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Fumetto

Robin Wood: la magia, il mito, l’avventura

Lo stile di Wood

Immagine articolo Fucine MuteQuando Wood fece la sua comparsa su Lanciostory il mondo delle nuvole parlanti nostrane era già stato scosso dalla ventata di novità giunta dalla Francia. Ma la rivoluzione di Metal Hurlant (e le sue appendici italiche) rinnovò soprattutto la sostanza delle storie, superando alcuni tabù e affrontando temi maturi. Per quel che riguarda la forma, dall’Incal a Tex le didascalie rimanevano una pletora di “poco dopo…”, “giunti sul luogo dei fatti”, “il terrore si dipinge sul volto dell’uomo”, “il nostro protagonista si chiama così e cosà, fa questo e quest’altro, ed in questa avventura…”, ecc. I grandi sceneggiatori argentini avevano adottato invece da decenni una scrittura più fluida e coinvolgente e, in anticipo sui tempi, potevano anche eliminare del tutto le didascalie. Da Oesterheld a Mazzitelli, le sceneggiature argentine hanno sempre avuto una notevole espressività: pensiamo agli ammiccamenti di Trillo, ai flussi di coscienza di Saccomanno, alla fulminante secchezza di Barreiro. Addirittura, se confrontiamo Larry Mannino con il suo omologo originale Precinto 56 scopriremo vari “aggiustamenti” eseguiti dall’Eura per smussare uno stile troppo in anticipo sui tempi, che contemplava anche interpellazioni dirette e molteplici stratificazioni di pensiero. Robin Wood si inserisce da par suo in questa tradizione, tanto da divenire un vero punto di riferimento per i colleghi (al riguardo v. I “seguaci” di Robin Wood e Armando Fernandez: il “vice” di Wood).

Così ha esordito in Italia, ed è stato amore a prima vista: “Lenta, pesante, la sera sta cadendo sul villaggio. Acuto, quasi aspro, l’odore degli aranci e dei limoni ha vinto il calore del giorno. Un presagio di frescura, che ha fatto aprire porte e finestre, come occhi neri nei volti impassibilmente bianchi delle case. Occhi vuoti, però. Perché nessuno questa sera passeggia per le strade e i vicoli del paese. E anche i pochi pastori ritardatari si affrettano a rinchiudere il gregge ed a tornare subito a casa. Sì, c’è odore di violenza in questa sera dell’estate 1920, a Graziano.” “Papà è morto questa settimana. Cinque parole. E in cinque parole c’è tutto. C’è la fine della mia gioventù, di un’epoca della mia vita…caro papà…caro papà distratto, perso nei suoi libri rilegati in cuoio, nei suoi ricordi di una Buenos Aires del 1930…”. La prosa del Wood maturo (visto che ai tempi di Nippur e Jackaroe non poteva avere ancora tanta scioltezza) apre un nuovo ventaglio di possibilità su come si possano usare le didascalie. La solennità degli incipit dei suoi fumetti più marcatamente avventurosi convive con il profondo pathos che delinea gli aspetti più umani dei suoi eroi, ed il tutto viene condito con una grande evocatività.

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Il brano di Gilgamesh sulla morte di Cristo è giustamente passato alla storia (“Ora il cielo è grigio e le tenebre avanzano veloci, trasportate da un vento gelato. Il sole è una moneta nera. […] Il buio è totale. E nel buio, il coro di spavento che si alza dalla città. Il corpo sulla croce sembra senza peso.”), ma anche passaggi come “Il verme della memoria che si contorce, a disagio” valgono più di pagine e pagine di descrizioni. Wood, insomma, è un maestro di retorica ma questa qualifica ha dovuto guadagnarsela sul campo e non si tratta di uno stile ideato a tavolino. Il grande protagonista delle storie di Wood è infatti l’Uomo e nell’esaltare le grandi imprese (ma anche le abissali miserie) del suo simile, è logico che Wood abbia sviluppato uno stile così acceso e partecipato. La fascinazione dello sceneggiatore per le vette di eroismo, lealtà e passione di cui è capace l’umanità è complementare all’abiezione ed alla crudeltà più profonde, anch’esse indiscutibilmente legate alla natura umana e perciò contemplate da Wood. Questa sua attenzione antropologica ha reso poco meno che vivi i suoi personaggi più riusciti, ed ha disseminato tutta la sua produzione di figure indimenticabili (che si tratti dell’antica Sumeria o di un apocalittico futuro). L’espediente delle didascalie in prima persona è piuttosto comune nelle serie di Wood (ed ha coinvolto saghe importantissime come quelle di Helena, Gilgamesh e Hard World — Morgan) ma non mancano neppure occasionali “controcanti” in cui è un personaggio secondario a narrare le gesta del protagonista. Ed anche negli orditi più sofisticati Wood non perde occasione di dare sfogo alla sua sferzante ironia.

Immagine articolo Fucine MuteLo stile vivo e coinvolgente di Wood è diventato presto il marchio di fabbrica dell’Eura. Che si trattasse di tradurre Modesty Blaise o un fumetto francobelga, l’adattamento ha quasi sempre puntato su una reinterpretazione alla Wood. Addirittura, al momento del varo della collana Euracomix i fumetti ristampati non solo hanno subito una compattazione ed un rimontaggio talvolta discutibili, ma sono stati riscritti di sana pianta nelle parti ritenute più invecchiate, ovvero le didascalie. Ma visto che gusti e stili non sono eterni, a metà anni ’90 Wood ha dovuto rinnovarsi e (probabilmente su indicazioni dell’Eura) le sue famose didascalie si sono fatte sempre più rare fino a scomparire quasi del tutto. Mark e Angel (presentati su Skorpio nel 1996) furono addirittura privati di molto “scritto” in favore di una più immediata lettura; per fortuna Villagran e Risso sono ottimi narratori. Oggi pare che il momentaneo furore dell’Eura contro le didascalie sia passato, ed infatti stanno rifacendo occasionalmente capolino in Dago e Martin Hel, mentre Jackaroe non ha subito lo stesso filtraggio di Mark e Angel. E, indipendentemente dalla maggiore o minore verbosità che li accompagna, i personaggi di Wood continuano a farsi campioni e portavoce dell’Uomo. Indignandosi, entusiasmandosi, compiendo imprese eroiche ma anche mostrando senza vergogna lo loro debolezze.

Gli “infiniti ritorni” di Robin Wood

Un giovane nobile si ritrova, per caso fortuito, unico superstite al massacro della sua famiglia. Dovrà imparare a sopravvivere in un mondo ostile e, soprattutto, in un ambiente assai diverso da quello in cui è cresciuto: ciò però non gli impedirà di guadagnare un profondo rispetto e un’invidiabile posizione sociale in quello stesso ambiente così estraneo al suo. Il giovane nobile completa il suo percorso iniziatico, vendica la sua famiglia e le sue avventure continuano.

Immagine articolo Fucine MuteQuesta è, in estrema sintesi, la trama di Dago. Ma lo stesso canovaccio si può individuare pressochè invariato in moltissime altre opere di Wood (tendenzialmente, nei capolavori). Saverese, Dax, Anders, Kayan, Chaco, Il Morto, Nan Hai, Mojado e Jackaroe sono praticamente calchi semantici di Dago: è sufficiente sostituire alla aristocrazia una élite economica, politica o culturale (i bianchi che governano nel West di Chaco e nella Cina di Dax, il villaggio persiano di Kayan sopraffatto dai selvaggi unni, la famiglia Savarese trasfigurata romanticamente in una cosca di “mafiosi buoni”…). E a livello narratologico turchi, cinesi, indiani, americani e russi sono la stessa identica cosa: il duro campo d’addestramento nel quale l’eroe temprerà il suo fisico e il suo carattere. Questa traccia invariabile non ha ammesso finora che due eccezioni, basate più sulle sfumature che sull’essenza: Mojado e Anders, in effetti, non possono certo dirsi “aristocratici” ma, per il resto, il loro traumatico percorso formativo sarà identico a quello dei congeneri. Né mancano piccole diversità basate sulla metafora o sull’amplificazione: la “famiglia” de Il Morto è composta ovviamente dal suo reggimento, non da fratelli o cugini, e Chaco subisce ben due volte la genesi suesposta: prima gli indiani hanno massacrato la sua famiglia bianca, poi i bianchi (su ordine dei suoi stessi lontani parenti) hanno distrutto la sua tribù apache!

A ben guardare, poi, alcuni di questi topoi si possono rinvenire isolatamente o parzialmente modificati anche in altre serie. Il Cosacco, ad esempio, è anch’egli vittima di una ritorsione contro la sua famiglia e anche lui sarà costretto per lungo tempo all’esilio. Essendo cosacco, poi, Sacha Veblin è per forza di cose un essere speciale (ed è pure aristocratico, in quanto figlio del principe Fedor Veblin, ma non è questo il punto).

Mark, tutto sommato, è sopravvissuto al disastro atomico in quanto figlio dell’élite scientifica che lo aveva previsto.

Kevin deve al confronto con il mondo islamico la sua maturazione.

Ibañez è anch’egli un eroe spossessato costretto ingiustamente al vagabondaggio.

E la lista potrebbe continuare ancora a lungo.

Qualche decennio fa i critici di stampo psicanalitico si sarebbero gongolati nell’estrapolare un’analisi clinica di Wood da tutti questi fantasmi ricorrenti (d’altronde è materiale che si presta molto bene ad un approccio del genere) ma è senz’altro più interessante capire come questi elementi abbiano fatto veramente la fortuna di Wood.

Jackaroe

Le primissime produzioni dello sceneggiatore erano caratterizzate da un approccio frammentario alla narrazione, sviluppandosi su episodi autoconclusivi perfettamente chiusi in sé. Almeno è quello che si evince da serie come Jackaroe e Lei e io, e dal fatto che la saga di Nippur de Lagash era un susseguirsi di nuove vicende basate sul protagonista di quello che in origine doveva essere solo un libero. Una narrazione più “aperta”, con una meta ben precisa da raggiungere (e quindi anche con uno sviluppo pilotato), sarebbe quindi un’introduzione successiva nel modus operandi di Wood. Visti i già citati problemi di collocazione temporale, diciamo che questo metodo in progress si afferma negli anni ’70 con Savarese e poi con Dago. Wood aveva già mostrato la sua stoffa di narratore con le opere precedenti, ma le caratteristiche tematiche che abbiamo individuato prima furono decisive per la sua definitiva affermazione.

L’elemento trainante della vendetta “giusta” dopo i patimenti subiti è molto affascinante e può esercitare una forte attrattiva soprattutto su un pubblico giovane, aiutato nell’identificazione dalle varie sfaccettature e complessità che Wood sa dare ai suoi personaggi. Se Superman e gli altri supereroi classici possono essere la cartina di tornasole delle aspirazioni e dei desideri inconfessabili dei maschi in fase prepuberale, gli eroi spossessati di Wood esercitano il massimo del loro carisma su chi l’adolescenza la sta vivendo o la sta già superando. Nonostante l’entusiasmo che Dago, Savarese e gli altri mettono nell’affermare la propria individualità e nel perseguire un ideale alto e universale, finiranno inevitabilmente per integrarsi, per conformarsi a quella norma (spesso una qualche forma di Potere) che magari hanno passato la vita a combattere. Alla fine di Anders i due protagonisti diventano dei ricchi borghesi. Dopo le varie avventure che ha vissuto, Il Morto presterà finalmente fede al suo nome. Nan Hai, alla fine, si trasformerà nel suo stesso nemico…

DraculaQuello che Robin Wood mette in atto in queste serie è in fondo la rappresentazione degli ultimi squarci di sana ribellione prima dell’arrivo della routine e del conformismo: questa costante possiamo ritrovarla persino in Dracula, Merlino ed Ulster. E benché lo sceneggiatore abbia creato personaggi dalle psicologie più varie, sono probabilmente questi eroi un po’ crepuscolari quelli che più lo caratterizzano. Per cui il ricorso al medesimo schema di base (applicato alle latitudini ed alle epoche più diverse) diventa un vero marchio di fabbrica e non un semplice escamotage per vivere di rendita sul lavoro già svolto.

Robin Wood e la continuity

Con il termine “continuity” si intende nel fumetto (soprattutto in quello supereroistico) la stretta coerenza interna che la narrazione deve seguire, per cui un dato evento può avere ripercussioni anche a distanza di tempo ed un dato personaggio è localizzato temporalmente senza possibilità di modifiche. Tout se tiens, o almeno così dovrebbe essere: ignorare alcuni accadimenti o cambiare da un episodio all’altro le caratteristiche di un personaggio è un errore. Per esteso, oggi il termine “stretta continuity” sta ad indicare un particolare lavoro sulla sceneggiatura teso ad imbastire una fitta trama di eventi perfettamente coerenti e collegati.

Robin Wood non si è mai curato più di tanto di inserire i suoi personaggi in un flusso continuo di avvenimenti che evolvessero col procedere delle serie. Si può dire anzi che, soprattutto nei primi tempi, ogni singolo episodio fosse autoconclusivo e difatti di puntata in puntata Nippur, Jackaroe e gli altri saltano da una situazione e da un’ambientazione all’altra senza soluzione di continuità. La “fine posticcia” (di cui parleremo trattando di Armando Fernandez) fa anch’essa propendere per l’immagine di un Wood incurante dei problemi di organizzazione e logica interna della narrazione. E invece non è affatto così.

Nippur

Wood ha semplicemente un modo molto personale (e praticamente unico) di intendere la continuity. Ce ne accorgiamo solo alla seconda lettura di una serie “eterna”: quel personaggio che magari fa capolino solo per poche vignette o quell’evento di cui si parla di sfuggita sarà sotto i riflettori nell’episodio successivo. E di certo nel leggere le due storie a distanza di tempo non si coglie l’occasionale riferimento, ma una volta che la (ri)lettura procede spedita dall’inizio alla fine si ha la piacevole sensazione di assistere ad una concatenazione di eventi molto precisa e raffinata. La continuity di Wood non è “urlata” e lo sceneggiatore sa come soddisfare anche un eventuale lettore occasionale, offrendogli storie perfettamente chiuse in sé pur se cariche di riferimenti non invasivi a ciò che è successo prima e a ciò che succederà dopo. Si tratta insomma di un buon sistema per venire incontro al nuovo pubblico donando contemporaneamente a quello consolidato un ulteriore livello di lettura.

Ci sono ovviamente casi più specifici. La penultima produzione di Wood, impostata su archi narrativi di tre episodi, mantiene una stretta coerenza interna e per capire tutta la storia non va persa una puntata. Un vero gioiello di architettura narrativa è la serie Danske (bella fantascienza postatomica disegnata da Enrique Villagran): esiste una trama generale che richiede un dato svolgimento; nell’avvicinamento alla meta della storia Danske vive situazioni complesse che si sviluppano in blocchi di tre episodi; ogni singolo episodio è perfettamente chiuso in sé, ha un inizio ed una fine pienamente soddisfacenti per il lettore.

Immagine articolo Fucine MuteAnche Kayan ha uno svolgimento molto appagate per il lettore. Il protagonista deve uccidere Attila ma questo scopo lontanissimo viene avvicinato sempre di più con la progressiva eliminazione dei luogotenenti dell’arcinemico. Sin dall’inizio sappiamo che potremo goderci la morte di Attila solo dopo un sacco di episodi (anche questo è il bello della narrativa popolare, no?) ma nel percorso verso l’ineluttabile finale le singole “tappe” non azzerano la vicenda ad ogni puntata ma bensì la arricchiscono e la sviluppano (per inciso, Kayan troverà ancora nuova linfa dopo il conseguimento del suo scopo, narrato peraltro in un episodio bellissimo e molto originale).

Esistono però anche fattori meno funzionali alo sviluppo delle storie, che possono lasciare perplesso il lettore fedele. Al brutto escamotage della “fine posticcia” si aggiunge l’abitudine di Wood di inserire ogni tanto qualche flashback di situazioni a cui in realtà non abbiamo mai assistito, oppure di ripescare dal passato dei suoi protagonisti alcuni personaggi importanti, che però prima non si erano mai visti. Questo può lasciare al lettore la brutta impressione di essersi perso qualcosa, o di non aver capito bene un vecchio passaggio che però, in realtà, non ha mai letto. Diamo una scorsa alla continuity di Dago per chiarire meglio il concetto, e per vedere come Wood applica concretamente il suo particolare flusso di eventi.

Inizialmente Dago è una serie apertissima che procede a “blocchi”. Esiste una trama generale (la vendetta contro gli assassini della famiglia) ma prima di arrivare al gran finale occorre che il personaggio “viva” e si sviluppi. Abbiamo quindi la serie di episodi dedicati alla schiavitù dell’eroe, legati da un filo apparentemente inesistente ma in realtà solidissimo. Nel quarto episodio, ad esempio, Barbarossa cita di sfuggita il remo come destino per Dago, e nel quinto ritroviamo il personaggio proprio a bordo di una galera. Tra i due episodi esiste quindi un solidissimo legame di causa ed effetto, ma il primo non lascia proprio nulla in sospeso, ed il secondo è anch’esso perfettamente autonomo. Nel settimo episodio, Yussuff Bey viene confinato nel deserto in seguito ai suoi madornali errori alla guida di una flotta. Come inizio è assolutamente “neutro” ma il lettore abituale è libero di immaginare che l’episodio per cui Yussuff Bey è stato punito sia lo stesso narrato due puntate prima. Ma ovviamente Dago non è caratterizzato solo da questi efficaci concatenamenti. Dopo essersi riscattato dalla condizione di schiavo Dago partirà alla volta di Costantinopoli facendo la conoscenza di Kerim Bey, l’aquila del mare, che comparirà nella serie in ben otto episodi (tutto Addio all’Africa, Ristampa Dago 5, e parte del successivo). In questa fase della saga Dago ritroverà un suo compagno di schiavitù, tale Hans, un personaggio che però ci è perfettamente sconosciuto! Siamo già al 34° capitolo della serie, ma non si tratta di un errore dovuto al mancato arrivo in Italia di un episodio: in seguito Wood avrebbe infatti escogitato altri espedienti simili, sino a imbastire veri e propri flashback che non hanno una vera corrispondenza nel passato. Ciò ha permesso un simpatico omaggio di Wood ad un suo fan; esaurita la fase in compagnia di Giovanni dalle bande nere, un lettore si chiese perché lo sceneggiatore non avesse riportato una delle sequenze più eroiche della vita del condottiero. Wood, che non era a conoscenza di quel particolare aneddoto, lo citerà in un flashback mentre Dago racconta al giovane Juan le prodezze dell’eroe.

DagoAl pari di Kayan, anche Dago concede delle soddisfazioni ai suoi lettori fedeli senza farli penare troppo nell’attesa del conseguimento del suo scopo. Due dei quattro cospiratori saranno infatti eliminati abbastanza presto (Kalandrakis nel 32° episodio e Ahmed Bey nel 51°) mentre il progressivo avvicinamento a Barazutti e Bertini viene ritmato da sequenze sparse in tutta la saga. Questa attenzione ai dettagli e alla loro organizzazione logica non impedisce però a Wood di generare “black-out” improvvisi: alcuni archi narrativi assai promettenti vengono infatti abortiti o dimenticati (che fine ha fatto il figlio che Dago avrebbe dovuto avere dalla nomade Salima?). E rarissimamente qualche granchio è in agguato: durante una delle sequenze dell’equipo Dago Orbashà ritorna in scena al fianco di Dago, cosa assai improbabile visto che aveva abbandonato l’amico in Un fantasma che uccide (Ristampa Dago 4) credendolo morto.

In conclusione, si può dire che la continuity di Wood, pur non strettissima, sia quanto di più piacevole per i lettori. Oggigiorno gli episodi settimanali sono impossibili da catalogare come “autoconclusivi” ed il piacere maggiore nella loro lettura viene dato dallo sviluppo della trama generale e dal conseguente cliffhanger. I riassunti mangia-pagina occupano ovviamente uno spazio direttamente proporzionale alla complessità degli eventi precedenti, ma per fortuna Euracomix e l’inserto ripristinano il maltolto. L’assenza di scialbi fill in (episodi riempitivi) si fa piacevolmente sentire, tanto più che con la cadenza settimanale ogni mese abbiamo oltre 50 pagine di Dago (a volte addirittura sufficienti a concludere un ciclo). E ovviamente lo stesso discorso è identico anche per Amanda e Martin Hel.

Cross over, team up e guest appearence in Robin Wood

Immagine articolo Fucine MuteAltri elementi mutuati dal fumetto supereroistico sono quasi normale amministrazione per Wood. Fin dagli esordi del genere un motivo d’interesse per il lettore era vedere i suoi beniamini interagire fra di loro senza il rigido steccato della testata personale a dividerli. La Justice League of America nacque proprio con l’intento di fornire un’appetibile vetrina ai probabili acquirenti e in epoca Marvel questo mezzo sarebbe stato ulteriormente adoperato e raffinato (con tanto di strillo in copertina sull’”ospite d’onore” di quel numero). Il “cross over” è l’impiego di molti personaggi su di un arco narrativo unico, che li vede coinvolti in un’unica storia frammentata nelle singole testate. Il “team up” è un particolare episodio (spesso “speciale”) che coinvolge più personaggi; in Italia i due Dylan Dog & Martin Mystere sono stati team up veri e propri.

È chiaro che Robin Wood non ha realizzato i suoi fumetti sulla spinta dei supereroi ed è quantomeno improbabile che abbia studiato la sintassi dei comic book per confenzionare le sue sceneggiature, eppure le citazioni ed i riferimenti che si trovano nella sua produzione la avvicinano decisamente a questo settore. Il rimando ad altri personaggi o ad altre serie non è ovviamente solo una prerogativa dei figli di Siegel & Schuster e Stan Lee ma laddove in altri contesti tutto si riduce all’ammiccamento o all’ironia, nelle opere di Wood gli “special guests” costituiscono spesso l’elemento scatenante (o addirittura risolutivo) delle vicende, assurgendo spesso al ruolo di deuteragonisti o di coprotagonisti veri e propri. E per questo pare lecito, in moltissimi casi, parlare di “team up” all’americana. Fermo restando che anche le semplici citazioni di altre opere costituiscono un gustosissimo valore aggiunto alle serie di Wood. Gli esempi sono molteplici ed in alcuni casi anche un po’ difficili da classificare (il personaggio ospite non viene citato per esteso, il riferimento è ad una serie inedita in Italia, ecc.). Proviamo a sparare nel mucchio, qualcosa verrà pur fuori.

Due delle serie più amate di Wood hanno avuto l’onore di numerose citazioni e “comparsate” in altre opere dello sceneggiatore. Il Cosacco estende la propria presenza aldilà dei decenni e lo ritroviamo, invecchiato, in Anders. Un suo discendente, poi, avrà l’onore di essere il coprotagonista di un’intensa sequenza di Amanda. E la stessa Amanda dividerà per un bel po’ la scena con Robert Preston, ovvero Il Pellegrino redivivo la cui serie era terminata anzitempo per i nuovi impegni assunti da Wood.

Ma la serie che ha avuto più omaggi in altre sedi è Gilgamesh, citato ogni tanto in Nippur di Lagash e ovviamente molto ricordato dai protagonisti delle storie che hanno a che vedere con i Primordiali (cioè Or Grund, Holbeck e Raycon; la prima serie è ancora inedita in Italia). Nella stessa saga dell’Immortale si possono trovare riferimenti sparsi ad altri personaggi, ma soprattutto c’è quel meraviglioso quinto episodio in cui Nippur recita da par suo accanto al serioso re di Uruk (“Sono Gilgamesh, signore di Uruk” “Sono Nippur, signore dei miei sandali”).

HelenaDa segnalare, per lo straniamento che induce, la citazione dei Los Amigos in Helena: fu uno choc per i lettori abituali di Lanciostory immaginare i freddi e sproporzionati Quince Mil e Josè Quiroga di Macagno calati nel contesto iperrealistico e raffinatissimo del divino Garcia Seijas. Fu sempre Helena ad ospitare nella sua serie Hilario Corvalan, personaggio inedito in Italia e comunque non ideato da Wood (il quale però forse ne ha scritto qualche episodio): in Argentina doveva essere molto popolare perché Wood se ne interessasse e la sua presenza mette in effetti un po’ in ombra la protagonista titolare.

Un altro personaggio inedito in Italia, Ted Marlow, viene introdotto di sfuggita in un episodio di Jackaroe (ma alcune fonti affermano che Ted Marlow non fu ideato da Wood, mentre altre sostengono che si trattava di un poliziesco e non di un western) e nello stesso episodio, datato 1970, si delineano i caratteri della futura serie Qui la legione. Recentemente, poi, Dago ha incrociato la strada di un curioso indio-vichingo chiamato Hjalmar: questo era il nome di un altro personaggio ancora inedito in Italia.

Esistono poi situazioni ricorrenti o elementi comuni che servono a creare un filo rosso tra le varie serie. Le prime vignette di Hard world-Morgan e di Starlight sono praticamente identiche, con il protagonista chiuso nella cella nera impegnato a non impazzire. E Wood ha creato anche un personaggio privo di una sua serie, ma con cui i suoi eroi “ufficiali” si sono trovati ad interagire: si tratta della killer orientale nota come Salamandra, di cui abbiamo traccia in Port Douglas e ne Il Pellegrino. E per chiudere in allegria citiamo le fulminanti guest appearence di Nippur e Jackaroe rispettivamente in Pepe Sanchez e Lei e io.

Fantascienza: la “bestia nera” di Wood?

Robin Wood ha dimostrato di prediligere come genere l’avventura, meglio se ambientata in un preciso contesto storico che solitamente sa ricreare con particolare credibilità. Il filone “storico-avventuroso” costituisce addirittura più dei ¾ della sua produzione totale e quasi tutte le sue opere migliori si inseriscono in questo gruppo. Anche le rare incursioni nel fantasy possono venir catalogate accanto a Dago e a Nippur: i superlativi Merlino e Ulster, ad esempio, non sono interamente frutto della fantasia di Wood ma rappresentano delle ulteriori interpretazioni di materiale letterario e folcloristico preesistente.

Lei e io

Per quantità, i fumetti comici vengono subito dopo quelli d’avventura: anche qui non mancano gioiellini (un nome su tutti: Lei e io). Purtroppo la produzione umoristica di Wood non è stata molto considerata in Italia, dove abbiamo apprezzato solo alcuni liberi, Pepe Sanchez, Lei e io e la strip Putifat (e forse in quest’ultimo caso non abbiamo nemmeno “apprezzato” molto…).

Il western viene trattato in maniera molto personale e comunque si limita a due serie: Chaco e Jackaroe, entrambe abbastanza virate sullo storico e sul drammatico. Un altro western sarebbe Billy Grant (disegni di Vogt) ma si tratta di un western umoristico, e oltretutto è inedito in Italia.

Poliziesco e “drammatico” sono rappresentati solo una volta ognuno, ma in entrambi i casi assai bene, rispettivamente da Big Norman e Mojado (ci sarebbero anche Savarese ed Helena, troppo complessi però per rientrare in un genere ben delimitato). Queste considerazioni andrebbero limitate alla sola Italia, visto che in Argentina Wood fu collaboratore (se non creatore in toto) di personaggi forse ascrivibili al poliziesco o al “drammatico”: Ted Marlow, Hilario Corvalan, Harry White, Dave y Booth, Troels… in mancanza di documentazione specifica, accontentiamoci di queste segnalazioni.

E la fantascienza? Quanta importanza ricopre nella produzione di Wood? Apparentemente non poca se ci fermiamo solo alla quantità ma per quel che concerne la qualità il discorso cambia. Prima, però, bisognerebbe chiedersi se Wood accetta fino in fondo le regole e gli archetipi del genere o se questi gli sfuggono di mano. Gli gnomi e gli altri mostriciattoli di Raycon e Holbeck sono fantascienza o fantasy? Gli scontri nei bar e dal barbiere in Starlight non ricordano un po’ troppo il western classico?

Esiste, in sostanza, un primo grosso limite nell’approccio di Wood alla fantascienza: l’assoluto disinteresse per la costituzione di un universo coerente e, di conseguenza, il semplice utilizzo di convenzioni trite e ritrite. A volte questa adesione superficiale ai canoni della fantascienza porta incidentalmente alla nascita di buoni o ottimi fumetti, ma più spesso Wood non fa altro che ammantare di ridicolo anche le intuizioni migliori. Carlos Trillo non ama la fantascienza (“Io non so scrivere di astronauti, certo posso farlo per denaro, ma non mi va”, Fumo di china 20bis speciale Argentina del 1993) ma ciò non gli ha impedito di confezionare capolavori assoluti come Rifiuti e Cybersix, ed altri “gioiellini” come Julian Estrella. Per Wood invece il discorso è diverso, forse le storie di “astronauti” non sono nemmeno percepite come genere autonomo, ma solo come uno dei tanti scenari in cui far vivere i propri eroi umanisti. Tutto sommato le buone serie della science fiction made in Wood equilibrano i “tonfi” nello stesso settore, ma questi ultimi sono stati così abissali da dare inevitabilmente l’impressione che il genere non sia confacente all’autore. Eppure qualcosa di buono (o di ottimo) è pur stato fatto.

Kozakovitch & ConnorsHard world — Morgan, per cominciare, è una godibilissima serie hard boiled la cui feroce ironia è pari solo a quella di Big Norman e Kozakovitch & Connors. In questo caso ci troviamo calati in uno strano contesto un po’ postatomico ed un po’ cyberpunk, ma né all’uno né all’altro filone viene data molta importanza. Se non ci fossero occasionali riferimenti ai “pianeti” ed ai “mutanti” si potrebbe quasi pensare che le vicende si svolgono negli anni ’30 o ’40 dello scorso secolo. Dopotutto assassini pittoreschi e approfittatori di vario genere potevano esistere anche all’epoca. L’ambientazione cruda e disperata (resa alla perfezione da un Mandrafina scarno ed essenziale, forse ulteriormente semplificato da un adattamento di formato) trova però una grossa cassa di risonanza in alcuni concetti-chiave della serie, come l’idea di un pianeta Terra ridotto ad immondezzaio umano o la regressione dei mutanti a bestie senza dignità. Se non fosse per questi ed altri accorgimenti Hard world perderebbe molto del suo fascino desolato. Quindi, per quanto poco ci sia di fantascientifico in queste storie poliziesche, è decisamente funzionale alla caratterizzazione della serie.

Danske è un altro buon esempio di come la fantascienza non sia per forza un punto debole di Wood. Si tratta di un bel racconto di formazione che narra la maturazione di una ragazza da semplice vittima degli eventi ad amazzone ed infine a guida del suo popolo. Il tutto è calato in un contesto postatomico forse un po’ manierato ma reso assolutamente verosimile dai tocchi realistici dello sceneggiatore (ad esempio, i mutanti hanno bisogno di prodotti che li riparino dal sole). La serie faceva parte di quel gruppo di “nuove eterne” che avrebbero dovuto comparire a blocchi di 20 episodi ogniqualvolta fossero stati realizzati. Ma Danske concluse il suo ciclo al 21° episodio senza mai ricomparire. L’ultima apparizione costituiva comunque un finale soddisfacente e nel suo complesso la serie è un eccellente esempio di concatenazione narrativa (v. La continuity in Robin Wood). In questo caso il genere fantascientifico non è assolutamente un ostacolo ma offre anzi ottimi spunti per caratterizzare alcuni personaggi di contorno o risolvere nodi diegetici altrimenti difficili da sciogliere in un contesto contemporaneo.

Anche Mark è un “dopo-apocalisse” ed anche questa serie si rivela una gradevole sorpresa. I disegni sono del valido Ricardo Villagran (su Danske lavorava invece suo fratello Enrique) e lo spunto iniziale, memore della lezione di Oesterheld con il suo Eternauta, è assai affascinante. Mark è un gigante buono che si inserisce nel solco di personaggi “d’acciaio” come Ronstadt e il primo Dago, di cui risulta però più simpatico. Gli stereotipi del genere ci sono tutti (segno che stavolta Wood ha saputo farli suoi) ma vengono arricchiti da un sacco di trovate originali e di comprimari ottimamente caratterizzati. Non era facile dire qualcosa di nuovo in un contesto già così esplorato, ma Robin Wood ci riuscì. Non c’è dubbio sul fatto che alcune situazioni potevano tranquillamente aver luogo in un contesto non fantascientifico ma questo di per sé non è un difetto, dimostra tutt’al più la flessibilità e l’adattabilità di Wood. Mark, nonostante la sua qualità oggettiva, fu un vero fiasco e venne addirittura sospeso in anticipo. Ma le cause di questo insuccesso sono forse indipendenti dal fumetto in sé.

Immagine articolo Fucine Mute

Mark fu ideato a metà anni ’80 ma giunse in Italia solo nel 1996, proprio nel bel mezzo del periodo più brutto e oscurantista dell’Eura. Le splash page iniziali lo riparavano in parte dagli ingombranti riassunti mangia-pagina (che ad altri fumetti erano costati addirittura l’eliminazione di intere vignette: un’eresia), ma altri interventi arbitrari ne rendevano assai meno godibile la lettura. La colorazione, eterna spina nel fianco di Lanciostory e Skorpio, appesantiva e confondeva i disegni e, soprattutto, l’eliminazione delle didascalie ne inquinava lo spirito. Evidentemente in quel periodo l’Eura riteneva obsoleto l’utilizzo delle didascalie, che difatti tolse anche ad Angel, e per un po’ Wood ne limitò l’uso anche in Dago e Amanda (Martin Hel era momentaneamente sospeso). Il risultato principale fu ovviamente la semplificazione della narrazione e, di riflesso, alcune vignette sembravano un po’ vuote nella parte superiore. L’occultamento di queste didascalie e l’adattamento generale lasciavano molto a desiderare visto che spesso per coprire il testo sottostante non si faceva altro che passarci sopra con un pennarello nero! Forse anche questi fattori, uniti ad una certa disaffezione per il genere postatomico, contribuirono al pessimo esito di Mark. Di certo fu una serie più sfortunata che scadente e dimostrò ancora meglio di Hard world e Danske che Robin Wood poteva scrivere ottima fantascienza.

…ma gli esempi a favore di un buon rapporto tra Wood e il genere terminano qui. Saltando a piè pari Holbeck, più fantasy che science fiction e comunque senza infamia e senza lode, le altre serie giunte in Italia hanno brillato per banalità o squallore.

Il (giustamente) celebrato Gilgamesh, per cominciare, è stato protagonista di storie bruttissime nell’arco narrativo che va dall’addio alla Terra fino alla conquista di Sumer (ed anche in quest’ultimo frangente Wood non era sempre ispirato). In pratica le vicende dell’Immortale si risolsero nella routine “Gilgamesh incontra l’alieno cattivo — Gilgamesh sconfigge l’alieno cattivo — Gilgamesh torna a vagabondare nello spazio”. Il periodo propriamente fantascientifico della saga fu quindi anche il peggiore, e considerando le vette artistiche raggiunte da Wood e Olivera nel resto della serie è inevitabile che salti agli occhi ancora di più. Le storie della colonizzazione di Sumer e della battaglia finale contro l’impero Xhaguar ed i Primordiali si salvano dalla banalità in virtù del fatto che nella maggior parte dei casi si tratta di storie “universali” che possono ritenersi fantascientifiche solo in parte.

Un altro terribile passo falso di Wood nel genere è stato Raycon, ulteriormente penalizzato da una falsa partenza (due episodi di prova disegnati da chissà chi furono fusi in un’unica soluzione e spacciati per il primo episodio; la serie “giusta” cominciò dalla seconda uscita). Qui la banalità cede subito il posto al ridicolo e ben poco possono fare i bei disegni di Emiliano (valido seguace di Garcia Seijas che adottò progressivamente una sintesi vicina a Carlos Meglia) per riparare ai deliri di Wood. Le situazioni diventano presto ripetitive, i pochi personaggi caratterizzati sono risibili e molte trovate denunciano l’assoluto disinteresse dello sceneggiatore nel creare un universo che abbia una sua coerenza ed una pur minima parvenza di credibilità. Raycon è senz’altro una della peggiori serie di Wood in assoluto.

Starlight

Qualche anno prima di Raycon un’altra serie aveva denunciato l’imbarazzo di Wood nell’affrontare una fantascienza che non fosse un dopo-olocausto con connotazioni seriali “altre” (l’hard boiled di Hard world e l’avventura di Danske e Mark): Starlight. Sulla carta doveva fare faville e le premesse per il suo ingresso nei classici c’erano tutte. I disegni furono affidati infatti al divino Zanotto e l’idea di partenza era molto originale e coinvolgente: quattro reietti molto ben caratterizzati sono costretti a convertirsi professionalmente in una squadra di spazzini dello spazio, cioè astronauti preposti al recupero di relitti spaziali e dediti ad altri occasionali lavori sporchi. Il protagonista, Walker, era stato ingiustamente incarcerato (in Africa, però, quindi la cella nera dov’era rinchiuso non dovrebbe essere la stessa di Morgan) e altrettanto inspiegabilmente veniva rilasciato dalle autorità all’inizio della storia. L’indagine sui suoi misteriosi salvatori avrebbe potuto costituire un ottimo filo conduttore ed un ulteriore motivo d’interesse. Ma Starlight mostrò presto la corda. Il soggetto originale era probabilmente frutto in gran parte di Juan Zanotto e dopo una decina di episodi interessanti le sceneggiature presero direzioni confuse e contraddittorie. Al pari di Mark, inoltre, la serie fu molto penalizzata dall’intervento redazionale dell’Eura, con colori improponibili, riassunti-fiume a coprire i disegni ed anche un bel po’ di censure.

Starlight divenne una specie di space opera western senza ironia e senza molto spessore (da segnalare comunque il bellissimo episodio sulle bande di bambini), in cui Wood sembrava più impegnato ad allungare un brodo di situazioni già viste piuttosto che a creare qualcosa di originale e coerente. Per prendere fiato ricorse perfino al suo solito vecchio inganno: catapultare i personaggi in un mondo alternativo (in questo caso per ben due volte) in cui poter ammannire senza problemi i propri deliri, non essendoci più alcuna regola fisica o narrativa da seguire. Va rilevato inoltre che Wood, al pari di Pratt con Manara, sembra essere vittima di una certa sudditanza psicologica nei confronti di Zanotto, che lo spinge a inserire scene di sesso o di nudo che a volte rallentano il fluire della narrazione. Provvidenzialmente a Zanotto venne voglia di cimentarsi come autore completo su una saga di ampio respiro e Starlight venne accantonata. Tirando le somme non fu proprio un fallimento totale ma lo spreco di Zanotto e di molte buone idee si fece sentire pesantemente. E alcune scorciatoie o cadute di tono Wood poteva risparmiarcele: che Dago, Nippur e Sacha Veblin facciano i vendicatori e impongano una morale va benissimo, ma quando ad assumere questo ruolo è il cinico Walker i conti non tornano più.

Starlight

E a proposito di conti, risulta abbastanza strano il parallelo tra le serie che abbiamo qui analizzato: tre promosse (e anche a pieni voti) e tre bocciate. Un pareggio? Allora la fantascienza non è la “bestia nera” di Wood? Probabilmente no, ma il fatto che alcune delle sue prove peggiori si concentrino in questo genere lo fa apparire come il meno amato da Wood. Mentre invece qualche altra serie fantascientifica più riuscita meriterebbe di essere riscoperta.

I “seguaci” di Robin Wood

In Argentina Wood è una vera star del fumetto. Di certo la terribile congiuntura economica che ha stretto il Paese lo ha spinto verso altri mercati, ma quando le historietas argentine godevano ancora di buona salute e i loro autori erano popolari, Wood era veramente popolare. Dopotutto, non ci si fa soprannominare leyenda per niente. Robin Wood vanta una produzione sterminata ma è stato il suo stile inconfondibile a meritargli la passione del pubblico. Quelle didascalie così elaborate e coinvolgenti e quei dialoghi carichi di intelligente ironia o retorica ben dosata hanno fatto scuola anche in Italia, basti pensare ai pesanti aggiornamenti cui furono sottoposti i primi Euracomix (Yor, Bannister, Robin delle stelle, ecc.) od osservare semplicemente come da metà anni ’80 il taglio imposto ai liberi di produzione italiana o alle traduzioni di molte serie fosse decisamente “woodiano” (favorendo nei testi l’espressività alla semplice descrizione): ne abbiamo parlato poco sopra in Lo stile di Wood. Ovvio, quindi, che sull’onda lunga di uno stile travolgente ci sia stata la richiesta in patria di simularne l’efficacia e che, una volta incappati in Wood, alcuni sceneggiatori (argentini e non) abbiano convertito volontariamente il proprio stile in quello più dinamico della leyenda. Se per forza di cose i “vice” di Wood (i professionisti chiamati a riprendere le serie da lui interrotte) dovevano imitarne le caratteristiche, altri sceneggiatori si sono dedicati ex novo alla creazione di serie con cui cercare di recuperare l’atmosfera e le particolarità del modello. Fossero nate per mero calcolo, convinta devozione o semplicemente “ordini dall’alto”, queste produzioni denunciano inequivocabilmente i propri debiti con lo stile di Robin Wood. Prendiamo come esempio tre autori molto diversi, e per questo assai indicativi dell’influenza (e della varietà di tale influenza) che Wood ha esercitato sui suoi colleghi.

Amezaga

MojadoGustavo Amezaga non esiste. Ovvero, c’è chiaramente un uomo dietro questo nom de plume ma può non essere sempre lo stesso: Wood in persona si riparò dietro questo pseudonimo per scrivere alcune serie (una fra tutte: Mojado) e magari si tratta proprio di una delle sue molteplici identità “ereditata” poi da altri, ma non è questo il punto. Ciò che importa è che l’Amezaga di Khrysè e Stalker è senz’altro uno specialista nell’imitare Wood. Ma lo è diventato in tempi recenti, visto che c’è un abisso tra queste due serie “woodiane” ed i testi scarni ed essenziali che caratterizzavano la sua collaborazione con Trigo di un po’ d’anni fa (sempre che quello non fosse un altro Amezaga ancora; quello che interessa a noi pare fosse un certo Manuel Morini, redattore alla Columba). In Stalker e soprattutto in Khrysè l’ispirazione allo stile ed ai temi ricorrenti di Wood sconfina in una precisa ricerca stilistica con cui Amezaga riproduce alla perfezione il lavoro della leyenda. Escludendo solamente le spiegazioni dei particolari tecnici e l’autoconclusività estrema di alcuni episodi, le caratteristiche di Wood ci sono tutte. Dall’attenzione alla “genesi” ed alla psicologia dell’eroe fino alla morale umanista ed al famoso uso espressivo delle didascalie, Amezaga sa essere una credibilissima “controfigura” di Wood. Quale sia la genesi di questi lavori è facile immaginare. A corto di nuove storie di Wood, o semplicemente desiderosa di averne sempre di più, l’Editorial Columba avrà affidato a qualche sceneggiatore di secondo piano il compito di riprodurne lo stile, ed il risultato è riuscitissimo (per assurdo, è qui che Alfredo Falugi, soprattutto in Stalker, ha dato il suo meglio come disegnatore). Con tutta probabilità, quindi, ci troviamo di fronte ad un “Wood d’ufficio” o comunque ad un professionista la cui ammirazione verso lo sceneggiatore lo ha portato ad assimilarne alla perfezione lo stile, tanto da farci chiedere a volte se non ci sia lo zampino dello stesso Wood in alcuni episodi.

Barron

Qualche anno fa il (presumiamo) giovane Nestor Barron ebbe il suo momento di notorietà. Spuntato pressochè dal nulla, scrisse due serie: Villon e Adam Lem. In entrambe la passione per lo stile di Wood era palese ed innegabile e nel presentare la prima serie l’Eura si lasciò sfuggire vaghi accenni al fatto che proprio all’ombra di Wood era maturato Barron (ma come?! Wood non si scriveva da solo tutti i testi?). Ma, ahinoi, l’ammirazione di questo sceneggiatore si rivelò ben presto vuoto manierismo e per quanto fosse volenteroso i risultati non andavano oltre alle solite situazioni-tipo di Wood appesantite da una prosa lenta ed ampollosa, che col “vero” Wood aveva poco da spartire. In alcuni casi sembrava quasi una parodia del modello, tanto più che Adam Lem era una spudorata scopiazzatura di Martin Hel (di cui riprendeva anche la struttura dei cicli in tre episodi). Proprio Adam Lem costituì forse la rovina di Barron: annunciato come “eterno” si spense solo dopo 12 episodi e ben poco poteva il bravo Taborda per risollevare una serie così insulsa. Chissà, forse si trattava di episodi veri e propri di Martin Hel non approvati da Wood, se è vero che Barron aiutava in incognito la leyenda. Villon invece non era proprio da buttare: orribilmente disegnata da De Simone (già collaboratore di Zaffino e qui pessimo imitatore anche di Enrique Breccia), la serie aveva buoni spunti soffocati però dalla prolissità di Barron. Skorpio ospitò anche un terribile libero della coppia Barron-De Simone, Mille modi di sentire un canto, con cui si capì definitivamente che Wood era una fonte d’ispirazione assolutamente irraggiungibile per il creatore di Adam Lem. Finito meritatamente nel dimenticatoio, Barron risorse inaspettatamente con la serie L’arte del fuoco, ben disegnata da Taborda. Con questa valida creazione lo stile di scrittura si fece più naturale e in fondo possiamo prendere la fortunatamente breve carriera di Barron come monito agli imitatori di Wood: se un soggetto è debole già in partenza, arabescarci sopra delle didascalie che si vorrebbero interessanti ma sono solo noiose non fa altro che peggiorare il tutto.

Martin Hel


Ferrari

Ricardo Ferrari è conosciuto in Italia principalmente come autore colto ed originale, ideatore di saghe in cui le sue competenze zoologiche, sociologiche ed informatiche assumono spesso un ruolo di primo piano senza mai essere didascaliche o fuori luogo. Ma Ferrari è stato anche uno dei “vice” di Robin Wood e in un’occasione in particolare possiamo dire che ne abbia deliberatamente cercato di riprodurre lo spirito. La serie Il Cappellano riprende senz’altro alcuni marchi di fabbrica tipicamente “woodiani”, sia a livello di contenuti che di stile. Se la maniacale cura del dettaglio storico e l’approfondita analisi delle psicologie rende il suo Il Terribile un’opera assai personale, con Il Cappellano Ferrari ha adottato una narrazione di tipo molto enfatico, sulla falsariga della retorica woodiana. E nel descrivere la guerra Ferrari per una volta ci risparmia la sua tipica freddezza tecnica (che possiamo riscontrare in Anubi, L’Idolo, Flower e molti liberi) ma pone sotto i riflettori l’Uomo che a volte è un pazzo, a volte un codardo e a volte un eroe: proprio come in Wood. Non è da escludersi che sia stata la Columba ad imporre un certo stile a Ferrari, ma i risultati non cambiano e segnalano Il Cappellano come una delle sue migliori prove, assolutamente capace di tenere testa ai lavori migliori di Wood.

Questi tre esempi, cui se ne potrebbero aggiungere altri, testimoniano quanto Wood abbia influito su altri sceneggiatori che, magari anche solo per averne letto alcune storie in gioventù su Fantasia o D’Artagnan, hanno poi seguito il suo stile più o meno consciamente (e con risultati assai diversi). Oltre che un sicuro indicatore della sua popolarità, questi casi sono anche la testimonianza di come esista di fatto un vero e proprio “stile Wood” e di quanto esso sia apprezzato e, addirittura, promosso dalle case editrici.

Armando Fernandez: il “vice” di Wood

A questo mondo Robin Wood non ha solo seguaci ed imitatori ma, a causa della mole dei suoi impegni lavorativi, necessita di un vero e proprio “vice” che ne prenda in consegna un personaggio quando il suo creatore non può più occuparsene, o quando i tempi di consegna richiedono un fill in. Tra gli altri, Wood è stato sostituito anche da Collins (per Dennis Martin) e da Ferrari (per Gilgamesh) e probabilmente egli stesso ha occasionalmente aiutato un collega in ritardo. D’altronde il mercato argentino del fumetto popolare vantava negli anni ’70 e ’80 una vitalità incredibile ed un successo ben rodato non poteva bloccarsi per la semplice rinuncia del suo autore. Così uno sceneggiatore di casa Columba si è messo in luce come “vice” specializzato di Robin Wood. Si tratta di Armando Fernandez; di lui in Italia si è visto assai poco e si sa ancora meno. Per cui, su di lui non potremo dire granché.

Immagine articolo Fucine Mute

Fernandez nasce nel 1945 e appena quattordicenne inizia il mestiere di sceneggiatore. Arriva all’Editorial Columba sul finire degli anni ’60 ed ha al suo attivo varie serie: Argon el justiciero (Villagran), Kabul de Bengala (Altuna e poi Uzal-Saichann), Asesinos seriales (Klacik), Ted Marlow (Trigo), ed altre. Di queste serie fu, se non il creatore, perlomeno un assiduo collaboratore: Ted Marlow pare fosse un altro parto di Wood (attribuito però a Grassi da alcune fonti e a Saccomanno da altre) mentre con Kabul de Bengala si cimentò nientemeno che Oesterheld. Il fatto che Argon fosse ampiamente ispirato alle gesta di Alessandro il Macedone testimonierebbe una forte affinità con i temi di Wood, cosa che verrebbe confermata dall’esistenza di un’altra serie di Fernandez, El Siciliano, in cui riprende abbondantemente temi ed atmosfere di Savarese (di cui pare fosse stato occasionalmente coautore). Le poche tracce che abbiamo avuto di Fernandez in Italia sono assolutamente insufficienti per trarne una personalità chiara, possiamo solamente rilevare come abbia coscienziosamente ripreso le avventure di Qui la legione e Los Amigos. Ma la sola esistenza del “vice” di Wood ci permette di far luce su un paio di questioni relative agli aspetti produttivi dei fumetti argentini (e di come, di conseguenza, si riflettevano sul mercato italiano).

Va segnalato innanzitutto il problema dell’attribuzione di un dato episodio di una serie ad uno sceneggiatore piuttosto che ad un altro. Scrivendo una quantità tale di fumetti, Wood ha adottato vari pseudonimi, probabilmente anche su indicazione della Columba che non voleva dare l’impressione di affidarsi ad un unico sceneggiatore. È successo (e occasionalmente succede ancora) anche all’Eura, in cui nei momenti di massima produzione di Saccomanno, Slavich, Mazzitelli e Ferrari si è ben pensato di celare l’identità degli autori prima dietro il semplice nome proprio e poi tramite pseudonimi improvvisati (Saccomanno poteva vantarne ben quattro e in un’occasione per celare Balcarce storpiarono il suo nome in “Ball”! Il più originale Trillo, invece, ricorse ai nomi di alcuni suoi personaggi: Donaldo Reynoso e Lorenzo Luna). La pratica degli pseudonimi a scopo “restrittivo” (per non dare cioè l’impressione che un autore monopolizzi le testate) è quindi comunissima ed ha portato probabilmente anche all’assunzione di pseudonimi-ombrello che garantiscano continuità con il loro nome, benché comprendano in realtà sceneggiatori diversi. O’Neill e Robson rientrano credibilmente in questa categoria e questo ci spinge a formulare una semplice regola: se in una serie dovesse spuntare uno sceneggiatore nuovo per un breve periodo siamo legittimati a pensare che sia quello regolare che indossa per l’occasione le vesti di una “new entry”. Con tutta probabilità è questo il caso di un Ventura, di un Montalvan e, appunto, di un Robson (tanto più che in Argentina Ronstadt viene attribuito proprio a questo Denny Robson). Nell’elenco delle serie di Wood non ci soffermeremo quindi ad indicare ogni singolo cambiamento di sceneggiatore, così come daremo per scontato che gli episodi di cui non viene segnalato l’autore siano sempre da attribuire al titolare (negli anni ’80 difatti l’Eura ricorse anche a questo stratagemma per nascondere momentaneamente il fatto che 3 o addirittura 4 fumetti di quel numero di Lanciostory o Skorpio erano di Wood o Collins).

Mojado

L’altra questione in cui l’esistenza di Armando Fernandez svela un importante “dietro le quinte” è quella relativa alle pessime conclusioni che hanno caratterizzato molte delle prime serie di Wood. Dax, ad esempio, “non finisce” e lo stesso dicasi per saghe che sono giunte fino agli anni ’90, come Il Cosacco e Mojado. L’ultimo episodio sembra in realtà un finale posticcio, una puntata che non emerge sulle altre e non conclude nulla, come se la serie fosse stata troncata a metà. Il che è proprio quello che è successo: sono stati rarissimi i casi in cui l’Eura ha accettato il sequel firmato da uno sceneggiatore che non fosse Wood (e nel caso di Qui la legione lo indicava addirittura sempre come coautore) ma questa coerenza ci ha privato del previsto punto fermo di una saga, dando al contempo l’impressione che Wood non fosse in grado di imbastire un buon finale. Il che è assolutamente falso e quando finalmente Wood passerà a lavorare direttamente per l’Eura dimostrerà appieno come sia bravo a gestire anche questo aspetto del fumetto seriale.

Robin Wood: popolare o “d’autore”?

Cosa ne pensi Wood del fumetto “intellettuale” o “impegnato”, non ha mai avuto esitazioni a dirlo. Due passaggi della sua intervista-fiume su Fumo di china 26 sono piuttosto illuminanti: “Io non credo nel fumetto intellettuale, impegnato, quello che aprirà gli occhi della massa umana. Credo nel fumetto che arriva alla gente e niente altro.” E ancora: “Molti scrittori trovano la facile scusa di dire che non sono capiti dal pubblico per nascondere la loro incapacità di farsi capire. Molti mariti dicono lo stesso delle loro mogli e in generale tutto finisce in un divorzio. Se il pubblico non legge le opere di uno scrittore è perché c’è qualcosa di quello che non funziona. Il pubblico è recettivo e chi parla delle masse come di gente senza cervello è un cretino.”

Dopotutto, Wood è nato e si è formato professionalmente nel variegato e stimolante mondo del fumetto argentino, che storicamente è la fusione di altissima qualità e grande “popolarità”, avendo in ciò molti più punti di contatto col mercato francese che non con quello, settario, italiano (in cui “popolare” e “colto” hanno sempre avuto un rapporto conflittuale). In sintesi, se cresci leggendo le raffinate storie di Oesterheld oppure i classici dell’avventura interpretati da mostri sacri come Josè Luis Salinas, la tua soglia di percezione del “popolare” per forza di cose ne esce condizionata. In Italia il settore popolare è basato sulla inderogabile e rassicurante serialità e possiamo ben dire che la contaminazione col fumetto colto abbia fatto più danni che altro. Pensiamo solo alla necessità che si è sentita, dagli anni ’80 in poi, di inserire nel solito polpettone avventuroso riferimenti pseudointellettuali o un “engagement” di maniera che ha negli slogan superficiali il suo unico sbocco. Niente “high brow” o “low brow” in Italia: solo uno stagnante “mid brow” concepito a tavolino per dare un colpo al cerchio ed uno alla botte. I fumetti di Lanciostory e Skorpio si muovono storicamente in un limbo decisamente singolare (ed è questa singolarità che ha fatto sbaragliare all’Eura l’egemonia dell’Universo ed ha contribuito al declino delle riveste d’autore), e Wood ne è a tutti gli effetti uno dei rappresentanti migliori. Le sue serie, nella maggior parte dei casi, non sono opere concluse di cui l’autore ha già predisposto ogni particolare, ma si tratta di lavori in progress sensibili al gradimento ed ai gusti dei lettori per ciò che riguarda la delineazione degli sviluppi. E allora perché il costante accumulo di nuove situazioni non viene percepito come un limite ed i singoli episodi non fanno pesare la loro struttura tutto sommato ripetitiva, visto che il numero di pagine a disposizione ha delle varianti minime? La risposta va ricercata nella straordinaria professionalità di Wood, ma questa caratteristica è assai comune tra gli sceneggiatori suoi connazionali. Passando ad analizzare lo specifico delle sue storie, si scoprirà invece qualcosa di assai meno comune.
Martin HelPrendiamo Martin Hel: è un detective del paranormale che vive le avventure più svariate, senza troppi problemi di collocazione temporale o di coerenza narrativa. E, soprattutto, con una struttura fissa degli episodi da rispettare. Riuscite a immaginare qualcosa di più impersonale e “commerciale”? eppure, se andiamo ad analizzare nello specifico alcuni episodi o ad estrapolarne alcuni passaggi, ci renderemo conto che Wood ha saputo farci appassionare alle vicissitudini di un medico dell’antico Egitto, all’aggiornamento del ciclo arturiano, all’analisi antropologica degli indios. E oltre a queste situazioni teoricamente ben poco “popolari”, Wood ha utilizzato in Martin Hel anche delle insospettabili (perfino dalla Bibbia) nascoste tra i dialoghi e le didascalie. E ovviamente se passiamo al setaccio opere meno “commerciali” di Martin Hel l’afflato lirico, i riferimenti colti e le trovate sofisticate ed originali aumentano esponenzialmente: scrutando Savarese in controluce possiamo persino scorgere Jorge Luis Borges. Sostanzialmente, quindi, si può dire che le sceneggiature di Wood riescano a coniugare temi e situazioni molto classici e popolari con un livello più alto di significato, che passa quasi inosservato vista la naturalezza con cui è introdotto. E il bello è che non esiste mediazione tra i due: Wood non sale in cattedra a spiegare concetti astratti, ma nemmeno riabilita storie inconsistenti (e le sue non lo sono mai) con citazioni fuori luogo. Vuole solo raccontare storie, e ci riesce egregiamente. Se poi il lettore riesce ad afferrare il messaggio di Gilgamesh o ad appassionarsi alle antiche culture sumere e celtiche, buon per lui: ma per “capire” e gustare i fumetti di Wood non servono conoscenze pregresse né tanto meno delle posizioni ideologiche preferenziali. E a chi volesse contestare allo sceneggiatore la ripetitività o la scarsa modernità della struttura dei suoi lavori, basterà segnalare a titolo di esempio le fulminanti short stories di poche pagine disegnate e colorate da Garcia Duran.

Robin Wood è quindi singolare anche dal punto di vista della sua presunta popolarità. Non c’è dubbio che la maggior parte dei suoi personaggi abbia una forte connotazione popolare, ma è altrettanto vero che ci sono parecchi stimoli “alti” a fare da cornice o da sostrato anche nelle serie avventurose più insospettabili. Solo che Wood non ha mai urlato la sua cultura e le sue prese di posizione, le ha semplicemente messe a decantare nelle sua opere. Ed è inutile negare che, contrariamente alle sue stesse dichiarazioni d’intenti, i suoi fumetti sono stati effettivamente capaci di “aprire gli occhi della massa umana”. Proprio come nel caso di Jodorowsky (sceneggiatore apparentemente distante anni luce da Wood), le sue opere sono la quintessenza di ciò che dovrebbe essere il buon fumetto: né un’operazione commerciale né un’esercitazione autoreferenziale, ma un linguaggio contemporaneamente popolare e d’autore.

Le serie inedite di Wood

Questo breve capitolo è stato l’ultimo ad essere ideato, ma l’unico a subire una totale revisione per stare al passo coi tempi. Infatti, dopo aver citato i titoli delle serie inedite di Wood (di quelle, almeno, di cui conosco l’esistenza) mi auguravo che Jackaroe avrebbe fatto d’apripista agli altri vecchi lavori dello sceneggiatore. En passant citavo Chindits e Or Grund come titoli più “papabili” per essere presentati in Italia. Ma per fortuna l’Eura mi ha anticipato, ed a breve Chindits sarà sotto gli occhi di tutti (o forse lo è già: mentre scrivo siamo a metà marzo). Restano comunque moltissime altre serie momentaneamente ignorate in Italia, e se qualcuna è veramente improponibile ce ne dovranno pur essere altre di qualità almeno accettabile. La mancata presentazione in Italia dell’intero corpus (peraltro sterminato) delle opere di Wood è dovuto a vari fattori. Innanzitutto c’è il problema dell’effettivo gap temporale che divide Italia e Argentina. Da noi Wood ha esordito nel 1982, quando aveva già oltre 15 anni di carriera alle spalle: per un autore come lui questo si traduce in migliaia di sceneggiature prodotte, ed è inevitabile che l’Eura abbia dovuto fare una scelta. Tra l’altro, esiste anche molto materiale della leyenda che sicuramente non vedremo mai, cioè i primi episodi di serie continuate da altri (Dennis Martin) o alcuni archi narrativi che hanno visto coinvolto un disegnatore diverso da quello ufficiale (Big Norman). Fatte queste prime banali considerazioni, è facile supporre quali siano i motivi che hanno impedito per il momento la proposta di molto materiale. Le prime due cause a venire in mente sono la probabile desuetudine di certi soggetti e la scarsa qualità dei disegni di una serie. Ma forse la causa principale va ricercata nella ripetitività, fattuale o meno, di alcuni personaggi o alcune ambientazioni. Tra la marea di prodotti firmati da Robin Wood ci sono infatti tre grossi filoni ricorrenti: l’umorismo, lo storico virato sull’heroic fantasy e l’avventura moderna o contemporanea. Del primo tipo fa parte un buon numero di serie disegnate da Vogt: Lino, Pipa Sanchez, Billy Grant, El flaco Boedo. Al genere storico-avventuroso sono probabilmente ascrivibili Hjalmar, Wolf, Troels, El Esclavo. L’avventura moderna ha invece i suoi rappresentanti in Ted Marlow, Dave y Booth, Facundo, Harry White, Los Aventureros, El Laurens (o Lawrence), Perù-Rimà, Brio (o Rio), Largo Nolan (per mancanza di documentazione in merito, non so francamente come catalogare Hawk, serie relativamente recente di Wood che forse nasce come spin off di Mark). Nelle ultime due categorie domina quasi incontrastata l’impronta dei fratelli Villagran (magari sostituiti per l’occasione da “manieristi” o allievi effettivi come Zaffino e Toppi). Avendo a disposizione solo due riviste contenitore, e volendo giustamente differenziarle, è chiaro che all’Eura di guerrieri nerboruti di un’antica civiltà ne basta e avanza uno.

Jackaroe

Alcuni titoli sono decisamente stuzzicanti (chissà di cosa trattava El Esclavo) e, in particolare, sarebbe bello vedere Or Grund, un fantasy disegnato da Enrique Villagran che si inserisce con Gilgamesh, Holbeck e Raycon nel filone dei Primordiali.A quanto pare, visto il recupero di Jackaroe e Chindits, si tratta solo di aver pazienza.

Il “caso Putifat”

La differenza storica tra le strisce umoristiche di Lanciostory e Skorpio potrebbe fornire materiale sufficiente per un intero saggio, e magari un giorno approfondiremo la questione. In questa sede basterà la citazione di un episodio, forse poco conosciuto, che ha visto coinvolto Robin Wood. A metà anni ’90 Skorpio ospitò un nuovo tentativo di bissare il successo di Beep Peep (la strip che furoreggia su Lanciostory da oltre vent’anni) ma nemmeno questo andò a buon fine. Dopo Al & Sas (surreale e disegnato male) e il classicissimo Andy Capp (già visto in Italia da moltissime altre parti) fu quindi il turno di uno strano esperimento frutto della collaborazione di Robin Wood con il disegnatore spagnolo Vega De Lyra: Putifat. Il protagonista è un diavoletto scansafatiche che si muove in un Inferno di stampo impiegatizio. Ogni tanto lo vediamo filosofeggiare con il collega Orazio e altrettanto spesso confabula con la “concorrenza” angelica pur di non lavorare o di trarre un guadagno. Il soggetto non è molto originale ma è innegabilmente affascinante e si presta a sviluppi molto divertenti. E invece Wood non riesce a cavare un ragno dal buco. I gag sono ripetitivi sin da subito e nell’esiguo spazio di 2-3 vignette lo sceneggiatore di Dago non è per nulla a suo agio, tanto da non sapere imbastire quasi mai una trovata veramente esilarante.
Pepe SanchezUn conto è avere tutto il tempo di gestire uno slow burn in una storia che ha alla base una sua coerenza (Pepe Sanchez, Lei e io, ecc.), tutt’altro è trovare una soluzione valida ad un “flash” che si risolve in una sola striscia. Putifat si esaurì naturalmente dopo qualche tempo ed è facile immaginare il sollievo dei lettori: anche i disegni lasciavano molto a desiderare. E anche se in alcuni elementi come i riferimenti biblici possiamo ritrovare la personalità di Wood, è comunque meglio dimenticare del tutto questa sua prova deludente che non gli fa minimamente onore. La segnaliamo solo per completezza e come curiosità (Skorpio avrebbe poi ripiegato su King Tut)

Nota: nell’elenco finale delle serie di Wood Putifat non verrà contemplato. Oltre che per i motivi suesposti, soprattutto perché è una striscia umoristica e non un fumetto a episodi (se poi Pino Sauro e Tantan rientrino nell’una o nell’altra categoria non è questo il luogo per discettare)

Appuntamento al prossimo numero per la conclusione di questa analisi di Wood con la ricapitolazione delle sue serie in Italia.

Nello scorso numero abbiamo parlato del grande successo di Dago, vediamo ora di parlare nello specifico del suo grande sceneggiatore.


Robin Wood nasce nel 1943 (in precedenza la sua biografia su Euracomix riportava invece il 1944 come anno di nascita) in una località paraguaiana fondata nella giungla come una sorta di comune agricola. I suoi nonni sono infatti degli irrequieti comunisti irlandesi che, allontanati dall’isola natia, cercarono di ricostruirsi i propri spazi prima in Australia e poi in Sud America. Per inciso, il suo nonno materno fu proprio il fondatore del Partito Socialista Irlandese. Figlio di una ragazza madre (Peggy) di cui prenderà il cognome, poco più che bambino si trasferisce a Buenos Aires. Come la stragrande maggioranza dei coetanei attende febbrilmente l’uscita del nuovo numero di Hora Cero, Frontera e delle riviste a fumetti dell’Editorial Columba. Come dargli torto: davanti alla sua generazione sfila il meglio del fumetto mondiale dell’epoca, con Oesterheld e Pratt in prima linea ad anticipare di vent’anni la nascita del fumetto d’autore.


Ma la vita reale è un’altra cosa: la povertà è sempre in agguato ed il piccolo Robin deve interrompere gli studi alla licenza elementare per cominciare a lavorare. Il suo sogno è diventare disegnatore di fumetti ma per anni si adatta a fare qualsiasi cosa. Oltre alle historietas legge praticamente tutto quello che gli capita sotto mano, e non perde occasione di frequentare lezioni universitarie quando può. Di certo queste passioni si rivelano assai più produttive dei dieci anni passati a studiare disegno. Wood sembra proprio negato per l’arte e dopo le proverbiali (e molte) porte in faccia riesce a farsi comprare una storia sui vichinghi dalla Columba. Ma doveva trattarsi di qualcosa di veramente brutto, visto che nemmeno gli viene pubblicata. Anzi, secondo un divertente aneddoto, pare che la Columba usasse quel suo “scheletro nell’armadio” per minacciarne la pubblicazione quando (divenuto ormai uno sceneggiatore importante) rimaneva indietro col lavoro!


Se la frequentazione di accademie e corsi di disegno non ne migliora le capacità, gli permette però di fare la conoscenza di un disegnatore assai più dotato: Luis Lucho Olivera. Non è che all’epoca Olivera fosse già il genio di Io, cyborg e Gilgamesh, ma non ha problemi a farsi pubblicare. Insieme realizzano una storia ambientata a Lagash, di cui Wood cura solo i testi. È un successo. Nippur, il “gigante filosofo” (parole dello stesso Wood) protagonista della storia, desta un’immediata simpatia nei lettori, che lo vogliono vedere ancora. Episodio dopo episodio, si sviluppa quindi la saga di Nippur de Lagash, un personaggio che in Argentina può vantare una popolarità degna di icone nazionali come Patoruzù, El Sargento Kirk, El Eternauta e Loco Chavez. Come ricordato nello scorso numero, è assai arduo ricostruire con precisione la cronologia delle opere di Wood. Il suo esordio con Nippur dovrebbe essere datato 1965, ma forse ebbe luogo qualche anno dopo. Accanto a varie storie autoconclusive di genere storico ed avventuroso, Wood scrive altre serie, tutte di immediato e grandissimo successo: Dennis Martin (un James Bond latino disegnato da Angel Fernandez), Jackaroe (Dalfiume; un western cupo e, per i tempi, realistico), Mi novia y yo (Vogt; spassosissima parodia della vita di coppia). Tanto e tale è il trionfo tributato ai personaggi di Wood che nel 1972 sia Nippur che Dennis Martin guadagnano una testata tutta loro e qualche anno dopo il “gigante filosofo” fa il bis con Nippur Magnum Todocolor.


Decisamente ben avviato nella professione (pare che con la prima sceneggiatura abbia guadagnato quanto prima guadagnava in un mese), Wood si dedica all’altra sua passione: i viaggi. Passa decenni in giro per il mondo, ritornando in Argentina solo occasionalmente. Ciò lo risparmia parzialmente dalle brutture della dittatura di Videla e dona alle sue storie un fascino cosmopolita: qua e là si capisce che molte situazioni raccontate sono state vissute in prima persona, e non sono la riproposizione di stantii cliché. Paradossalmente, Wood è l’unico sceneggiatore della Columba a non necessitare di uno pseudonimo “esotico”. La casa editrice spingeva infatti i suoi autori ad adottare un nom de plume anglofono per sprovincializzarsi o per richiamare alla mente del lettore una maggiore affidabilità o qualità che il nome inglese evidentemente suggeriva (dopotutto, anche le prime strisce del nostro Tex recavano la dicitura “text by G. L. Bonelli”). Qualche curiosità al riguardo: il grande Eugenio Zappietro assunse come pseudonimo ufficiale Ray Collins, probabilmente ignorando che anche un attore hollywoodiano si chiamava così (Ray Collins è inoltre anche il nome di un personaggio che compare nel Loco Sexton di Oesterheld e Del Castillo – in Italia Laggiù nell’Ovest). Alcuni altri sceneggiatori, poi, ricorsero a pseudonimi che per dittonghi o accostamenti di consonanti erano un po’ improbabili: Martin Ablescayne, Wilfred Pigney, ecc. Ma anche Wood dovette nascondersi dietro pseudonimo quando alla Columba constatarono che la sua produzione non solo era ottima, ma anche sterminata. Ci sono stati periodi, nemmeno troppo lontani, in cui mandava avanti contemporaneamente anche 20 personaggi! Gli pseudonimi adottati da Wood arrivano così ad essere oltre dieci, tra cui non manca anche uno femminile (abitudine comune tra gli sceneggiatori argentini più prolifici).


Agli inizi degli anni ’80 Wood sbarca anche in Italia, dove replica il successo argentino. Ma ci vorrà ancora un po’ di tempo perché la sua presenza si faccia massiccia. Precedentemente aveva fondato con i fratelli Villagran e lo sceneggiatore Gonzalez Andrada il gruppo Nippur IV, uno studio che realizza fumetti avventurosi (a questo atelier si avvicinerà anche Ricardo Ferrari, che probabilmente scrive in incognito alcuni episodi firmati da Wood). Nel 1985 tenta anche la carta dell’edizione di se stesso e fonda in Spagna l’Editorial Wood, che pubblica la rivista Mark 2000. Ovviamente quasi tutto il materiale è opera sua (ma compare anche L’orologio dell’eternità di autori vari) e con tutta probabilità l’accoglienza è buona: aldilà della qualità oggettiva delle serie, bisogna ricordare il grosso interesse per il comic che smuove l’Europa in quegli anni. Ma gli impegni di Wood fanno chiudere la rivista alla settima uscita e lo sceneggiatore torna stabilmente alla sola occupazione della scrittura. Nuovi personaggi vanno ad aggiungersi a quelli storici e quando Lanciostory e Skorpio amplieranno lo spazio dedicato a Wood prenderà corpo la leggenda di una cooperativa d’autori che agisce sotto uno pseudonimo comune. Alla fine degli anni ’80 può capitare infatti che su un numero delle due riviste compaiano fino a 4 fumetti scritti da lui, ma la quantità non va minimamente a scapito della qualità.


Arrivano gli anni ’90: l’Eura lascia perdere gli italiani più bolsi e, contemporaneamente, si concentra sulle serie limitando progressivamente il numero dei “liberi”. Questa nuova direzione e il costante gradimento tributato agli autori argentini spinge la casa editrice a contattare direttamente i fumettisti ed a farli lavorare in esclusiva su progetti specifici. Nasce così Martin Hel, ma è solo l’avanguardia di un’”invasione” di nuove opere di Wood.


Nel 1986 Spiritelli e Zambotto rilevarono che Robin Wood era in assoluto lo sceneggiatore più pubblicato in Italia. Meno di dieci anni dopo Wood può vantare molti tributi e riconoscimenti, e la leggenda della cooperativa d’autori è stata definitivamente sfatata. Merito soprattutto dell’Eura, che è anche riuscita a coinvolgere Wood in manifestazioni e mostre (solitamente evitate dallo sceneggiatore).


Nel 2002 Wood è stato nominato console onorario del Paraguay.


Oltre che alla scrittura per il fumetto, Wood si è impegnato anche in quella cinematografica.

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