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Musica

Piergiorgio Pardo

Le videogeneration

Con l’intervista a Floria Sigismondi e il saggio di Nivaria Morales presenti sul numero 44, Fucine Mute ha iniziato un discorso sul mondo dei videoclip. Piergiorgio Pardo è autore de Le video generation. I ragazzi degli anni ’80 e i loro miti, saggio che esamina il contesto storico che ha generato questa nuova forma espressiva, attraverso l’analisi delle culture giovanili dei due passati decenni e dei cambiamenti avvenuti nel mondo della musica, del fumetto e del cinema.

Fabrizio Garau (FG): “Videogeneration” è sicuramente una nome meno squalificante da dare ai ragazzi degli anni Ottanta e Novanta che “Generazione X”. Perché secondo lei quest’ultima definizione ha avuto così tanto successo?

Piergiorgio Pardo (PP): Generazione x è un termine che porta con sé un alone maudit assai più suggestivo di “videogeneration”.
La x ha un che di indeterminatezza, così come quel famigerato “post” che ormai viene premesso ad ogni categoria artistica ed è divenuto sinonimo di una modernità insondabile e sovvertitrice di schemi.

FG: Nei capitoli iniziali del suo libro utilizza più volte il concetto di postmoderno. La nostra rivista si occupa e si è occupata di questa categoria interpretativa. In sintesi, che legame c’è tra l’epoca postmoderna e il videoclip?

PP: Più che un legame hanno un comune sostrato di volontà di innovazione a partire dalle forme.
C’erano già arrivate le avanguardie degli anni Settanta, stavolta però il gioco consiste nell’usare, per innovare, le armi inventate dal sistema, rimanere dentro al mainstream, senza contrapposizioni e cortei.
Al di là di ogni apparenza glamorous quella dei videoclip è una vera e propria rivoluzione silenziosa, rivoluzione che ci porta dritti all’essenza stessa del postmoderno.

Bjork in All is full of loveFG: Lei sostiene che uno dei comportamenti distintivi della “videogeneration” sia la “decontestualizzazione” dell’oggetto industriale, ovvero prendere un oggetto fatto in serie e in qualche modo cambiare il suo significato originario e dargliene uno coerente con le proprie scelte identitarie. Nella musica questo si traduce ad esempio nell’utilizzo di campionamenti di frammenti di brani del passato, inserendoli in un contesto sonoro attuale (il caso dell’hip hop, del trip hop o del lounge). Nel caso dei videoclip lei cita Beck (Hansen) e Bjork. Può descrivere un video in particolare, dove il processo di decontestualizzazione è evidente?

PP: Porterei un esempio molto comprensibile e dichiarato: “All is full of love” di Bjork (per vederlo, digitate “Bjork” sul motore di ricerca di Launch, ndr), dove la macchina e il design diventano pretesti fruttuosi per un’affascinante retorica degli affetti.

FG: Quali sono i registi di videoclip che secondo lei più rappresentano il contesto culturale — da lei descritto nel libro — nel quale operano, e perché?

PP: Nessuno in particolare: è il clip che conta, non la linea editoriale di un singolo regista. Il mondo del videoclip è diverso da quello del cinema: qui gli exploit dei registi sono colpi di genio momentanei che cedono subito il passo a nuovi linguaggi e nuovi talenti, mentre i “vecchi” diventano in fretta aridi e un po’ rimbecilliti.

FG: Il “minimalismo” è una delle categorie interpretative utilizzate nel libro: minimalismo in letteratura (Bret Easton Ellis, Banana Yoshimoto) e nella musica (il punk, il dark, la prima elettronica). è applicabile anche nei videoclip?

PP: Il videoclip nasce da un’applicazione del minimalismo al concetto di immagine televisiva e, in un certo senso, filmica.
Direi che che nel corredo cromosomico del videoclip il minimalismo dà il colore degli occhi e dei capelli, nonché la complessione fisica.

Kraftwerk, The RobotsFG: Come esempio di primo videoclip lei cita “The Robots” dei Kraftwerk (si può vedere nella sezione “video” di kraftwerkcenter, ndr), duo tedesco padre dell’odierna musica elettronica. Qual è il significato culturale e artistico di questo video, così diverso da quelli che ogni giorno si possono vedere su MTV?

PP: “The Robots” sta alle videogeneration come un homo sapiens a un odierno impiegato di banca.

FG: Nel suo libro le “videostar” per eccellenza sono due: Micheal Jackson e Madonna. Il primo è in progressiva decadenza, la seconda non sbaglia un colpo, anche nei video: si pensi a uno dei più recenti dove il regista (Guy Ritchie, suo marito, che al cinema ha diretto “The Snatch”) citava addirittura “Crash” di Cronenberg, creando oltretutto non poche polemiche (e quindi pubblicità). Quali sono, secondo lei, le differenze tra i due, si intendono quelle che hanno permesso a Madonna di rimanere sulla cresta dell’onda?

PP: Madonna è una donna manager di se stessa e in quanto tale rappresenta il futuro dell’economia che si preannuncia come autarchica e matriarcale.
Inoltre c’è nelle vicende delle due star una componente del tutto casuale: mentre le operazioni di chirurgia plastica di Madonna hanno avuto buon esito, nella sala operatoria di Michael Jackson qualcosa è andato storto. Nella vita è sempre questione di fortuna.

FG: In Italia i Manetti Bros utilizzano moltissimo la rilettura del passato recente (i vecchi telefilm, gli anni Settanta) che lei individua come uno degli elementi caratterizzanti la cultura pop degli ultimi due decenni. Cosa pensa del lavoro di questi due registi?

PP: Mi piacciono moltissimo. Li trovo assolutamente geniali e molto cool!

Manetti Bros

FG: Fino a che punto è corretto recuperare alcune cose del passato, magari il cosiddetto “trash”, per dargli dignità artistica, ovvero qual è il confine secondo lei tra l’onestà intellettuale e il fine commerciale?

PP: Da tempo in guerra e in amore è tutto concesso. Con l’affermarsi del postmoderno lo è anche in arte.

FG: MTV, da rete innovativa e “sperimentale”, si è progressivamente “involuta” in una direzione rassicurante e “salonfahig”. In Italia è riuscita direttamente o indirettamente a far terminare l’esperienza di Videomusic/TMC2. Per questo e per un’ulteriore serie di motivi è difficile poter ascoltare e conoscere musicisti meno convenzionali. La speranza di vedere dei clip originali sembrerebbe ancor più vana… Che ne pensa?

PP: Che sinché su MTV gireranno video come quello di Sebastien Tellier, tanto per fare un esempio, saremo comunque salvi dal piattume: i talenti trovano sempre un modo per emergere, mentre le realtà commerciali hanno oggi più che mai bisogno di nutrirsi di linfa vitale.

FG: Rimanendo su questo tema, molti musicisti non mainstream, alla domanda: “Quando girerai un tuo video?”, rispondono che è un’operazione troppo costosa. Secondo lei internet e il digitale potranno ovviare a questo problema?

Nam June Paik, Tv CelloPP: Creeranno e stanno già creando un nuovo linguaggio artistico e promozionale, così come il garage creò un nuovo suono all’epoca del punk e il laptop sta oggi creando un nuovo modo di intendere e comporre la musica.
Il fatto economico da conseguenza diventa causa, è una storia che si ripete.

FG: A proposito di ciò che è mainstream e ciò che non lo è: una parte del mondo giovanile è radicalmente “anti-pop”, vede tutto ciò che è “pop” solo come operazioni d’immagine e inconsistenza musicale. Lei sembra apprezzare sia alcuni aspetti delle realtà indipendenti sia alcuni delle realtà “commerciali”. Seguendo quali criteri si orienta nel vasto mercato musicale odierno?

PP: Non mi oriento e me ne compiaccio. Come fece dire Battiato in un vecchio Sanremo alla nasona Sibilla: “Ho perso la testa ma sto bene anche senza…Urubarevtsa mea”.

FG: Parlare di mainstream significa anche in qualche modo parlare di moda e di condizionamento dei giovani. A suo parere, quanto un video-clip impone dei modelli a un giovane e quanto invece il giovane riesce a metabolizzarlo e a rielaborarne in chiave soggettiva il messaggio? Più semplicemente ritiene che la capacità critica media dello spettatore sia sufficiente?

PP: Questo è un problema etico e sociologico del quale non è possibile parlare nei tempi e nei modi di una intervista.
Sarà però utile precisare che il videoclip nella sua sostanza artistica non è stato concepito per imporre dei modelli ma per promuovere dei prodotti: il videoclip, evento comunicativo di sostanza squisitamente iperreale non dice “imitami” ma “guardami”, “stupisciti”, “compra”. Il salto concettuale in direzione dell’emulazione è opera dei mass media e si colloca su un piano differente rispetto alla natura stessa del videoclip.

Chris CunninghamFG: Nel suo libro si evidenzia come l’estetica del videoclip sia entrata nel mondo del cinema.
Chris Cunningham, regista dei video di Aphex Twin, girerà Neuromancer, tratto dal romanzo cyberpunk di William Gibson, portando definitivamente videogeneration e controculture giovanili nelle sale. Da esperto sia di video sia di cyberpunk, che cosa si aspetta da questo film, visto che molto spesso i registi di video-clip per il grande schermo sfornano brutture “teenage-trash”?

PP: Mi aspetto una bruttura teenage trash.

FG: Gli anni Ottanta sono il protagonista principale del libro. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a un “revival” di questo decennio. Ultimo esempio è il clamoroso successo di “Are You A Freak Like Me?” delle Sugababes, cover di “Are friends Electric?” di Gary Numan, che lei stesso ritiene un’icona del periodo. Visto che lei considera ogni recupero del passato non solo un’operazione commerciale, ma anche qualcosa con un significato culturale, saprebbe trovarne i motivi?

PP: C’è sempre un momento in cui una temperie culturale, giunta a maturità, fa tornare di moda le proprie origini in una sorta di assemblea collettiva del gusto. Gli anni Ottanta, reale incipit del postmoderno sono ora tornati di moda perché siamo alla vigilia di una cesura, stiamo per passare ad altro.
Inoltre c’è una ragione più squisitamente musicale in recuperi come quello citato: l’elettronica digitale può fare operazioni di restyling a basso costo su una serie di temi musicali già adatti ad un suono elettronico al momento del loro concepimento, farli suonare “diversi ma non troppo”, salvandone gli spunti più efficaci e aggiornando il resto: hit e denaro a vagonate, onore al genio postmoderno che è anche e soprattutto questa divina e spudorata arte del riciclaggio!

Trentenni oggi: Bridget Jones?FG: Lei ha sottolineato benissimo nel libro come i giovani degli anni Ottanta si siano disinteressati all’aspetto politico non perché debosciati, bensì perché intenzionati a rapportarsi alla società in maniera più ludica e orientata alla comunicazione. Resta che i principali mezzi di comunicazione, almeno in Italia, sono diretti da chi ha fatto il ’68, ovvero il trionfo della politica. Alcuni settimanali hanno inoltre aperto un dibattito sui trentenni di oggi (la sua prima “videogeneration”), facendoli apparire come “ex giovani” del tutto impreparati ad affrontare una vita adulta. Qual è la sua opinione?

PP: Come dicevo le avanguardie degli anni Settanta furono una grande esperienza-laboratorio di nuove modalità di comunicazione. è normale che quel know how abbia fatto il suo ingresso nel mondo dei mass media dalla porta principale, come un patrimonio conoscitivo indispensabile.
I trentenni di oggi hanno trovato quei posti occupati, hanno avuto troppi soldi per poter davvero mettersi a pensare e troppo pochi per perfezionare quanto escogitato dalle generazioni precedenti, si sono dovuti misurare con dei tempi di evoluzione tecnologica di velocità inaudita e competono oggi con una generazione di adolescenti ultratecnologici che li sorpassa e sgomenta. Eppure la tempra è buona e c’è da augurarsi che, una volta perso l’appuntamento con l’età adulta, sappiano molto meglio rivestire il ruolo di anziani del villaggio globale che in breve torno di tempo ci si attende da loro.

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