituali, nella fittizia spontaneità che talvolta descrive ciò che è più vicino al proprio modo di essere e di rapportarsi criticamente al contesto di appartenenza.

Ma per il resto, quel poco di esperienza diretta che mi è toccata in sorte mi dice che tutto il battibeccare sia appannaggio dei cattolici e non cattolici nostrani, o dei cattolici che – purtroppo in misura minore – hanno afferrato il concetto, per dire la verità non troppo complicato, dello Stato laico, che come nozione in grado di oltrepassare determinate barriere non mi sembra poi da buttare. Stato laico che, avanti di questo passo, non saremo mai, mentre sarebbe gesto di doverosa civiltà comprendere la necessità di garantire le esigenze di tutti nel momento in cui pretendiamo di saper gestire e di saper legiferare sulla spinosa materia dei flussi migratori e dell’integrazione nelle sue varie forme. 

E che chi vuole il crocifisso se lo può appendere in casa, meglio ancora portarlo nel cuore, senza che l’Italia ne risenta nei termini dell’identità culturale, visto che il conservatorismo di fondo non si intacca tanto facilmente con un gesto francamente sovradimensionato. Uno spunto interessante è venuto,una volta tanto, da un programma televisivo in nottata: chi crede nella croce non è solo chi è partecipe in toto delle sofferenze del mondo, ma anche colui il quale, come Simone di Cirene, vi si è imbattuto senza alcuna previsione, al di là di ogni intenzione premeditata. Ovvero, almeno questa è stata la mia interpretazione, la croce e ciò che ne consegue restano, in primo luogo, un fatto individuale, che forse il contesto assembleare della nostra prassi liturgica ha fatto perdere di vista a chi crede.

Infine, pur da cittadino scarsamente toccato dall’amor di patria – quello integrale, senza mezzi termini -, percepisco l’identificazione tra simbolo e cultura di un popolo fin troppo figlia di basse astuzie politiche che insultano tanto la croce quanto la bandiera.

Personalmente ritengo che uno dei massimi affronti al vivere laico di cui oggi sottoscrivo le basi – e che ripeto, non entra nel merito delle scelte individuali – sia stato, durante la mia infanzia, iniziare ogni giorno di scuola tra la prima e la terza elementare con la preghiera, cosa che alla mia eventuale prole, qualora ne avvertisse l’esigenza, sarà immancabilmente destinata ai tempi ed ai luoghi opportuni.

Ha poco da dire Lucio Lami, sulle cui posizioni più condivisibili si esprime in questo numero Christian Sinicco, in merito all’occupazione del sistema scolastico da parte della sinistra a partire dagli anni Settanta, specie se il discorso verte non tanto sull’apparato universitario – abituale oggetto del contendere nella sua variante umanistica -, quanto su un processo che trae origine fin dalle scuole inferiori. Ora, ho studiato Storia sui libri di Gabriele De Rosa per otto anni della mia vita, con un elenco di preti morti durante le guerre di indipendenza e lungo l’arco della Resistenza ben più corposo, ad esempio, dello spazio riservato alle origini della questione palestinese, un paio di paragrafi in cui si accenna a Ben Gurion e ad un più o meno definito “sionismo generale”. Tanto alle medie quanto alle superiori lo studio della Storia e, in seguito, della Filosofia, mantenevano un’impronta ben chiara: un catechista prima, un’oblata poi. Che certo avevano tutto il diritto all’insegnamento, ma che altrettanto indubbiamente non incarnano i sintomi più attendibili, per quanto circostanziati alla mia esperienza, di una deriva verso il controllo delle strutture. Mai studiato nulla dalla Guerra Fredda in poi sui libri di testo prima dell’Università, mai giustificata la spesa sostenuta per i testi di Educazione Civica, ma al tempo stesso non ho mai percepito me stesso come l’analfabeta inesorabilmente prodotto, sempre secondo un Lami che ha fatto, in questo caso, di tutta l’erba un fascio, dalla rivoluzione in rosso di un sistema che difficilmente mi riuscirebbe pensare perfettamente oliato e garantista in precedenza. Chiedete ai nostri genitori, quelli che si prendevano le bacchettate sulle mani. E chiedete, prima di aderire alle categorizzazioni tagliate con l’accetta da Lami in merito alla nostra generazione, a quanti – sempre pochi, ma è prassi comune a diversi ambiti quando è richiesto un minimo impegno individuale – si sono costruiti una strada ed una cultura per vie autonome, quelle che la scuola richiede ma che non sempre incoraggia.

Nulla da eccepire, invece, sulle pecche e sulle gravi mancanze del giornalismo contemporaneo, nonché sulle degenerazioni della gestione redazionale da parte dei comitati; ma in primo luogo non ci vuole il Premio Hemingway per dircelo, e in seconda battuta il Corriere di Ottone probabilmente non merita il trattamento riservatogli, specie ad opera di un giornalista che ha partecipato alla gestione montanelliana del quotidiano, di cui si può sottoscrivere tutto sul piano della professionalità, ma la cui dimensione politica era altrettanto chiara ed estrema. Ma questo non toglie nulla – e Fucine Mute infatti non censura, ma predispone ed invita al dibattito, magari sul Forum – al fatto che le perplessità di ognuno non pregiudicano la pubblicazione di una riflessione e la segnalazione di un libro ricco di suggerimenti: per il ripensamento dell’etica giornalistica, che ci riguarda direttamente, per uno sguardo sul vissuto di una generazione che non è la nostra, e per comprendere, a malincuore, che la pace con la Storia non è detto sia imprescindibile, ma che il minimo sforzo per affrontare con coerenza gli errori del passato non emerge in prima istanza dai fondamenti etici del nostro Paese. Il trave e la pagliuzza, e la storia si ripete. Magdalene, appunto, insegna.

E questo vale per tutti, al di là dell’appartenenza ideologica: e al di là dell’appartenenza ideologica si collocano gli articoli e le riflessioni che ogni mese ci proponiamo di offrirvi, perché il valore conoscitivo è per noi più importante di qualsiasi forma di militanza, sicuramente nella forma pubblica della rivista, e in buona sostanza anche nel privato di persone che fanno dell’esercizio critico un principio di fondo.

Tornando al numero 44, apriamo con Floria Sigismondi intervistata a sei mani, cui fa seguito un saggio tradotto dallo spagnolo di Nivaria Morales, studiosa di comunicazione visiva e di nuovi media, con la quale si intraprende ora una collaborazione che ho il legittimo sospetto darà i suoi frutti in futuro.

Grande numero, insomma, per una Fucine Mute che si appresta ad insegnare, in qualità di Associazione, i fondamenti del linguaggio cinematografico presso le scuole superiori di Trieste.

Nel frattempo, il più caloroso augurio per i primi cinquant’anni, portati benissimo, di Urania: da Le sabbie di Marte di Clarke ad oggi è doveroso celebrare la gloriosa collana cui sono legate, nell’immaginario collettivo, non solo le opere letterarie, ma anche le illustrazioni di Karel Thole, Giuseppe Festino, Marco Patrito. I festeggiamenti sono più che meritati, e per chi si è perso qualcosa l’ultimo “Almanacco della fantascienza” di Nathan Never può essere un buon viatico all’operazione retrospettiva delle uscite. Con un po’ di malinconia per la scomparsa di Franco Lucentini, tra i numi tutelari del periodo d’oro.

Per concludere, i doverosi complimenti, seppure tardivi, a Neil Gaiman, Hugo Award 2002 per American Gods; chissà se qualcuno ha storto il naso come nel 1991, quando a vincerlo – ma il contesto era ben più delicato, poiché Neil era in tutto e per tutto un outsider – fu A Midsummer’s Night Dream. Dal canto mio, attendo il prossimo lavoro in prosa. E l’edizione italiana di Coraline.

Il prossimo numero sarà quasi-poetico, come più volte è accaduto ultimamente. Avevamo promesso il Nobel? Attendete: ci siamo quasi.

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