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Musica

Armando Battiston

I “punti cardinali” del jazz

Ascoltarlo? Forse per capire chi è davvero Armando Battiston questo non basta. Bisogna vederlo mentre suona la sua musica. Come le sue dita si muovono veloci e sicure sui tasti del pianoforte. Sentire quello che ti nasce dentro mentre lo ascolti.
Banalmente puoi dire che ti colpisce e non te lo scordi. Ma non basta nemmeno questo. C’è in lui una volontà profonda di farsi capire, di far capire la sua musica. Anche mentre risponde alle domande dell’intervista. La volontà di farti entrare dentro qualcosa, di aprirti vie che magari non conosci e che mentre lui ti parla ti sembrano incredibilmente più vicine. 

Sara Visentin (SV): Come si colloca la tua musica nel panorama jazzistico storico?

Armando Battiston (AB): Si colloca, non dico ai margini, ma in un contesto abbastanza particolare. Vediamo se riesco ad inquadrarmi con poche parole. Il mio jazz si ispira, per un certo verso, al jazz nero-americano, quindi mi salvaguarda quello che è il discorso ritmico, quello che è lo swing, quella che è l’energia e anche quella che è l’asprezza, quelli che sono gli schemi ritmici che in qualche modo si rifanno ai movimenti del corpo, alla danza. E al contempo, fondo questi elementi con gli elementi della musica colta europea, soprattutto alla musica colta del Novecento, quindi la musica dodecafonica, seriale e post-seriale ed anche elettronica. Quindi una musica di ricerca. Il mio sforzo, che poi non è uno sforzo, per me ormai è un habitat mentale-musicale normale, è quello proprio di unire questi elementi per dare vita al mio tipo di linguaggio espressivo; senza poi, ovviamente, rifiutare elementi a volte più leggeri, più di facile ascolto, che spaziano nel latin jazz, nel funky o in altre forme meno impegnative. è molto ampia la mia collocazione, partendo però da quel presupposto forte che avevo detto all’inizio.

SV: E come è nata la tua passione per il jazz? C’è stato qualcosa di scatenante?

AB: Senza dubbio l’ascolto per radio di orchestre jazz, di arrangiamenti jazz, di cose che però non capivo. Per me poi, che venivo da una classe sociale molto povera, non avevo mezzi per ascoltare, mi accontentavo della radio. Non si poteva studiare jazz perché non c’erano le scuole. Mi accontentavo, per così dire, di fruire, per quanto era possibile, di questi mezzi. La cosa però è maturata pian piano. Ci sono stati vari stimoli nella mia vita, nel mio percorso musicale, che è stato molto altalenante. Sarebbe un po’ lunga la storia. Diciamo che però non c’è stata la folgorazione sulla via di Damasco.

SV: Nella tua preparazione c’è stato qualche jazzista in particolare che ha influito in modo determinante, che ha dato una direzione al tuo modo di fare musica?

AB: Sì, senza dubbio Eric Dolphy. Sono tanti che ti influenzano, poi si cerca di far proprio, cercando un’evoluzione di sintesi nel linguaggio. Ma senza dubbio soprattutto il pensiero musicale di Eric Dolphy è stato quello che mi ha spinto, che mi ha confortato nelle mie idee. Perché lui, che poi era nero-americano, è venuto in Europa e si è messo in contatto con le avanguardie della musica colta europea. Anche lui stava cercando una strada di fusione. Ci era riuscito molto bene, è morto molto giovane purtroppo, però il suo pensiero l’aveva già ben fissato. Per me è stato un punto molto forte, di conferma, di ispirazione, di stimolo a proseguire. A convincermi che la strada che avevo imboccato era quella che sto seguendo ed è quella che va bene.

SV: Prima hai detto che ti sei avvicinato alla musica elettronica. In che modo?

AB: Alla musica elettronica mi sono avvicinato prima con gli organi elettronici, agli inizi degli anni ’60, e quindi facevo musica leggera quella volta. Dopo, l’organo Hammond, che mi ha permesso di avvicinarmi al jazz anche utilizzando questi strumenti nuovi: Hammond elettronico, elettrico, elettromagnetico per l’esattezza. Dall’Hammond, che mi permetteva già piani sonori abbastanza particolari e caratteristici, sono passato anche ai sintetizzatori. Per me la musica elettronica non è tanto una rielaborazione al computer, quindi non è un lavoro informatico della musica. è invece una ricerca di piani sonori, di sintesi nuove, di orizzonti nuovi, che però molto spesso fondo anche con la musica acustica. Quindi non è un utilizzo spasmodico, bensì funzionale a quelle che sono le mie esigenze espressive di quel determinato momento, di quella determinata cosa che ho voglia di fare.
Però utilizzata sempre in modo di ricerca. Cioè non uso l’elettronica per imitare lo strumentino, per fare la base musicale. Queste cose assolutamente non mi interessano.

SV: Tu hai anche una preparazione classica?

AB: Sì, ho studiato composizione fino al settimo anno e sono diplomato in strumentazione per banda, quindi ho una buona acquisizione di quella che è la conoscenza strutturale, formale anche, della musica colta. E poi sono anche un amante della musica classica.

SV: E quindi, dal punto di vista strumentale, quali sono le differenze che si hanno nell’approcciarsi alla musica classica rispetto alla musica jazz?

AB: Prima di tutto bisogna vedere quali strumenti si analizzano. Questo è un punto fondamentale. Perché per esempio il sassofono è uno strumento che ha una letteratura più jazzistica che classica, eppure adesso abbiamo anche una forte letteratura classica. Quindi, il pianoforte ha una letteratura più classica che jazz. È importante capire qual è la tecnica che serve di più. Quindi quali tecniche di studio si privilegiano per poter arrivare a determinati risultati. Inizialmente, comunque, si parte da un discorso prettamente tecnico e quindi per il pianoforte va benissimo la tecnica classica scale e arpeggi, etc… Studi graduati nei vari anni, letture musicali anche, quindi esecuzioni dei brani classici. Quindi è chiaro che il jazz ha una dizione, una prosodia musicale diversa, che presuppone uno studio poi differenziato. Si può partire con degli studi che vanno bene per tutti e due i generi, e dopo ovviamente differenziarsi in rapporto al tipo di cose che si fanno. Perché un brano jazz va scandito in un certo modo. è proprio il fraseggio musicale, diverso da quello che può essere quello classico. Ovviamente nella classica contemporanea, i due fronti, se così vogliamo chiamarli, sono molto più vicini di una volta.

SV: In Italia è ancora forte l’influenza dei grandi jazzisti americani o abbiamo dato un nostro modello al jazz, una nostra caratterizzazione nazionale?

AB: In Italia c’è stato il fascismo che ha proibito il jazz. Per cui in Italia il jazz, in maniera forte, in maniera organica, è arrivato trenta, quarant’anni dopo che in Francia e in Inghilterra. Per cui una connotazione italiana del jazz si sta maturando adesso. Stiamo pian piano liberandoci, per quanto serve liberarsi, dai grandi esempi nero-americani, americani o anche dei bianchi, perché ci sono dei grandi jazzisti bianchi, che hanno fatto, e che fanno storia. Il liberarsi da questi, è un lavoro che va fatto con molta attenzione, senza incorrere in sistemi un po’ faciloni che a volte si utilizzano. Però, anche in Italia adessosi sta avvertendo il salto di qualità . Abbiamo dei grossi musicisti che stanno arrivando a livelli tranquillamente competitivi a livello internazionale, mondiale.

SV: Ti senti stimolato dal clima musicale italiano?

AB: No, io mi stimolo molto da solo. Sono quasi un ermafrodita musicale. Mi stimolo da tutto. Era una battuta! Effettivamente io mi stimolo un po’ da varie cose. Può essere un po’ il clima musicale italiano, può essere anche la musica, mi posso stimolare anche sentendo Bach, sentendo Charlie Parker. Ormai non ho neanche granché bisogno di ascoltare, ho bisogno di produrre. Sono arrivato ad un punto in cui ascolto ogni tanto, ma non è più così importante per me ascoltare. Ritengo di aver trovato quella che è la mia strada.
Quindi se ascolto, ascolto soprattutto per capire se sono idee nuove, e se da queste si possa attingere qualche altro stimolo. Ma con parsimonia.

SV: Si riesce a vivere di jazz in Italia?

AB: Pochi sì e tanti no. è dura. Non è semplice. Devi avere delle altre, mediamente, delle altre entrate per poter vivere. è una musica estremamente libera, ma come ogni libertà ha un suo grande prezzo.

SV: E influenza la tua creatività il fatto con la musica jazz non si viva completamente?

AB: Diciamo che  nel mio caso  specifico sono un privilegiato. Riesco a fare la musica che voglio. Essendo uno che ha uno zoccolo duro come entrata, che è una pensione da statale, posso fare la mia musica senza essere condizionato a dover svendere assolutamente niente. Per cui io personalmente, e dico personalmente però, non sono influenzato negativamente da questa situazione. Certo, più si lavora e più è stimolante, quindi a volte si può essere frustrati più che stimolati se non si riesce a realizzare una certa cosa. Non tanto però inibiti da un punto di vista creativo.

SV: Con chi hai collaborato o con chi ami di più collaborare in campo musicale? Sia jazzistico che non jazzistico.

AB: Non sono uno che va a cercarsi il grande musicista per metterlo nel suo portfolio. E quindi ho collaborato soprattutto con musicisti dei quali mi servivo soprattutto nel settore ritmico e quindi contrabbasso, batteria. Perché io amo molto il trio. Amo molto i gruppi piccoli. Quindi in termini musicali ho collaborato con dei buoni batteristi, dei buoni contrabbassisti italiani. In campo invece non jazzistico ho collaborato con altri solisti come percussioni, arpa, contrabbasso, violoncello, etc… Cerco sempre un buon musicista ma devo fare anche un po’ i conti con i budget che ci sono. Si chiama il musicista che abbia una certa qualità, ma che però rientri nel budget che si ha a disposizione.  Posso far nomi come Massimo Manzi, che considero uno dei più grossi batteristi italiani. Paolino Della Porta come contrabassista o Paolo Ghetti che è un’altro bravo contrabbassista, che adesso sta venendo fuori molto bene. A suo tempo ho suonato con Gianni Basso. Poi ho lavorato anche con gruppi corali che facevano musica spiritual e gospel e con uno di questi ho anche realizzato un disco. Poi ho fatto altri lavori che vanno dalle performance con pittori, scultori, poeti. Musica e poesia è un lavoro che perseguo da tempo, fin dagli inizi degli anni ’70.

SV: In che senso musica e poesia?

AB: Nel senso che io utilizzo o il testo poetico recitato da un’attrice, oppure addirittura il poeta stesso che lo legge per la mia musica, scritta appositamente per quel testo o per quella voce, che interagisce creando una nuova opera. Una forma di breve teatro contemporaneo, se vogliamo. In cui molto spesso il poeta è protagonista, lui stesso, con la sua voce. Uscirà anche presto un libro con un disco coi più grossi poeti qui in Friuli e in Regione. Su questo lavoro con le mie musiche.

SV: Dove stai indirizzando il tuo pensiero e la tua ricerca musicali?

AB: Adesso come adesso non mi pongo più il problema. Ormai la mia musica si indirizza da sola. Dal momento che io devo fare o un concerto, o devo scrivere un lavoro che uno mi può commissionare, non ho bisogno di grandi riflessioni per capire. Per me la musica viene fuori da sola. Forse sarò un privilegiato sotto questo profilo. Che io vada a suonare ad un concerto dove si fa della musica latino-americana, o dove si faccia musica improvvisata, o dove si fa musica d’avanguardia, se le cose mi piacciono, le accetto e le faccio. Il discorso concettuale si è maturato già nel tempo. Per me è stato un lavoro di speculazione molto forte nel passato. C’è stata la speculazione se vogliamo filosofica, c’è stata la speculazione politica, mi sono anche molto impegnato sotto questo fronte e sono stato anche molto esposto. Senza rimpianti, anzi, lo rifarei. Per cui tutto questo tipo di esperienze, di riflessioni, di speculazioni, mi hanno permesso di arrivare ad un pensiero che si è consolidato. Che quindi non ha più bisogno  di grosse riflessioni. Nasce, si sviluppa, scrivo musica che viene giù da sola. La scrivo, la suono. Trovo anche un pianoforte, o un organo Hammond, o una fisarmonica, o un flauto, quello che è, e suono. Posso mettermi a suonare tre ore di fila. Non esiste il problema.

SV: Ok, ti ringrazio allora intanto.

AB: Grazie.

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