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Cinema

Fenomenologia di un’icona: Bloomsbury al cinema

Immagine articolo Fucine MuteSull’onda dell’entusiasmo (?) per la visione de Le Ore (no, non il settimanale porno…), una curiosità irrefrenabile mi spinge a ricercare in quanti e quali film il gruppo di Bloomsbury faccia capolino, come nel caso della suddetta pellicola, tratta dal ponderoso libro di Cunningham. Un paio di titoli si ricordano a memoria d’uomo: come dimenticare l’Orlando di Sally Potter? Gli altri sono sepolti dalle nebbie del tempo e in alcuni casi introvabili in Italia (Gita al Faro, ad esempio).

Mi procuro il meglio reperibile. Impressione immediata: perché quando si tratta del gruppo di Bloomsbury si finisce per scadere sempre nella soap opera? Se la vita è un’opera d’arte, chissà cosa penserebbe Mrs. Woolf all’idea di vedere la sua esistenza (e la sua morte) ridotte a racconto d’appendice. Più fortuna hanno i personaggi creati da Forster, ma anche su questo non possiamo non fare una considerazione: basterà il tocco, appannato e a volte manierista, di Ivory per rendere giustizia ad un uomo, che forse non sarà mai considerato un classico?

Accanto ai titoli tratti direttamente dai romanzi, bisogna fare i conti con le biografie e gli sprazzi di vita vera che vi emergono. Tuttavia, deliberatamente, metterò sullo stesso piano gli uni e le altre, perché un insondabile trait d’union li unisce, pur nella diversità: l’ambiente mentale che si cerca di investigare è sempre quello della persona che sta dietro il personaggio. Si descrivono le creazioni, ma l’intento è penetrare nella psiche del creatore, automaticamente inserito nel contesto che ci è più familiare. Il risultato di questo punto di vista nella narrazione è il ridurre tutto ad un solo centro di gravità, inevitabilmente Bloomsbury: perciò Mrs Dalloway parla di Clarissa, ma sottintende Virginia, la quale a sua volta sottintende Bloomsbury. Questa sorta di transfert dall’autore (e dagli amici dell’autore) al libro e viceversa è immediatamente rinvenibile in tutti i film: tutti, infatti, ci descrivono la stessa atmosfera, che il racconto si basi su romanzi o sulle vicende personali. Ci deve pur essere un motivo, se questo accade, che l’autore del film stesso lo voglia o no.

Ma procediamo con ordine.

Immagine articolo Fucine Mute

Numerosi, dopo anni di silenzio dalla sua morte, sono sbocciati i titoli tratti dalle opere di Virginia (ormai ci diamo del tu). Tutti scientemente incentrati sulle sue indimenticabili figure femminili: il già citato Orlando, portato in scena da una mai più così brava Tilda Swinton, e Clarissa Dalloway, interpretata dalla Redgrave. Pieno di brio e studiatissimo nei dettagli (e l’influenza di Greenaway si vede tutta) il primo film, quanto lento e a tratti ridondante il secondo. Entrambi fanno fatica a gestire i “moments of being”, irrappresentabili sullo schermo, ma la Potter (genialata!) ha l’idea dello sguardo in macchina: è la carta vincente, quello che manca a Mrs Dalloway per decollare davvero. La Swinton incarna un’icona (e sui perché avremo tempo di interrogarci in seguito), la Redgrave fa rimpiangere il donnone inglese che si nasconde sotto l’abito verde di Clarissa. Perché per rappresentare il freddo sospiro della morte Gorris scelga di tenere un ritmo snervantemente moscio ci è ignoto, ma l’esito delle scelte registiche rende il film in definitiva un mezzo polpettone. Gita al Faro merita un discorso a sé. Prodotto dalla BBC, come “Non ci sono solo le Arance” della Winterson, mostra i limiti della regia televisiva: poco inventiva, statica e figurinista. Ha il pregio di cercare di entrare nella psicologia delle donne del romanzo, restando, tuttavia, piuttosto superficiale.

Immagine articolo Fucine MuteI romanzi di Forster, dicevamo, hanno avuto maggiore fortuna: presi in appalto da Ivory (che ne ha girati ben tre!) sono stati trattati con i guanti. Troppo! Guardare Camera con Vista o Casa Howard dà lo stesso brivido polveroso che si ha entrando in un museo: scene curatissime, inquadrature da bozzetto di Turner, costumi impeccabili, recitazione very british. Tutto però collabora a comunicarci un’idea di archeologico, di antiquariato di gran classe, ma in assoluto di assenza di emotività: paradossale, giacché Forster è il più comunicativo (il più semplice per certi versi) dei romanzieri della sua epoca. Maurice, uno dei più celebri film a tematica omosessuale, conserva lo spirito del libro, la delicatezza e la sincerità ricercata nello scritto. Per una volta lo stile di Ivory non lo rende freddo, anzi ne esalta il ritmo pacato e la studiata, sottesa, sentimentalità. Monteriano è quello che è: un intrigo zitellesco, e il film, nel bene e nel male, ne conserva gli intenti. Indimenticabili le scene d’isteria femminile, deliziose nella loro totale, sbandierata, assenza di verità. Passaggio in India è meno fedele al romanzo, ma è anche il più originale: forse un po’ frigido, prende la protagonista e la fa a fettine, in un modo che a Forster sarebbe piaciuto. Peccato per la pedanteria in certe descrizioni dell’India coloniale, che ne fanno smarrire la capacità visionaria.

Altri nomi, più o meno noti, appaiono qua e là, alla rinfusa in titoli che, per certi versi, hanno molto della collana Harmony, molto poco della biografia. Dora Carrington, Bertrand Russel, Maynard Keynes, T. S. Eliot, sono al centro, o ai margini, in storie sentimentaloidi, tutte trattate non bene, raccontate in film (a parte il Wittgenstein) in cui di tanto in tanto si può vedere spuntare un personaggio più famoso (l’onnipresente Vanessa Bell), per far da contentino al filologico spettatore che se lo aspetta da un momento all’altro. E se uno spettatore ha bisogno di un contentino…

Carrington: sembra Bloomsbury, ma è Stranamore. Dora s’innamora di lui, lui è casualmente Strachey, troppo gay per lei, che si consola saltabeccando di accoppiamento in accoppiamento (ancora non mi capacito della scena della scopata “da dietro”: perché qualcosa che poteva essere detto in mille altri modi, è reso in modo così squallidamente volgare?). Poteva essere un bel film, sospinto com’è dalla verve drammaturgica (in fondo è realizzato da un commediografo) e da un gusto accentuato per la fuga dal banale e dallo stereotipato, ma scade nella eccessiva frettolosità, nella incapacità di spiegarci i moventi passionali (grosso limite per un movie che solo di passioni parla), nella autocompiaciuta ricerca della trasgressività, inspiegabile se non in un’ottica borghesotta. Potrei usare le medesime espressioni per descrivervi Tom & Viv, che almeno è recitato meglio: in Carrington, la Thompson è piatta e prevedibile come la Val Padana. Jarman ci racconta un nostalgico Wittgenstein: un genio circondato da geni, in un film geniale e nevrotico come pochi. Ritroviamo la Swinton, attrice culto, “inventata” da Jarman.

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Vi ho parlato del come Bloomsbury sia stato trattato: ben più arduo sarà cercare di spiegarci il perché, e soprattutto il perché del come.

Vita Sackville-West amava soprannominare la cerchia, di cui faceva parte, con il termine Gloomsbury, che rende benissimo l’atmosfera che doveva regnarvi: una gloomy saudade, se mi si consente il neologismo. Se lo diceva lei, ne avrà avuto ben donde. La compagnia di geni tristi, pensierosi, tutti un po’ froci, ma tanto tanto intelligenti è un appeal irresistibile per l’intellettuale, che si riconosca o no in questa macchietta. Questo spiega perché i film summenzionati non siano stati certo dei blockbuster: un preciso target comporta precise scelte stilistiche, precise scelte stilistiche renderanno l’opera accessibile a diversi tipi di spettatore. Il pubblico che ha visto questi film è in linea di massima miope, sui venti o trenta, melancolico, incredibilmente dotato. Non mi credete? Fate bene: è sorprendete la capacità che hanno le semplificazioni di attrarre pubblico. Dicotomia: fare un bel film su qualcosa a cui si tiene (Che ha tormentato la mia adolescenza, come disse di Orlando la sua regista), o proporre al pubblico un prodotto onesto, che non osi più di tanto, ma sia vendibile agli americani? La scelta mi sembra ovvia. Solo Ivory può permettersi di fare un film “alla Ivory” e di venderlo alla Miramax. Si spoglia così la complessa realtà e la si semplifica per la grande audience: le passioni tormentate diventano amori trasgressivi, il dissidio interiore diventa mera incapacità di decisione, la depressione diventa noia. Persino l’intelligenza diviene una versione più semplificata di sé, che non crea problemi e non suscita dubbi: l’intellettualismo. Così la signora va al cinema e trova la storia sentimentale infelice di Carrington, la cartolina di Firenze di Camera con Vista, i dubbi quotidiani, sull’orlo della tristezza, di una casalinga, in cui può riconoscersi, che, solo per caso, vive in Inghilterra. A parte Orlando, vera seduta di terapia collettiva per adepti al culto della Woolf, tutti i film sono ridotti all’osso: per questo non comunicano molto più di quello che è immediatamente recepito da chiunque. Sono scarni, sono belli, algidi, ma spaventosamente banali. Ma allora perché? Perché fare un film e sapere di dover girare un pastiche ben congegnato ma privo di sostanza? Pur non volendo dire stupidaggini, un regista degno di questo nome sa sempre perfettamente a quali compromessi dovrà scendere con il pubblico perché qualcuno spenda i soldi del biglietto. Non si può sempre contare sugli aficionados che “si bevono” tutto: anche il lettore Woolfiano più agiografico rimarrà inorridito di fronte alla spaventosa banalizzazione del rapporto fra Virginia e Vanessa in The Hours. E, dunque, signori miei, perché? Perché Bloomsbury, con il rischio che si corre nel parlarne, fa ancora parlare di sé? Azzardo una risposta: esorcismo, catarsi collettiva, emancipazione. Quanto della cultura del Novecento si deve a quelli di Bloomsbury e a chi gravitò attorno al loro gruppo? Dalla matematica all’economia, passando per la letteratura, quel quartiere di Londra ha significato per noi, nati il secolo scorso, ciò che Atene deve aver significato per la cultura Latina e Romana. Come Seneca copiava, a modo suo, le tragedie di Eschilo, così noi oggi copiamo Bloomsbury a nostra immagine e somiglianza, masticandolo, cercando di digerirlo, finché molto poco resta della sua vera essenza. Pur sapendo che stiamo snaturando un mito, non possiamo fare a meno di rapportarci ad esso: il semi-interrato dei Woolf diviene un’icona. Un’icona del Novecento, un’immagine della nostra concezione della ricerca intima, il santino che ci siamo fatti dell’intellettuale, perché non siamo così, per non essere così. Scaviamo nelle menti di uomini e donne che ci hanno perseguitato come miti, ma siamo troppo spesso incapaci di osservarne le miserie: godiamo della apparizione di Vanessa Bell, perché sappiamo tutto di lei; sorridiamo sghembi di fronte al bacio tra Orlando e Sasha perché abbiamo passato ore ad immaginarcelo; diamo di gomito al nostro vicino indicandogli la temibile cameriera dei Woolf, perché abbiamo Vita Sackville-Westletto il carteggio tra Virginia e Vita. Sì, ammettiamolo, semplifichiamo per vendere, ma raccontiamo tutto fra le righe: i film non dicono niente, ma quanti racconti di adolescenze critiche (di Jarman o della Potter), le nostre adolescenze, troviamo in quei particolari che gli altri non notano! Tutto è sfumato, sopra le righe, comprensibile solo per “chi sa”, in un angosciante quanto liberatorio rito iniziatico. Come l’aver accesso ai Misteri Eleusini, come il partecipare ad una riunione di massoni: con questo spirito si girano tali film, e con questo spirito andiamo a vederli. Bloomsbury pesa come pesano i modelli, ma suscita la stessa infantile curiosità che suscita il sesso praticato dai genitori, se mi lasciate passare la metafora. Abbiamo bisogno di umanizzare il mito, ma non ci rendiamo conto che proprio attraverso questo processo di cristallizzazione, in realtà, lo stiamo ponendo sul più alto piedistallo. E porre su di un piedistallo qualcuno o qualcosa gli rende onore, ma è un modo subdolo, freudiano, di allontanarne la problematicità da sé. è come se tutti uscissimo dal cinema vagamente insoddisfatti, ma tranquillizzati all’idea di aver riposto sulla mensola un ingombrante volume che ci ha preso tanto spazio mentale. In ciò si rivela la nostra debolezza, ma anche la straordinaria capacità di quelle personalità di penetrare ancora profondamente nel nostro subconscio con le loro storie umane. Bloomsbury è attuale: lo manteniamo in vita film dopo film, libro dopo libro. è straniante considerare come vi sia, in apparente subordine, un automatismo per cui quello che è stato solo un melange di enormi personalità, non una scuola, né un insieme omogeneo, sia preso sempre come Leviatano: come un tutto fuso in un blocco. Questo tentativo di reductio ad unum è specchio di una difficoltà profonda nel riuscire ad analizzare tali soggetti uti singuli: li si appiattisce sempre sullo stereotipo che della loro congrega si ha, negandone l’autonomia di persone vere, in carne de ossa. Quanto questo processo culturale sia consapevole, quanto, invece, sia inconscio, non ci è dato sapere. Probabilmente, come sempre accade per le creazioni culturali, non possiamo neppure pronunciarci sulla sua bontà: è auspicabile che si impari a gestire tale evoluzione, tornando alla realtà degli uomini e delle donne, abbandonando il mito? Il confronto con un insieme di nomi, emersi come gigantesche individualità, ancora disturba un’intellighenzia fortemente problematizzata, sottoposta alla spaventosa pressione della massificazione e della commercializzazione del sapere. Abbiamo un rapporto edipico con le ombre in un interno londinese? Forse. La cultura, che stiamo costruendo, sarà schizofrenica o non sarà affatto? Nulla riuscirà a liberarmi dal dubbio che questa ricerca di tranquillizzanti semplificazioni non nasconda volute inettitudini, l’incapacità di trovare un ruolo in questo mondo squinternato, e una ragione nuova, non anacronistica, per essere ancora intellettuale.

Carrington (id.)
GB-Fr. 1995
REGIA: Christopher Hampton
ATTORI: Emma Thompson; Jonathan Pryce; Steven Waddington; Rufus Sewell; Samuel West
GENERE: Biogr. DURATA: 122′


Mrs. Dalloway (id.)
GB-Ol. 1997
REGIA: Marleen Gorris
ATTORI: Vanessa Redgrave; Natascha McElhone; Rupert Graves; Michael Kitchen; John Stunding; Alan Cox; Lena Headey; Katie Carr
GENERE: Dramm. DURATA: 90′


Tom & Viv – Nel bene e nel male, per sempre (Tom & Viv)
GB-USA 1994
REGIA: Brian Gilbert
ATTORI: Willem Dafoe; Miranda Richardson; Rosemary Harris; Tim Dutton; Nicholas Grace; Philip Locke; Clare Holman
GENERE: Biogr. DURATA: 125′


Orlando (id.)
GB-Russ.-Fr.-It.-Ol. 1992
REGIA: Sally Potter
ATTORI: Tilda Swinton; Billy Zane; Charlotte Valandrey; Lothaire Bluteau; John Wood; Heathcote Williams; Quentin Crisp
GENERE: (inclassificabile) DURATA:100’


La gita al faro (To the Lighthouse)
GB 1984
REGIA: Gregg Colin
ATTORI: Rosemary Harris; Michael Yough
GENERE: Dramm. DURATA: 90′


Camera con vista (A Room with a View)
GB 1985
REGIA: James Ivory
ATTORI: Helena Bonham Carter; Maggie Smith; Denholm Elliott; Julian Sands; Daniel Day-Lewis
GENERE: Comm. DURATA: 115′


Casa Howard (Howards End)
GB 1992
REGIA: James Ivory
ATTORI: Vanessa Redgrave; Emma Thompson; Anthony Hopkins; Helena Bonham Carter; James Wilby
GENERE: Dramm. DURATA: 135’


Maurice (Maurice)
GB 1987
REGIA: James Ivory
ATTORI: James Wilby; Hugh Grant; Rupert Graves; Denholm Elliott; Ben Kingsley
GENERE: Dramm. DURATA: 120’


Monteriano – Dove gli angeli non osano mettere piede (Where Angels Fear to Tread)
GB 1991
REGIA: Charles Sturridge
ATTORI: Helena Bonham Carter; Judy Davis; Rupert Graves; Giovanni Guidelli; Barbara Jefford; Helen Mirren
GENERE: Dramm. DURATA: 90’


Passaggio in India (A Passage to India)
GB 1984
REGIA: David Lean
ATTORI: Judy Davis; Alec Guinness; Victor Banerjee; Peggy Ashcroft; James Fox; Richard Wilson
GENERE: Dramm. DURATA: 119’


Wittgenstein (Wittgenstein)
GB 1993
REGIA: Derek Jarman
ATTORI: Karl Johnson; Michael Gough; Tilda Swinton; John Quentin; Kevin Collins; Clancy Chassay; Jill Balcon
GENERE: Dramm. DURATA: 98’


Le Ore (The Hours)
USA 2002
REGIA: Stephen Daldry
ATTORI: Meryl Streep; Julianne Moore; Nicole Kidman; Ed Harris; Toni Collette; Miranda Richardson; Claire Danes
GENERE: Dramm. DURATA: 115’

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