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Scrittura

Francesco Gazzé: il sentimento come ragion di scrivere

Riflessioni sulla prosa lirica

C’è un’acuta distanza (quasi totale, cioè irreversibile o giù di lì) fra i sentimenti e il mondo attuale… Al punto che ognuno di noi (se fosse onesto) si dovrebbe inquisire schiettamente, sottoponendosi magari a un discorsetto accusatorio tipo questo: “Dove finisce la televisione e dove comincia la mia identità? Ahimè, non resta più alcun confine di riconoscimento… “.

Chi lo sa: probabilmente, peggiorando in circolo (e continuando quindi, previa TV, a involversi dai sentimenti alle pulsioni, dall’intelligenza alla scimmia) la razza dominante del nostro pianeta ritornerà, spiritualmente parlando, allo stato selvaggio e brado, da umana che era.

E nel frattempo, l’arte che fa? Non ci salva? Sfortunatamente no, accidenti! Dal momento che, complice ancora il piccolo schermo, è ormai decaduta a cabaret, rivestendosi forse di motti arguti, ma anche di sfondoni assortiti, veicolati da un italiano, drasticamente ridotto al rango degradato di dialetto nazionale, buono per tutte le ignoranze e sgrammaticature.

Certo, per fermare il collasso, ci vorrebbe qualcuno in vena e in grado di dare l’esempio. Sì! Ecco la soluzione! Qualcuno ci vuole, che scriva e rifletta. Qualcuno che, discosto dalla massa e dalla TV, abbia una ricezione infallibile del cuore in genere e non delle emittenti varie.

Qualcuno, insomma, come Francesco Gazzè.

Francesco Gazzé — Il terzo uomo sulla lunaDunque… fratello e paroliere com’è di Max il cantante e musicista, il Francesco in questione ha di recente esordito in proprio nel campo della prosa, pubblicando (per i tipi della casa editrice Baldini & Castoldi) un volume di racconti, suggestivi e corti: “Il terzo uomo sulla luna”.

Che dire mai di quest’opera prima, che non ha mancato, naturalmente, di riscuotere lettori e commenti lusinghieri?

Be’ per cominciare, non soffre d’illusioni Francesco Gazzè; anzi i dolori, appresi dalla vita, gl’insegnano a valutare (se non “auscultare”, addirittura) desideri, angosce, perplessità: la sua voce è composta d’inflessioni melodiche e, attraverso le pagine del libro, s’articola secondo le direttive intellettuali di una salda ironia analitica, pronta a sublimarsi in tenace acume poetico. Utilizzarlo (nell’attimo di un foglio, nel volgere di un libro) per catturare la libertà (dell’immaginazione) e farne sentimento, è facilissimo per l’autore. Egli sottrae alla forza isterica del giorno, della vita corrente e d’ordinanza la propria indole d’artista, aggira l’esuberanza maligna di pene e ansietà (che sono energia, adrenalina del dolore) per librare nella dimensione estatica della fantasia, fiabe d’incanto.

Mai sovrastate dall’affanno, quelle emozioni di pura leggerezza irradiate dal suo animo trovano respiro in novelle delicate e lievi, in tenui parole e trame carezzevoli che indulgono, talvolta, all’ariosa ecletticità del sogno.

Balza l’inchiostro da un racconto all’altro formando personaggi azioni ambienti, mentre nasce la pagina, come una lega metallica, dal miscuglio di lettere e bianco.

I segni e le pause rispettano i confini di storie fluenti e testi brevilinei che, senza cedere alla verbosità (ma con l’aiuto, nondimeno, di armoniose volute sintattiche), illustrano malinconia, gioia e dubbio.

Quindi sentimenti multiformi che, trasfigurati dall’ironia onnipresente, diventano profezia d’amore e riscatto umano, impreziosiscono il tessuto letterario di queste novelle e, intanto, sogni attraversano rapiti lo spazio di carta, per mutare in musica le parole e allietare le pagine con melodie narrative, pervase di sole.

Un sole inconfutabile che non splende a vanvera e, al contrario, sa illuminare (con cognizione di causa) la bravura di Francesco Gazzè, scrittore ben diverso da quelli che, discutibilmente, trascorrono la propria esistenza — intera ed effettiva — alla ricerca ossessionata d’interviste o trasmissioni, da cui lasciarsi ritrarre nell’atto retorico (persino narcisistico) di sproloquiare, di soffrire, d’incensarsi.

Max Gazzé

No: Gazzè si mostra, e dimostra, individuo di tutt’altro stampo e identità. Prova ne sia che, ne “Il terzo uomo sulla luna” — distinguendosi senza tregua o sosta da coloro (forse gli scrittori suddetti, per l’appunto!) che spesso raccolgono frasi, periodi e complementi in organismi grammaticali incapaci di poesia — trionfa, impeccabile e sincero, nel compito di “imprimere” corpo e consistenza a sistemi di parole, che ora si presentano a forma di nostalgia, ora di sorriso, ora di filosofia. Quella ad esempio, birichina e suadente, che dando segni d’ironia, impregna — “impastandolo” di sé — il brano intitolato “Prima del gong”: “Assalito ovunque dalle sue farine, il giovane fornaio era tutto bianco come Pulcinella. Impastava energico la prima luce del giorno affondandoci le dita e il peso del corpo, colpendo l’impasto chiaro con gli schiaffi e poi lisciandolo sul palmo della mano quasi pentito, per trarre da esso qualcosa di buono, una forma. (…) Anche una piccola radio portatile prendeva parte al lavoro, sempre accesa sulla mensola più in alto, che sancì, quella volta, la fine del mondo: per mezzo di una voce senza suono, lo speaker annunciò, interrompendo una nota trasmissione di musica leggera, che il pianeta stava implodendo a causa di un improvviso vuoto d’aria formatosi intorno al suo centro, e che in quelle ore la crosta terrestre aveva già iniziato ad accartocciarsi lentamente come la buccia di una pera marcia. Proclamava ciò in preda a una specie di terrore isterico che aumentò come una febbre a ogni parola. Riuscì comunque a precisare che i migliori geologi di ogni continente erano concordi nell’affermare con limitato margine di errore che all’intera umanità non restava più di mezza giornata prima della fine (…) Il fornaio separò le mani dall’impasto, le avvolse in un panno asciutto prima di strofinarle davanti alla faccia come una mosca, andò alla finestra a controllare il panico che intanto s’era impossessato delle poche persone già sveglie in città. Se ne aggiunsero altre, e lui le osservò per l’intera mattinata affannarsi a realizzare subito sogni che tenevano chissà da quanto tempo incalcati nelle membra. Tutti insieme, in fretta, di corsa, alla rinfusa… prima del gong! (…)”.

Lo si può inevitabilmente constatare: attraverso la “parabola” del fornaio, il racconto appena citato configura Francesco Gazzè come attento e minuto osservatore delle piccole cose, ch’egli delinea e traccia con snella incisività, manifestando un talento notevole di cronista “accorato”, superlativamente preso a studiare i contorni e il nucleo della realtà, per “rigovernarli in codice” con l’intervento e l’appoggio della fantasia.

Immagine articolo Fucine Mute

Insomma, si cede quasi alla tentazione di vederlo — il nostro autore — come perennemente affacciato ad una finestra china sulla vita: sì, eccolo mentre (bloccandosi nel pieno raggio della finestra aperta) s’impone allo sguardo dell’aria e cerca di essere la pupilla del vento, per scoprire così gli uomini nelle infinitesime particole dei gesti. Risultato eccellente e lirico: Gazzè riesce in questo modo ad avvolgere, nei propri occhi di narratore, la vicenda complessiva delle persone comuni e quotidiane, con tutte le loro ansie, egoismi e volatili euforie. Che sono, in ultima analisi, i sottomultipli delle ore.

Chiaro dunque come il suo libro, altro non sia che un’antologia di contenuti e sostanze variegate: so-stanze da pranzo, di cui il lettore deve cibarsi (masticando a fondo col cuore e la mente) per mitigare la notte reciproca, instauratasi — ormai da troppo — fra l’uomo e i sentimenti.

La notte fra il 17 e il 18 giugno del 1966, in una piccola clinica del quartiere Aurelio a nord-ovest del centro di Roma, nacque cesareo un piccolo calamaro olivastro che talune infermiere maltrattarono subito a schiaffoni. Fu sua madre stessa a chiarire la faccenda con l’ostetrica, appurando infine che quelle forsennate stavano semplicemente cercandogli addosso il permesso di soggiorno.

Ingoiato il malinteso non senza recriminazioni, tentò d’ingoiarne un’altro a distanza di circa un anno, trangugiando una biglia di vetro rossa e grande, appunto, come una ciliegia. Fu salvato dal giovane ed attento papà, che lo capovolse a testa in giù afferrandolo prontamente per le caviglie, scotendolo come un sacco pieno di cianfrusaglie, colpendolo a più riprese sulla schiena e urlandogli contro di sputare il rospo. Così fece, allora. Restituì l’oggetto con riluttanza, e quello rotolò sul parquet fra applausi soddisfatti. Entrambi i genitori allora festeggiarono l’evento concependo la sera stessa Max, che in futuro sarebbe diventato il suo prezioso compagno di merende.

Ma nel frattempo il buon Francesco maturò in sé la convinzione che in quel periodo, evidentemente, qualcuno doveva davvero avercela con lui.

Forse per una sorta di espiazione, egli fu rinchiuso tre lunghi anni dentro un asilo di suore anziane.

In seguito fu trasferito, per motivi di sicurezza, in una scuola elementare situata nei pressi del comando di Polizia, dalla quale alcuni preti importanti avevano deciso di bandire per sempre il genere femminile. Nacque, così, nel bambino Francesco la passione per il calcio, destinata a durare fino al giorno in cui Michel Platini annunciò alle televisioni la fine della sua carriera agonistica.

Radiato da quella scuola per aver molestato una bidella, egli concordò con il fratello di seguire i loro vecchi in una grande città belga oltre le Ardenne per assecondare le velleità diplomatiche dell’uno e le capacità organizzative dell’altra.

A Bruxelles il calamaro scoprì l’amore non platonico, frequentando la neonata Scuola Europea del quartiere Woluwe-St. Lambert e le decine di ragazze bionde che ci sculettavano dentro tra i corridoi, con i libri sottobraccio ed i loro irresistibili nasini lentigginosi e lucidi come rifiniture di lusso, verso le quali l’ex-chierico dirottò gran parte delle responsabilità che gli vennero affibbiate in occasione della secca bocciatura che dovette incassare d’incontro al termine del primo anno scolastico.

Compiuta la missione in trasferta, il neodiplomato si convinse di provare la lotteria dell’università tornando nella sempre più sovraffolata capitale, dove la Dea Minerva in persona lo accolse immobile nel grande piazzale della Sapienza con una freddezza statuaria, come se essa avesse assorbito negli anni l’espressione della perpetua minaccia intrinseca alla condizione di chi dovrà essere comunque giudicato in base ai metri cubi di memoria issati a forza sul proprio capo. Fu fisico, matematico ed avvocato, ma non poté mai dimostrarlo alla comunità, poiché il suo libretto si riempì ben presto di poesie a rima interna ed appunti liberi per racconti brevi, non di numeri e lodi.

Venne, dunque, il giorno di affrontare a petto in fuori l’impatto violento con lo spietato mondo del lavoro: divenne bancario, poi bancario, ancora bancario e di nuovo bancario, finché non entrò in banca, un inverno.

Fece freddo.

Intanto, però, il contabile aveva raccolto quarantasei tra racconti e rime in un piccolo libro dal titolo “Piovve su Emilia“, la cui stampa fu curata dalla editrice Totem nel 1992, e non contento riunì altre ventisei poesie in “Delirio minimo” con l’aiuto della Aetas nel 1994, venticinque in “Scorribande lineari” (Libroitaliano) nel 1995 e ventotto in “Frammento e fragile” (Il calamaio) nel 1996.

Soltanto allora Max, che nel frattempo preparava il suo primo album, si accorse del talento racchiuso nelle viscere del fratello maggiore.


(fonte: www.francescogazze.it)

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