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Omnia

Progresso e responsabilità: il passaggio dalla scienza alla tecnologia

Immagine articolo Fucine Mute

Premessa: una critica della critica progressista del progresso

La convinzione che un incremento dei livelli di educazione e, più in generale, il processo di modernizzazione costringeranno la religione ad arretrare di fronte al razionalismo scientifico si distingue per la sua straordinaria ingenuità e per il suo distacco dalla realtà empirica.
Francis Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo.

Negli ultimi tempi il progresso è stato al centro di una contestazione radicale, e spesso vociferante, con robuste venature di irrazionalità: in particolare le accuse sono rivolte alla scienza e alla tecnologia, che del progresso sono oggi le manifestazioni più tipiche. Altri, pur criticando il progresso o alcuni suoi aspetti, vogliono mantenere una posizione distinta da quella che considerano una pseudocultura fumosa e misticheggiante, che mette sotto accusa la scienza e la razionalità. Costoro, perciò, si fanno promotori di una “critica progressista del progresso”. In questa premessa vorrei fare alcune considerazioni sui concetti di progresso e di critica progressista del progresso.
Intanto l’aggettivo “progressista” (ormai stanco per l’uso pluridecennale che se n’è fatto nell’arena politica) qualifica e quindi, di fatto, limita la portata della critica. Inoltre, per le sue implicazioni semantiche (che si rifanno proprio all’aspetto acriticamente trionfalista del progresso), attribuisce a questa critica un valore positivo, conferendo ipso facto un valore negativo alla critica senz’altra qualificazione, che è perciò trasformata in critica antiprogressista (conservatrice o reazionaria). L’aggettivo, cioè, dà all’operazione critica che si auspica una coloritura ideologica o moralistica, introducendo un “dover essere” accanto o in luogo dell'”essere”.

La critica tout court del progresso si presenta come un’operazione tendenzialmente oggettiva, che prende in esame un fenomeno per verificarne in primo luogo l’esistenza e poi le caratteristiche. La critica progressista, viceversa, forse per non irritare i sostenitori oltranzisti del progresso, dichiara da subito che gli strumenti di cui farà uso sono “progressisti”, cioè ispirati a un fenomeno di cui non ha ancora accertato l’esistenza e le caratteristiche, dandole quindi per scontate. È un’operazione ideologica, con cui si afferma quanto si dovrebbe dimostrare, cioè che il progresso esiste e che è buona cosa.
Ma è anche un’operazione discutibie sotto il profilo logico: a me sembra che la limitazione imposta da quell’aggettivo finisca, paradossalmente, col far diventare conservatrice la critica che vorrebbe essere progressista e, viceversa, davvero progressista la critica non progressista, cioè la critica tout court. Vediamo perché.

La nozione di progresso implica in certi casi l’esistenza di un termine ultimo rispetto al quale misurare la marcia del progresso. Ad esempio nell’evoluzione biologica il traguardo è stato sempre identificato con la comparsa di Homo sapiens. Anche nell’evoluzione culturale o spirituale certe filosofie e certe religioni (il marxismo, il cristianesimo) hanno individuato un traguardo novissimo, immanente o trascendente. Quando esiste un termine ultimo il progresso è soggetto a una retroazione negativa, per cui il raggiungimento del termine decreta la fine del progresso (la fine della storia) e l’inaugurazione di uno stato stazionario, se non di una stasi, in cui si annulla ogni carattere dinamico precedente. Così la nascita di Homo sapiens ha determinato una sorta di fine della storia biologica, tanto che la storia dell’uomo è di fatto diventata storia culturale o di civiltà (la storia biologica riprende oggi, in forme inedite e con esisti difficili da prevedere, attraverso le biotecnologie). In tal caso, il progresso ha dunque in sé i germi della propria fine.
Ma c’è almeno un’eccezione cospicua: il progresso tecnoscientifico non si pone traguardi definitivi ed è, in linea di principio, aperto e illimitato. In questo caso la fine del progresso può presentarsi quando il processo cumulativo che ne sta alla base abbia perso lo slancio per l’esaurimento di qualche risorsa o per un eccesso di fattori negativi o per qualche altro fenomeno di saturazione (o, al limite, per il collasso del sistema complessivo).
Chiediamoci ora: quali sono le caratteristiche del progresso? Schematizzando, il progresso è di solito inteso come un fenomeno unidirezionale, costante e cumulativo, senza ramificazioni, ritorni e deviazioni aleatorie. Alla luce delle scoperte e delle riflessioni più recenti, questa nozione non è più sostenibile. Se di progresso si vuol continuare a parlare, si deve comunque complessificarne le caratteristiche fino al punto da render problematico l’uso di un termine il cui significato non può allontanarsi troppo dall’immagine di una “marcia in avanti”.
È importante notare che esistono due versioni di progresso, una debole e una forte. La versione debole consiste nel rilevare un dato evidente: l’unica specie dotata di intelligenza astratta, di autoconsapevolezza, di percezione estetica e di comportamento etico, di curiosità disinteressata e di capacità tecnologica, cioè Homo sapiens, è stata protagonista nei secoli di conquiste straordinarie in campo medico, tecnoscientifico, sociale, economico e così via. La versione forte di progresso pretende, in più, di offrire una giustificazione metafisica di questa storia, che si svolgerebbe all’insegna della necessità. Il miglioramento unilineare, costante e cumulativo che ci ha portato dove siamo era imprescindibile, perché tutta la storia aveva come traguardo inevitabile la perfezione della specie umana.
La versione debole (fattuale) di progresso è tutto sommato accettabile, sia pure con qualche correzione, perché il progresso presenta anche deviazioni, ritorni e regressi, e possiede aspetti poco gradevoli, effetti collaterali negativi e conseguenze decisamente incresciose. Invece la versione forte di progresso, che ha robusti connotati ideologici, è difficile da sostenere e oggi è manifestamente in crisi. I motivi di questa crisi sono diversi. Intanto c’è stato un effetto di retroazione: l’accumulo dei reperti ha portato a una revisione teorica.

Immagine articolo Fucine MuteUn’analisi attenta del processo evolutivo che ha portato alla comparsa di Homo sapiens. ci fa capire che la nostra presenza sulla Terra è il risultato fortunato e contingente di una lunga serie di eventi casuali e di biforcazioni aleatorie. L’esito che osserviamo è uno degli esiti possibili: insomma, il progresso evolutivo non era necessario. Allo stesso modo, non era necessario il progresso culturale: anch’esso sembra il frutto emergente di una serie di contingenze e di eventi singolari più che di grandi regolarità o addirittura di ferree leggi (Pievani, 2002).
Anche se oggi il motore dell’evoluzione (evoluzione culturale e tecnologica, e non più biologica, perché la biologia dell’uomo è stabile da circa 40.000 anni) è costituito in gran parte dalle scelte finalistiche dell’uomo, dalle sue idee, innovazioni e decisioni, è difficile rintracciarvi quel carattere di necessità storica cogente che per molto tempo vi è stato ravvisato e che porterebbe in modo progressivo e lineare il genere umano verso destini sempre più alti (Longo 2001). Forse questa visione radicale del progresso è dovuta a un’estrapolazione di quanto è accaduto in tempi recenti, soprattutto per la spinta innovativa della tecnoscienza.
Certo, non è facile abbandonare un concetto così pervasivo nella nostra cultura, e così tranquillizzante, ma siamo costretti a farlo, riconoscendo che anche nell’evoluzione culturale si possono individuare alcuni schemi ricorrenti tipici dell’evoluzione biologica:

  • gli equilibri punteggiati, che conferiscono alla storia un carattere episodico, ramificato, contingente: nell’evoluzione si alternano lunghi periodi di stabilità e improvvisi scoppi di novità creative; questo doppio regime è ben diverso dalla regolarità progressiva che si riteneva la norma;
  • gli esattamenti, per cui alcune innovazioni cruciali hanno origini occasionali o finalizzate a scopi indipendenti e ben diversi dal loro uso attuale (l’esattamento è in un certo senso l’opposto dell’adattamento, che produce un’innovazione per risolvere un problema specifico);
  • le direttrici evolutive spaiate, per cui tecnologia, organizzazione sociale, facoltà cognitive e valori etici hanno ritmi di sviluppo difformi e sfasati.

Insomma il determinismo riduzionistico, unifilare e cumulativo tipico della visione illuministica rivela dosi massicce di ideologia e non regge di fronte all’emergere di una concezione pluralistica improntata alla casualità, alla molteplicità, all’intreccio. Ne risulta una concezione del progresso, se ancora vogliamo chiamarlo così, molto più articolata e meno “metafisica”: l’idea forte di progresso, insomma, è in crisi. Confrontando il progresso con i fatti della storia, esso perde il suo carattere aprioristico di modello o di teoria del mondo o dell’uomo nel mondo.
Da qui in poi mi concentrerò sul progresso in campo tecnoscientifico.
Non c’è dubbio che, in questo settore, al ridimensionamento del concetto forte di progresso abbiano contribuito gli effetti negativi del progresso inteso in senso debole (inquinamento, sovrappopolazione, deforestazione, iniqua distribuzione delle ricchezze, deterioramento della vita urbana…). Ma ci sono anche ragioni teoriche: esaminando più da vicino il processo cumulativo e unilineare che sta alla base del concetto forte di progresso ci rendiamo conto che si tratta di un fenomeno retto da una tipica retroazione positiva, nel senso che più si progredisce più è facile progredire, più invenzioni, scoperte o innovazioni si compiono più è facile compiere ulteriori invenzioni, scoperte o innovazioni. D’altra parte si sa che una retroazione positiva porta al collasso il sistema in cui si manifesta, o almeno lo porta a una saturazione, cioè a uno stallo evolutivo dovuto all’esaurimento di qualche risorsa essenziale (cibo, energia, aria, denaro…). Quindi, dal punto di vista sistemico, o teorico, il progresso cumulativo indefinito è impossibile. Sotto il profilo pratico, poiché gli effetti negativi del progresso tendono a crescere, si è costretti a porvi delle limitazioni volontarie oppure a subire le limitazioni (ecologiche, cioè cibernetiche) imposte dal sistema complessivo. La critica del progresso debole è immediata: si tratta semplicemente di riconoscere che certi suoi effetti collaterali sono negativi e, di conseguenza, di rallentare o invertire certe pratiche.

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Più delicata è la critica della nozione forte di progresso. L’aggettivo “progressista” introduce una sorta di paradosso epimenideo o di circolarità logica che, come ho accennato e come cercherò di chiarire, limita in modo essenziale la portata della critica e quindi anche i suoi risultati. È come se, pur criticando la nozione di progresso, non si volesse tuttavia rinunciare al progresso: il progresso dovrebbe non solo essere l’oggetto della critica ma, trasferendosi anche al livello attivo della critica, diventarne uno strumento. Al primo livello il progresso sarebbe criticabile, al secondo no. Con questa mossa (cioè distinguendo il progresso a livello basso dal progresso a livello alto) si tenta di evitare la contraddizione che consiste nell’usare il progresso per criticare il progresso. La mossa riuscirebbe solo se il progresso del secondo livello fosse diverso dal progresso del primo livello. L’unica possibilità ragionevvole, in questo senso, sarebbe quella di identificare il progresso criticato, quello a livello basso, con il progresso in senso debole e il progresso a livello alto, esente da critica, con il progresso in senso forte. Ma è proprio quest’ultimo il soggetto di elezione della critica, perché, come abbiamo osservato, criticare il progresso debole è troppo banale e non richiede affatto un impegno congressuale di questo tipo. Quindi i due progressi, quello a livello basso e quello a livello alto devono essere intesi entrambi in senso forte: si tratta di criticare il progresso (forte) pur senza rinunciare al progresso (forte). È chiaro che, così presentato, si tratta di un paradosso insanabile.
Si dovrebbe allora introdurre una distinzione proprio all’interno del concetto di progresso forte. La “critica progressista del progresso” sarebbe allora un tentativo di criticare alcune componenti del progresso forte salvandone alcune altre. Che cosa si vuole, anzi si deve, salvare precisamente? È presto detto: si tratta di quegli elementi che si contrappongono in modo drastico e definitivo all’irrazionalità, alla fumisteria, al misticismo. Dunque la razionalità (o la ragione), l’accumulo delle conoscenze scientifiche, il metodo scientifico e via dicendo. Come si vede, si tratta in primo luogo di introdurre una distinzione tra il “progresso”, nelle sue manifestazioni storiche e nelle sue incarnazioni specifiche, e quello che si potrebbe chiamare “metaprogresso”, cioè l’immagine astratta e idealizzata (o ideologica) del progresso. In secondo luogo, si tratta di salvare il metaprogresso. Non sfugge che la distinzione tra progresso e metaprogresso ricorda molto quella tra progresso debole e progresso forte.
Si è disposti a rinunciare a certe componenti del progresso debole, cioè del “progresso reale”, pur di salvare l’idea metafisica del progresso, il “metaprogresso”, così come molti sono disposti a condannare gli esiti storici del “socialismo reale” ma non l’idea astratta di comunismo.
Insomma: si può criticare il progresso purché non si critichino i suoi meccanismi profondi, i quali debbono restare intatti. Ne segue che, sotto il profilo sistemico, la critica progressista del progresso è, nonostante le sue intenzioni, regressiva: poiché le strutture profonde non devono cambiare, quindi non devono essere soggette a progresso. È come chi dicesse: accetto l’idea di innovazione, nel senso che tutto può cambiare, ma l’innovazione non si discute; oppure: la ricerca deve contribuire a cambiare il mondo, ma la ricerca non si deve toccare. Non si fa innovazione sull’innovazione e non si fa ricerca sulla ricerca. Come il nonno che dice al nipotino: “Ti dò un consiglio: non accettare mai consigli.” È evidente che il consiglio del nonno è “meta” rispetto a tutti gli altri consigli, è di un ordine o tipo logico diverso.
Proprio per risolvere paradossi di questo tipo, Bertrand Russell inventò la “teoria dei tipi logici”, il cui fondamento è che un insieme di elementi non può essere un elemento di quell’insieme (l’insieme delle sedie non è una sedia) e quindi non gli si possono applicare le proposizioni che valgono per gli elementi. Allo stesso modo l’insieme delle componenti del progresso non è una componente del progresso e quindi a questo insieme non si applicano le considerazioni che si applicano alle componenti. Se per tutte le componenti del progresso vale una certa proposizione, questa proposizione può non valere per il loro insieme. Se la proposizione è: “ogni componente del progresso è sottoposta agli effetti del progresso (per esempio subisce fenomeni di saturazione e così via)” e se questo non vale per l’insieme delle componenti, se ne ricava subito che la visione progressista si trasformerebbe in conservatrice: il progresso non è sottoposto a progresso, è statico o stazionario, è destinato a rimanere uguale a se stesso. Nella visione “progressista”, insomma, il progresso è considerato una conquista definitiva e un bene indiscutibile, perciò deve continuare: affinché ciò accada non vengono toccati (cioè non vengono sottoposti a progresso) alcuni elementi del sistema (la ricerca di base, l’uso della razionalità…), che devono invece rimanere stabili: il progresso avviene grazie alla conservazione.
Una critica radicale alla nozione di progresso dovrebbe rifiutare questa extraterritorialità di certe componenti e mettere in discussione l’idea stessa di progresso, senza accettarlo aprioristicamente come un bene. È vero, lo farebbe ricorrendo alla razionalità, ma la stessa razionalità può essere soggetta a critica. Si entra qui in un gorgo concettuale: ma il disagio che esso ispira non è ragione sufficiente per rifiutarlo in nome della tranquillità epistemologica.

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Un progresso (forte) non salvaguardato dalle cautele e dalle riserve mentali espresse dall’aggettivo “progressista” non troverebbe limiti alle proprie manifestazioni: esso potrebbe anche innescare meccanismi capaci di bloccare il sistema, portandolo al collasso o alla stasi, e quindi il progresso finirebbe col bloccare il progresso per esaurimento delle risorse.
Tutto ciò sul piano teorico. Sul piano pratico, poi, si pone un problema di decisione e di responsabilità: chi e come decide quali componenti devono essere conservate in una visione “progressista” del progresso? Non possono essere i rappresentanti di quelle componenti: non possono essere i ricercatori a pretendere di conservare la ricerca, o gli innovatori l’innovazione tecnologica. La decisione spetterebbe alla politica, intesa come attività di mediazione tra le varie istanze sociali. (Ammesso che questa “decisione” possa essere tale, cioè assumere le caratteristiche di consapevolezza informata che una decisione dovrebbe possedere, perché spesso, invece, si ha l’impressione che sia il sistema nel suo complesso, in una sorta di evoluzione non guidata, a prendere le decisioni.) Accade tuttavia che, contro il ruolo della politica, si ergano gli interessi di certi gruppi (per esempio di scienziati) che rivendicano il ruolo di motori immobili del progresso perché si ritengono rappresentanti delle componenti intangibili del progresso. Questo mi sembra essere il limite profondo di una “critica progressista del progresso”, a prescindere dai giudizi di valore che ciascuno può dare della razionalità, della ricerca scientifica, delle tradizioni popolari, dell’irrazionalismo, delle emozioni, delle fumisterie e via dicendo.
Come ho detto, una critica superficiale del progresso debole si riduce al tentativo di ridurre gli effetti negativi del progresso. Questi effetti possono essere limitati, per esempio, limitando le attività che li producono. Ma nella visione progressista a queste limitazioni si vorrebbe comunque sottrarre qualcosa, qualcosa che sembra svincolarsi dalla pericolosa instabilità insita nella retroazione positiva: la conoscenza “pura”. Chi sostiene la sostanziale differenza tra ricerca pura e applicata, in fondo, sostiene che gli effetti negativi sul mondo derivano solo dalla tecnologia, perché la scienza non ha a che fare con il mondo: la sua interazione con il mondo è conoscitiva e non manipolativa. Inoltre le risorse che essa assorbe sono risorse “immateriali” praticamente inesauribili (intelligenza, inventiva, tempo, pazienza, rigore…).
A questo proposito osservo che, come insegna la storia, scienza e mondo non si possono separare. Il fenomeno degli esattamenti coinvolge anche la ricerca di base: molte scoperte, idee o invenzioni teoriche, la cui origine non aveva fini applicativi, sono state poi impiegate in ambito tecnico con effetti talora amplissimi se non devastanti. In secondo luogo, le risorse assorbite dalla ricerca pura sono sempre più concrete: non bastano l’intelligenza e la curiosità, occorrono anche i finanziamenti, i quali derivano dallo sfruttamento di risorse in gran parte materiali e non rinnovabili. Inoltre, i finanziamenti vengono concessi sempre più alle ricerche che promettono applicazioni a breve termine, rendendo la distinzione tra ricerca pura e ricerca applicata sempre più tenue.
Insomma, anche in un’ottica meno teorica e più sollecita della concretezza, risulta difficile sottrarre la componente “progresso della scienza pura” alla crisi che coinvolge la nozione generale di progresso. Anche la scienza rivela un carattere storico e contingente (nella sua origine e nel suo corso) e non necessitante; anche l’accumulo di conoscenze scientifiche è soggetto alla crisi derivante dalla natura destabilizzante della retroazione positiva, perché se la scienza non vuole aver nulla a che fare con il resto del mondo (cosa di cui si può dubitare) è il resto del mondo che vuole aver a che fare con la scienza.
Un’osservazione per concludere questa premessa: nei confronti dell’Assoluto la posizione della scienza è ambigua. Da un parte, soprattutto in passato, essa si è posta come matrice di quella particolare forma di Assoluto che è la Verità, d’altra parte le sue caratteristicche di rivedibilità e perfettibilità la obbligano a respingere qualsiasi tipo di Assoluto. Ciò comporta che gli umani provino nei confronti della scienza sentimenti contrastanti: da una parte avvertono che essa potrebbe soddisfare il loro bisogno di Assoluto e la rivestono quindi di un alone magico; dall’altra sono costretti ad ammettere che quel bisogno non trova soddisfazione nella scienza, perciò, non potendolo sopprimere, cercano di soddisfarlo altrove. La delusione nei confronti della scienza porta al disinteresse, al rifiuto e alla contestazione, tanto più che la scienza è considerata parte integrante del sistema politico, economico e culturale dell’Occidente e quindi soffre della crisi che lo investe.

1. Una scienza disorientata

La mania della verità, propria di noi occidentali, è in realtà un’afflizione.
George Steiner, La nostalgia dell’assoluto

Vi giuro, signori, che avere coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia. Per i bisogni dell’uomo sarebbe d’avanzo una comune coscienza umana, ossia la metà, la quarta parte di quella che tocca a un uomo evoluto del nostro infelice diciannovesimo secolo.
Feodor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo

Immagine articolo Fucine MuteAll’inizio del Novecento era diffusa una sensazione di appagamento. Mentre la Belle Epoque celebrava i suoi fasti, l’idea di un progresso radioso che prima o poi avrebbe coinvolto tutto e tutti costituiva un orizzonte di aspettativa concreta ormai a portata di mano. Nell’ambito scientifico, l’idea di progresso regnava incontrastata, anzi stava per compiersi la promessa di sempre. Almeno nelle scienze fisico-matematiche pareva di essere a un passo dalla meta finale: la descrizione, rappresentazione e spiegazione “vera” del mondo. Marcelin Berthelot poteva affermare che la chimica non aveva più segreti e Max Planck era convinto che la fisica fosse ormai vicina all’irenico traguardo della completezza, tanto che agli studenti più dotati si sconsigliava di intraprendere gli studi di fisica. Rimanevano sì alcuni particolari inspiegati, come la radiazione del corpo nero, che le teorie della fisica classica non riuscivano a chiarire, ma si trattava di inezie
Invece, di lì a poco tutto sarebbe crollato e l’Occidente sarebbe precipitato in una drammatica crisi di sfiducia che, con alti e bassi, ancor oggi perdura. Nell’ambito socioculturale si aprì una profonda ferita che si colmò via via di angoscia. Nell’ambito strettamente scientifico, quella che pareva una crepa superficiale si rivelava l’ingresso di un mondo nuovo e inquietante: pareva di aver misurato la grande cattedrale della scienza, invece ci si accorgeva di averne appena esplorato il pronao e per quell’oscuro pertugio del corpo nero si entrava in una cavità immensa muniti solo della luce di un cerino. Baluginavano certi particolari: qui l’aureola di una statua, laggiù la cornice di un quadro, in lontananza il plinto di un immenso pilastro che spariva nel buio di un soffitto lontanissimo: ma l’architettura dell’insieme sfuggiva.
L’esplorazione di quella grande cattedrale doveva portare a una profonda rivoluzione concettuale, di cui si sarebbe fatta antesignana la meccanica quantistica. Allo stesso tempo le idee evoluzionistiche propugnate da Darwin e da altri continuavano la loro marcia inesorabile, conquistando via via tutte le province della biologia. La visione del mondo, che fin lì era stata caratterizzata da una tendenziale staticità, prendeva slancio dinamico ed era riconquistata al divenire. La sconfitta di Parmenide ad opera di Eraclito reintroduceva nella fisica quel parametro del tempo irreversibile e quella storia che gli scienziati si erano sforzati per secoli di eliminare.
Questa trasformazione, nella scienza, è ancora in atto: sono lontanissimi i tempi in cui Einstein, per consolare la vedova dell’amico Besso da poco scomparso, le scriveva che per chi crede nella fisica la differenza tra passato e futuro non è altro che “una tenace illusione”. Oggi le leggi della fisica, che avevamo creduto eterne, universali e assolute nella loro precisione si rivelano di fatto leggi statistiche: la nostra visione del mondo è segnata da un’imprecisione ineliminabile. La certezza di un tempo si è rivelata più un nostro pio desiderio che una realtà sperimentale.

2. Di fronte alla tecnologia

La razionalità classica si è presentata per alcune centinaia di anni con i connotati di una struttura naturale, necessitante e aprioristica […] La crisi di quella razionalità si è originata dalla consapevolezza che quella razionalità non è una natura […] La struttura socio-economica della nostra civiltà ha generato un sistema di astrazioni e di generalità che riflettono una costellazione di poteri e di funzioni del dominio. Anziché essere una natura, quella razionalità si è rivelata, sotto la spinta dei bisogni della nostra vita una “crosta sottile e precaria” che nasconde un codice di norme convenzionali, un sistema di divieti e proibizioni imposti dai gruppi sociali dominanti nei termini di una ragione naturale e normale.
Aldo Giorgio Gargani, Crisi della ragione

Vorrei ora parlare di un grande mutamento epistemologico che accompagna quello che a mio parere è un indebolimento della scienza tradizionale, esemplificata dalla fisica. Questa scienza perseguiva l’ideale di una descrizione del mondo sempre più precisa. Il suo indebolimento deriva da alcune cause interne alla scienza, cioè dovute al suo sviluppo: la meccanica quantistica, la scoperta del mondo dell’informazione e la teoria dei sistemi dinamici (o teoria della complessità) hanno portato a una visione più articolata, e in un certo senso più cauta, dell’impresa scientifica. Ma ci sono anche cause esterne, di fronte alle quali la scienza è meno attrezzata: infatti se per la sua apertura al nuovo essa riconosce e accetta (almeno dovrebbe) la propria evoluzione interna, la sua natura autoreferenziale le impedisce spesso di venire a patti con il resto del mondo.
Eppure proprio nel momento in cui sembra che il ruolo sociale della scienza subisca un indebolimento e si assiste per contro a uno sviluppo senza precedenti della tecnologia, sarebbe d’importanza cruciale domandarsi quali possano essere nell’immediato futuro le forme dell’attività conoscitiva, la quale potrebbe trasferirsi dalla scienza alla tecnologia per manifestarsi in modi nuovi e sorprendenti. L’avvento del simbionte homo technologicus e soprattutto la formazione di una creatura planetaria, di cui la Rete Globale è l’anticipatrice, fanno prevedere una svolta epistemologica radicale. L’attività conoscitiva, al pari di quella artistica, potrebbe uscire dall’uomo e dalla società per essere esercitata, in forme ultraumane e supersocietarie, dalla creatura planetaria. Il tramonto della scienza come la conosciamo si accompagnerebbe così alla nascita di nuove funzioni e forme cognitive, dislocate in prodotti tecnici capaci di trascendere la propria natura strumentale per diventare produttori di una cultura nuova. Vorrei esaminare questo grande passaggio.

3. Scienza e tecnologia

Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre ed ogni nuova macchina non sarà che fonte di nuovi triboli per l’uomo.
I ricercatori saranno, nel migliore dei casi una progenie di gnomii inventivi pronti per farsi assoldare per qualsiasi scopo.

Bertold Brecht

Tra i fenomeni di cui è stato testimone il Novecento, uno dei più interessanti è la trasformazione del rapporto tra conoscenza e applicazioni, o se vogliamo tra scienza e tecnologia. Nella sua epoca d’oro, tra la metà dell’Ottocento e la metà del secolo scorso, la scienza aveva assunto una posizione di preminenza e quasi di tutela nei confronti della tecnologia: preparava il terreno alle sue invenzioni, o almeno le giustificava a posteriori, collocandosi così nel solco di una lunga tradizione di pensiero, risalente ai Greci, che privilegia la teoria rispetto alla pratica. Ma, a cominciare dalla metà del Novecento, la tecnologia ha assunto una velocità tale da non permettere, spesso, neppure le sistemazioni e le spiegazioni scientifiche a posteriori. [1]

Immagine articolo Fucine MuteLa scienza si è così ridotta a difendere posizioni sempre più precarie, tanto più che le radici dell’accelerazione tecnologica non sono da ricercarsi all’interno dello sviluppo scientifico, bensì nell’ambito della tecnologia stessa: l’informatica ha fornito all’innovazione uno strumento, anzi un metastrumento, il calcolatore, flessibile e leggero, il quale, con la simulazione, ha aperto la strada a una sorta di progettazione-costruzione virtuale che si pone a metà strada fra la teoria e l’esperimento, adottando forme e metodi del bricolage. La simulazione è facile, rapida, economica, divertente: ce n’è d’avanzo per far dimenticare l’ardua complessità delle argomentazioni e la pesantezza delle esperienze. La tecnologia si è affrancata dalla scienza e il mare che da sempre divide il dire dal fare oggi si naviga all’incontrario, nel senso che oggi è molto più semplice fare (sia pure virtualmente, ma nel mondo dell’informazione questo è un particolare trascurabile) che dire, cioè capire e spiegare.
Il superamento della scienza da parte della tecnologia ha portato alla costituzione di aree tecniche vastissime in cui le apparecchiature e i sistemi funzionano senza che si sappia bene perché: non esiste una teoria del software, non esiste una teoria di Internet, non esiste una teoria dell’ingegneria genetica. Grazie al computer e alla simulazione, queste aree tecnologiche, e altre ancora in rapido progresso, sono grandi palestre di improvvisazione creativa, di invenzione spicciola e locale, di soluzioni ad hoc, di espedienti e aggiustamenti ingegnosi, insomma di bricolage, più che di programmazione e progettazione razionale e sistematica secondo la tradizione scientifica ortodossa. Per non parlare di quanto gli strumenti informatici stiano modificando perfino lo statuto della fisica e della matematica.
Il grande sogno dell’Occidente, che da Platone in poi, passando per Cartesio e Leibniz, giunge fino ad Einstein, di spiegare o di ricostruire il mondo per via razionale e formale, non si è avverato. Anzi, quando sembrava prossimo all’attuazione, ha cominciato ad allontanarsi sempre più, come una nostalgica cometa. Come si è detto, questo indebolimento della scienza ha anche ragioni interne: strumenti di indagine sempre più raffinati ci hanno permesso di (o costretto a) scoprire le dosi massicce d’incertezza, di complessità e di disordine che si celano nelle pieghe di una realtà che fino alla metà del Novecento (e nell’immaginario collettivo anche molto dopo) si riteneva invece caratterizzata da un’estrema semplicità soggiacente, che prima o poi sarebbe stata disvelata e riassunta in un’unica formula. La complessificazione del nostro rapporto cognitivo con la realtà, se da un canto ha reso più stimolante la ricerca, dall’altro ha forse un po’ infiacchito lo slancio che si prova in vista del traguardo.
Insomma, è un po’ come se l’attività scientifica e la spiegazione razionale si stessero avviando al tramonto e cedessero il passo a una ragion pratica assai robusta e a volte tracotante. Ne è prova il disinteresse crescente che dimostrano gli studenti nei confronti delle facoltà scientifiche tradizionali: gli studi di matematica e di fisica sono trascurati a vantaggio dell’informatica, dell’economia e delle discipline della comunicazione e dello spettacolo: insomma a vantaggio di settori molto più vicini alle applicazioni e al mondo della rappresentazione mediatica. Questo fenomeno è ancora tutto da valutare, ma è innegabile.
Un’altra ragione di debolezza risiede nella radicata tendenza, da parte degli addetti ai lavori, a presentare l’attività scientifica come una sorta di missione, i suoi risultati come verità incontrovertibili e il suo apparato come una chiesa alla quale inchinarsi pena la scomunica da parte dei suoi ministri. Questa sacralità era quasi inevitabile, visti i rapporti ereditari tra le religioni (soprattutto il cristianesimo) e la scienza, che si sono avvicendate nel compito di depositarie della verità. Ma, si sa, le religioni scatenano sempre eresie, apostasie e, appunto, guerre di religione, proprio ciò che un po’ accade oggi nei confronti della scienza. [2]
Se un tempo i traguardi fulgidi e impassibili promessi dalla ricerca pura attiravano i pochi giovani con tendenze misticheggianti e trascendenti, in seguito, grazie agli incentivi economici, il numero dei ricercatori è cresciuto a dismisura: la missione di pochi è diventata il mestiere di tanti. Ma oggi le promesse di una crescita illimitata e di un benessere crescente per un numero sempre maggiore di persone si stanno dimostrando infondate: crescono invece le difficoltà economiche e il denaro scarseggia. Allora se fare scienza è una professione come un’altra, perché intraprendere una via lunga e faticosa, sempre più irta di incertezze economiche, quando altre strade appaiono più agevoli e invitanti? Se non c’è la “vocazione” (e le vocazioni calano di pari passo con la perdita di sacralità della ricerca) perché ridursi allo stato di animali da allevamento in ambiente controllato, che si sacrificano per produrre un miele raro di cui altri godranno i benefici economici? E infatti molti ricercatori, delusi dalla sproporzione che c’è tra i sacrifici che la ricerca esige e i risultati che elargisce, vogliono trasformarsi subito in imprenditori. [3]

Non dimentichiamo poi che la distinzione tra ricerca pura e ricerca applicata, alla quale alcuni credono ancora, è smentita dai fatti, cioè dalla progressiva scomparsa della ricerca pura, scomparsa che di fatto annulla la distinzione. Le ricerche che non promettano di recare benefici economici (quasi) immediati ricevono finanziamenti sempre più scarsi: è per questo che la matematica pura e la fisica teorica sono oggi meno coltivate della biologia o delle discipline della comunicazione. Scienza e mercato si sono intrecciati in una morsa la cui stretta ha espulso dalla ricerca le ultime gocce di idealismo. La ricerca è ormai sempre e solo ricerca applicata. Per questo le manifestazioni dei ricercatori che reclamano la “libertà di ricerca” sono discutibili ed equivoche: che ne siano consapevoli o no, quella che di fatto essi reclamano è la “libertà di applicazione delle ricerche” e su questo la società intera ha il sacrosanto diritto di interrogarsi e di decidere.[4]

Immagine articolo Fucine MuteQuesto calo di attenzione per la scienza, qualunque ne sia la causa, desta nei professionisti e nei sostenitori della ricerca un’accorata preoccupazione che s’intreccia con gl’interessi economici della categoria. Molti scienziati considerano la scienza non solo un prodotto eccellente, ma anche una conquista definitiva dell’umanità, quindi non riescono a farsi una ragione del suo indebolimento nella società contemporanea. Di fronte a questo fenomeno, ritenuto aberrante, la reazione più diffusa (e alquanto irrazionale) è la denuncia di un nuovo oscurantismo, di una prevalenza dell’irrazionalismo, di un rigurgito di fumisterie misticheggianti.[5] Inoltre, per ottenere fondi, i ricercatori decantano i meriti che la scienza ha avuto nel migliorare le condizioni di vita dell’umanità ed esaltano con toni a volte miracolistici le promesse implicite ma imminenti contenute nelle ricerche: l’onniscienza, l’onnipotenza, e una tendenziale immortalità (anche se a ben vedere queste promesse sono più della tecnologia che della scienza, anche se quest’ultima si è adeguata in fretta). [6] Ma non si dimentichi ciò che a proposito della religione dice Nietzsche nell’Anticristo: quando un’idea ha bisogno di essere sostenuta essa è già morta, perché le idee vive e vitali se la cavano benissimo da sole e non hanno bisogno di avvocati o di imbonitori. Forse la scienza occidentale non è, alla fin fine, una conquista irreversibile, ma un evento storico come tutti gli altri: è caduto l’Impero romano, cadrà, tristemente, anche la scienza che noi conosciamo… Del resto è già avvenuto che la scienza, nella forma che le avevano dato i Greci, si eclissasse per secoli durante il Medio Evo.
Come aveva intuito Ortega y Gasset, la scienza occidentale è un fenomeno singolare, una sorta di fluttuazione statistica limitata nel tempo e nello spazio, che non si ripeterà perché è scaturita dalla concomitanza di una miriade di condizioni rare. E George Steiner: “So di fare un’affermazione fuori moda, ma la ricerca disinteressata della verità stratta è culturalmente specifica; la sua storia è relativamente breve e ha una propria geografia. È un fenomeno del Mediterraneo orientale […] Perché è nata proprio in Asia minore, in Grecia, alla fine del VII o forse all’inizio del VI secolo a. C.? È un problema di difficile soluzione, che forse ha a che fare con fattori legati al clima, alla dieta proteica, a un sistema di parentela dominato dal sesso maschile in cui gli uomini erano predatori e avevano un ruolo dominante di ricerca. Forse il puro pensiero speculativo non sarebbe esistito senza la schiavitù, senza la libertà che gli uomini avevano di dedicare la propria volontà, le proprie energie a problemi non immediatamente legati alla sopravvivenza economica e personale.” (Steiner 2000). Una grande casualità dovette dunque presiedere alla nascita di un’attività che a noi sembra invece radicata nel mondo e nella natura più intima dell’uomo. Piuttosto la tecnologia fa parte dell’essenza dell’uomo, è legata a bisogni primari e profondi, alla stessa sopravvivenza, è radicata nell’evoluzione che ha portato alla nascita dell’homo sapiens. Ecco perché la tecnologia accompagna da sempre l’uomo e non è un episodio passeggero: la tecnologia potrebbe non sparire mai.[7]
È comunque paradossale che nel momento in cui la razionalità computante e la logica diventano strumenti essenziali e conferiscono vantaggio evolutivo nel mondo ad alta tecnologia che ci siamo costruiti intorno, la tecnologia stessa sempre più usurpa queste caratteristiche. Delegando, come stiamo facendo, l’uso della nostra razionalità agli strumenti, acceleriamo la scomparsa della scienza a favore della tecnica. D’altra parte questa delega appare inevitabile.

4. Tecnologia ed epistemologia

Dal declino della scienza così come la conosciamo naturalmente non seguirebbe la scomparsa dell’attività mentale e conoscitiva: essa potrebbe assumere forme inedite, legate soprattutto allo sviluppo tecnologico. Le conseguenze di questo mutamento di gusto e d’interesse, infatti, comportano una profonda svolta epistemologica di cui è responsabile in primo luogo proprio la tecnologia. Non è affatto vero che la tecnologia sia “solo” produttrice di strumenti e che gli strumenti non abbiano alcun effetto sui modi e le forme della conoscenza. Anzi. Il problema epistemologico sembra oggi oscurato dalla tumultuosa innovazione tecnologica e dalle ansie e dagli entusiasmi che essa suscita, ma non si dimentichi che azione e conoscenza sono profondamente intrecciate tra loro: gli strumenti sono sempre catalizzatori e filtri di conoscenza, quindi la tecnologia è matrice di cultura. Una cultura, magari, che a molti non piace.
Del resto anche il nostro primo strumento, che è il corpo nella sua interezza, è portatore di una conoscenza più ampia di quella consapevole che la scienza ha finora estrinsecato: il fatto che siano stati foggiati strumenti matematici capaci di formalizzare, sia pure senza il confortevole sostegno dell’intuizione, anche certe situazioni limite o “patologiche” rispetto alla normalità quotidiana (i paradossi della meccanica quantistica e i fenomeni caotici, che sempre più si rivelano onnipresenti in natura) può essere un segno che la nostra struttura biologica supera, in capacità descrittiva inconsapevole, l’abilità di descrizione e interpretazione che finora siamo riusciti a esplicitare in forma afferrabile e razionale. Quindi che cosa c’impedisce di pensare che anche gli strumenti che stiamo costruendo, quando superino un certo livello di complessità e di interazione comunicativa con gli esseri umani, siano in grado di (farci) compiere un balzo cognitivo? Di (farci) scoprire cioè qualcosa di radicalmente nuovo e originale nella natura oppure nel mondo artificiale che ci stiamo costruendo intorno e di (farci) attuare una svolta conoscitiva radicale?

Immagine articolo Fucine MuteVorrei ricorrere a un’analogia. Un cane, per quanto volonteroso e intelligente, non riuscirà mai a capire un teorema sia pure elementare come il teorema di Pitagora, che mediamente gli esseri umani, dopo un periodo opportuno di addestramento, capiscono senza gravi difficoltà. Allo stesso modo anche gli esseri umani più dotati incontrano limiti di comprensione: si può supporre senza sforzo che esistano (in qualche senso) concetti che superano l’intelligenza di qualsiasi persona. Ebbene, uno dei risultati più interessanti della tecnologia informatica è la creazione di intelligenze artificiali. Mi riferisco non solo o non tanto all’intelligenza artificiale classica, quella rappresentata da Herbert Simon, da Marvin Minsky e da tanti altri, che si è incarnata nel funzionalismo algoritmico, quanto all’intelligenza connettiva che si sta formando in Internet.
Si tratta di un fenomeno assolutamente nuovo, che prelude alla formazione di una vera e propria creatura planetaria che, a prescindere dalle interpretazioni mistiche ed escatologiche, ricorda molto le idee che Teilhard de Chardin nutriva a proposito dell’evoluzione cosmica. Per Teilhard la formazione di un’unica coscienza sarebbe mediata proprio dalla tecnologia comunicazionale, che acquisterebbe dunque un fondamentale valore evolutivo: “… questi strumenti materiali, ineluttabilmente legati gli uni agli altri nella loro comparsa e nel loro sviluppo, non sono altro che i lineamenti di una specie particolare di super-cervello.” Si tratta per Teilhard de Chardin della formazione di un vero e proprio sistema nervoso planetario, che spiana la strada alla formazione di “uno strato superiore di coscienza diffuso nelle falde ultra-tecnicizzate, ultra-socializzate, ultra-cerebralizzate della massa umana.” (v. Teilhard de Chardin 1962).
Con tutte le cautele del caso, e senza necessariamente abbracciare la visione teleologica e spiritualistica teilhardiana, oso dire che Internet può diventare sede di fenomeni inediti di intelligenza: se l’intelligenza, come io credo, nasce, si sviluppa e si manifesta nella e con la comunicazione, allora la Rete, che è un ambiente comunicativo per eccellenza, può manifestare le caratteristiche di un’intelligenza nuova, che si affiancherà all’intelligenza dei singoli e all’intelligenza collettiva dell’umanità per interagire in forme inedite e per dare risultati imprevedibili.
Insomma, nel momento in cui l’oggetto d’indagine comincia a comprendere non solo il naturale ma anche l’artificiale, il vuoto epistemologico che la scienza minaccia di lasciarsi dietro potrebbe essere via via colmato dalla tecnologia, anche se in modi molto diversi e magari sorprendenti. Per esempio la tecnologia produce sistemi di cui, come si è detto, ci serviamo senza capirne bene il funzionamento, e spesso non c’interessa affatto comprenderlo. Mentre la scienza ha sempre cercato di fare affiorare la complessità soggiacente per ridurla e darne una descrizione semplice (quasi direi “compressa”) attraverso le teorie, la tecnologia tende a nascondere la complessità dei manufatti sotto una superficie o interfaccia di grande semplicità ed efficacia operativa: mi pare che anche in questo caso si possa parlare di magia (v. nota 9). La semplificazione offerta dalla tecnologia riguarda sì il mondo artificiale, ma il mondo artificiale si presenta ormai come il mondo tout court. Così l’indifferenza teorica della tecnologia si unisce alla sua potenza semplificativa e omologante nei confronti della realtà ricreata per sconvolgere l’epistemologia. Siamo indotti a usare i suoi strumenti con la stessa inconsapevole disinvoltura con cui usiamo gli organi del nostro corpo, ma mentre per il funzionamento intimo di questi ultimi proviamo un grande interesse, per quello dei dispositivi tecnici quasi nessuno.[8]


5. Scienza e pensiero unico


Non dimentichiamo che la scienza ha dato il suo contributo sia alla globalizzazione sia alla dicotomia mente-corpo. Molti di coloro che si scagliano contro il mercato e la concorrenza selvaggia allo stesso tempo sono a favore della concorrenza tra le istituzioni di ricerca e del libero scambio delle idee, che sono sempre stati tra i principi fondamentali della scienza. La scienza, per sua natura, non (ri)conosce frontiere. Tuttavia quando la circolazione non riguarda più solo il pensiero ma anche le merci o gli uomini nasce l’opposizione… Se la competizione porta alla scomparsa delle idee più deboli e al trionfo di quelle più forti, ciò viene identificato con il progresso della scienza (e della verità), mentre la scomparsa di una fabbrica di automobili che non ha saputo reggere la concorrenza viene accolta con lamentazioni e proteste e si cerca in tutti i modi di evitarla. Le sovvenzioni alle fabbriche sono viste come un’interferenza nel mercato, le sovvenzioni alla scienza sono invece considerate doverose e sembrano non viziare la concorrenza. Se però si tiene presente la ricaduta economica delle ricerche, il loro finanziamento si configura come un’interferenza nel libero gioco del mercato… E spesso sono proprio gli scienziati che richiamano l’attenzione sul valore economico della loro attività per farsi finanziare. Insomma: ancora una volta l’attività scientifica vorrebbe collocarsi in una posizione specialissima rispetto alle altre attività, ma il legame ormai innegabile tra ricerca ed economia rende sempre più problematica questa differenziazione. Il legame è duplice: da una parte la scienza vuole denari, dall’altra asserisce di essere a sua volta un’attività redditizia (v. nota 7).
C’è da aggiungere che, se vogliamo considerare la scienza sotto il profilo puramente cognitivo, la concorrenza senza limiti tra le varie teorie in base al solo criterio di “verità” porta all’affermazione di una sorta di pensiero unico (scientifico). Ancora una volta, ciò che è deprecato in ambito sociopolitico, e culturale in genere, viene accettato senza riserve nell’ambito scientifico e, tendenzialmente, in ambito tecnico. Ma questo pensiero unico dimostra la propria fragilità appena viene a contatto con la variegata realtà umana e si frammenta in un ventaglio di opinioni che sembrano aver perso il contatto con la monocorde robustezza primitiva: nel tribunale o in quella sorta di moderna arena circense che è il dibattito televisivo, lo scienziato o il tecnico vedono spegnersi la loro aureola e si ritrovano spesso a contendere su un piano di penosa parità, con avvocati, periti di parte avversa, maghi, cartomanti e imbonitori (v. nota 5). Naturalmente la nozione di “pensiero unico scientifico” va confrontata con il rapporto tra creazione e diffusione delle idee.

6. Scienza e democrazia

Le economie che producono idee sono meno egualitarie di quelle che fabbricano oggetti. Sembra che la tendenza a escludere coloro che non hanno idee sia più forte di quella a escludere coloro che non possiedono ricchezze
Daniel Cohen, Ricchezza del mondo, povertà delle nazioni

Immagine articolo Fucine MuteLa scienza, inoltre, ha favorito la dicotomia mente-corpo, non solo perché anch’essa è figlia di Cartesio e tende a onorare il padre, ma anche per il suo carattere profondamente antidemocratico: non è vero che la scienza è democratica, non è vero che chiunque può ripetere a casa propria i costosissimi esperimenti compiuti nei laboratori da squadre di specialisti attrezzati, addestrati e motivati (e poi perché qualcuno dovrebbe ripetere nel chiuso della propria casa quegli esperimenti quando fuori, in strada, succedono cose meravigliose o atroci, le cose vere e fulminee della vita?). In realtà, pur offrendosi, in linea di principio, a tutti, la scienza, a differenza della tecnologia, è per pochi, è per noi privilegiati o illusi, che ci figuriamo che la forza della “verità” scientifica superi la forza della vita: ma anche Galileo abiurò, scegliendo la vita piuttosto che la verità (provvisoria, sempre provvisoria, v. nota 3). Così, nella nostra visione del mondo, noi privilegiati rappresentiamo la mente nobile, e chi della scienza non vuole o non può saperne rappresenta il vile corpo.
E ancora, quanto alla democrazia: è vero che la legge di gravitazione universale non può essere oggetto di referendum, ma se la verità sussiste a dispetto del parere o del voto dei più, come possiamo sostenere che la scienza e la sua verità sono democratiche? Come si fa a distinguere i campi di applicazione della democrazia da quelli che devono esserle sottratti? E chi deve compiere questa distinzione? La distinzione è a sua volta soggetta alle regole democratiche? E se per alcuni aspetti importanti della vita siamo decisamente antidemocratici, a che cosa si riduce allora questa democrazia? Basta considerare gli esseri umani uguali tra loro solo quando si chiudono nella cabina elettorale per eleggere i propri rappresentanti politici o amministrativi (e anche lì ci sarebbe molto da precisare)? È vero peraltro che la scienza recupera il suo aspetto democratico a un livello diverso: se i singoli non possono ripetere gli esperimenti compiuti nei grandi laboratori, li possono ripetere altri grandi laboratori. La democrazia a questo livello garantisce un certo controllo dei risultati.
Chi di noi scienziati privilegiati sosterrebbe che il creazionismo e la teoria dell’evoluzione hanno pari diritto di essere insegnati a scuola? Pochi, o punti. Eppure se la gran parte della popolazione sostenesse questa parità, come accade in qualche regione del mondo, che cosa potremmo o dovremmo fare, democraticamente?

7. I limiti della razionalità

Accanto al crollo dei confini esterni, fisici, geografici, economici ed epidemiologici dovuto alla globalizzazione, si osserva oggi anche la caduta di limiti interni, di carattere etico: è questo uno degli effetti più cospicui, sotto il profilo psicologico, dei successi della scienza e della tecnica. La ricostruzione del mondo operata dalla razionalità scientifica e dall’efficienza tecnologica ha aperto prospettive grandiose, di fronte alle quali cadono uno dopo l’altro i limiti, i tabù e gli scrupoli tradizionali. Nascono così i miti dell’onniscienza, dell’onnipotenza e dell’immortalità, che incarnano aspirazioni umane vecchie come il mondo.
A proposito di questa ambizione razional-computante, vorrei citare ciò che scrive Konrad Lorenz nel libro Gli otto peccati capitali della nostra civiltà:

Immagine articolo Fucine MuteCredere che faccia parte del patrimonio stabile dell’umanità soltanto ciò che è comprensibile per via razionale, o addirittura soltanto ciò che è scientificamente dimostrabile, è un errore che comporta conseguenze disastrose […] che induce a gettare a mare l’ingente tesoro di conoscenze e di saggezza contenuto nelle tradizioni di tutte le antiche culture e nelle dottrine delle grandi religioni universali [e a] vivere nella convinzione che la scienza sia in grado di dar vita dal nulla, unicamente per via razionale, a una intera cultura, con tutto ciò che essa comporta.

È un’indicazione forte sulla ricchezza non computabile del mondo, dell’uomo e della civiltà, che non dovrebbe essere sacrificata al mito della razionalità tecnoscientifica.
Questo mito si fonda, tra l’altro, sull’asserita possibilità di tradurre tutto il “mondo reale”in conoscenze esplicite e consapevoli. Forse abbiamo sopravvalutato l’importanza della coscienza come fenomeno unitario, unificante del sé e continuo. Già Freud sosteneva che gran parte della nostra attività mentale è inconsapevole, e Varela aggiunge che molti processi mentali non potranno e non dovranno mai giungere alla coscienza: la consapevolezza rallenta i processi mentali e le conseguenti azioni corporee, mettendo a repentaglio la nostra capacità di agire e di sopravvivere in un mondo nel quale siamo “in presa diretta”.
Secondo molti studiosi del cervello, l’inoppugnabile sensazione soggettiva del sé continuo è un’illusione: la mente non sarebbe un’entità continua e unificata, bensì una famiglia di attività e percezioni (in gran parte inconsce) animate da un’incessante dinamica. Perché allora questa sensazione di un flusso di coscienza continuo, di un sé unitario che viene riassunto da questo pronome “io” così ingombrante? Scrive Ivo Andric’ nella Corte del Diavolo:

Io! Parola grave, che agli occhi di coloro di fronte ai quali è pronunciata fissa il nostro posto, fatale e immutabile, spesso molto al di là o al di qua di ciò che sappiamo di noi stessi, al di fuori della nostra volontà e al di sopra delle nostre forze. Parola terribile che, una volta pronunciata, ci lega per sempre, identificandoci con tutto quello che abbiamo immaginato e detto e con cui non ci siamo mai sognati di identificarci, ma che, nel nostro intimo, fa da tempo tutt’uno con noi.

Al contrario, David Hume aveva sostenuto:

Ciò che chiamiamo mente non è altro che un insieme o collezione di diverse percezioni, che sono tenute insieme da certe relazioni e che, erroneamente, supponiamo essere dotate di una perfetta semplicità e identità.

Sembra che un emisfero (in genere il sinistro, l’emisfero dei fanciulle e degli dèi) sia incaricato di elaborare delle narrazioni sul mondo e sulla nostra presenza e attività nel mondo: queste narrazioni interpretano sentimenti, sensazioni, credenze e comportamenti e ne foggiano delle spiegazioni sul funzionamento del mondo. Queste spiegazioni ci sono indispensabili per vivere nel mondo: ma il mondo nel quale così viviamo è un mondo “ricostruito”. C’è, nella storia del pensiero occidentale, un tenace pregiudizio, che risale (ancora!) alla filosofia greca, secondo il quale la nostra mente è uno strumento (anzi lo strumento) per la ricerca della verità. La scienza ha ereditato questa convinzione. Certo, ogni tanto prendiamo un abbaglio, ma non c’è nulla nella mente che le impedisca, prima o poi, di costruirsi un quadro veritiero della realtà.
Tuttavia, se accettiamo la lezione darwiniana, dobbiamo ammettere che la nostra mente, al pari di quella degli altri animali, serve a mantenerci in vita nel mutevole ambiente che di volta in volta ci circonda: il paramentro di valutazione della mente non è la sua capacità di raggiungere la verità, ma la sopravvivenza della specie. Non siamo, come sembrano suggerire il mito platonico e l’intelligenza artificiale funzionalista, menti astratte e dedite alla ricerca che si sono trovate loro malgrado catapultate in un greve corpo animale: di fatto siamo animali e la nostra mente è un prodotto dell’evoluzione al pari dell’apparato digerente. Non ci sono motivi, se non ideologici o metafisici, per ritenere che la mente, che ci serve per stare al mondo, trovare cibo e cercare un altro individuo con cui accoppiarci, ci fornisca un’immagine “veritiera” della realtà. È vero che l’uomo ha una razionalità che gli altri animali non possiedono e che gli ha permesso di sviluppare un imponente edificio scientifico; ma è anche vero che l’uomo possiede una capacità mitopoietica e autoillusoria senza pari. Ed è proprio la ricerca scientifica che oggi ci fornisce dell’uomo un quadro diverso da quello che abbiamo ereditato dalla filosofia tradizionale e dalle religioni, più umile e disincantato.

8. La fiducia nella tecnoscienza

Immagine articolo Fucine MuteMolti nutrono nella scienza e nella tecnica una fiducia illimitata. Solo la tecnoscienza, sostengono costoro, può salvarci dagli effetti perversi della tecnoscienza. Si tratta, ancora una volta, del ricorso a una retroazione positiva, quindi destabilizzante, anche se non si può escludere, a un certo momento, l’intervento di qualche meccanismo di riequilibrio. È a causa di questi meccanismi di delega sempre più spinta che la tecnoscienza moderna tende a svincolarsi dal nostro controllo. Il golem è una metafora frequente quando si parla della tecnologia, cioè di un’impresa che, concepita dall’uomo per il proprio vantaggio, talora gli sfugge di mano con effetti disastrosi. La classica distinzione tra scienza e applicazioni oggi sfuma sempre più e viene sostituita da un rapporto articolato e faticoso. Soprattutto per effetto degli investimenti, il passaggio dal laboratorio al mercato si compie in tempi brevissimi: se da una parte il denaro accelera tutto ciò in cui si riversa, dall’altra oggi tende ad alimentare solo le ricerche che promettono applicazioni a breve. Come abbiamo già osservato, ciò ha portato, nel Novecento, al sorpasso della scienza da parte della tecnica.
La velocità e la complessità della tecnologia impediscono alla scienza di tracciarne un quadro esplicativo coerente e completo e di fornire risposte certe ai problemi applicativi: che cosa accadrà se userò la tal medicina, se devierò il corso di questo fiume, se modificherò il corredo genetico di questa specie? La nostra capacità di agire, inducendo cambiamenti durevoli e talora irreversibili, è ormai molto più sviluppata della capacità di prevedere gli effetti dei nostri interventi.
L’intricato rapporto tra scienza e tecnologia non si deve studiare solo sul piano teorico, ma va inquadrato in una realtà fatta di pesantezze materiali e di difficoltà attuative: è necessario mettere in luce il groviglio inestricabile di giudizi a priori, ricostruzioni razionali, semplificazioni teoriche, implicazioni sociali ed economiche in cui la tecnologia si trova sempre inviluppata. Da lontano tutto sembra semplice e chiaro, ma quando ci si occupa dei minuti particolari, quando cioè si passa dal “dire” al “fare”, nascono problemi spesso insolubili. Vista da vicino e calata nel reale, la tecnologia è così complessa che la scienza ha poco da dire. Per tradizione, dalla scienza ci si aspettano risposte forti e chiare (come indica l’abuso irritante dell’aggettivo “scientifico” anche nelle pubblicità più becere), mentre qualunque problema reale ammette una pluralità di soluzioni, prove e interpretazioni, ciascuna delle quali contiene una parte di verità e, insieme, può essere smontata e confutata in un tribunale, cioè nel luogo in cui la parola dell’esperto deve venire a patti con la parola degli altri e con la vita e col destino delle persone.
Ne segue una delusione nei confronti (dell’immagine romantica) della scienza che non può lasciarci indifferenti, ma che non deve neppure farci vagheggiare il ritorno a un grembo materno e rassicurante che ci protegga dall’errore. Bisogna accettare l’incertezza intrinseca del nostro rapporto col mondo e vivere nello stretto margine tra la rigidità e il caos, altrimenti il giudizio sulla tecnoscienza oscilla sterilmente tra perfezione e fallimento. Non esistono soluzioni certe e ogni decisione è frutto di un compromesso; i modelli matematici non possono sostituire del tutto una lunga esperienza sul campo (e viceversa); l’analisi dei calcoli non fornisce una scala di accettabilità dei rischi. Insomma, per affrontare il mondo occorre complessificarne la visione, analizzare i problemi da vicino, collocandoli nel loro contesto socioculturale (e morale) più ampio e non bisogna cadere nella tradizionale dicotomia del vero e del falso tanto cara agli specialisti, ma così lontana dalla vita reale.[9]


9. Il principio di precauzione

È meglio prevenire che curare
Detto e ridetto

Sin dai tempi di Francesco Bacone, il perseguimento del progresso scientifico è stato considerato legittimo per definizione, in quanto attività al servizio dei superiori interessi dell’umanità.
Purtroppo questa opinione è sbagliata.

Francis Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo

Nel 1992 le Nazioni Unite organizzarono a Rio de Janeiro una Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo, in cui fra l’altro si riconosceva il diritto e il dovere degli Stati di applicare il cosiddetto “principio di precauzione”. Di questo principio si fa menzione nel Trattato della Comunità Europea: “La politica della Comunità in materia ambientale mira a un livello elevato di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente nonché sul principio ‘chi inquina paga’…”. Nel 1999 il Parlamento europeo ha sottolineato “l’importanza dell’applicazione del principio di precauzione” riaffermando “l’esigenza fondamentale di un approccio precauzionale nell’ambito dello spazio economico europeo alla valutazione delle richieste di commercializzazione degli organismi geneticamente modificati che si intendono inserire nella catena alimentare.”
Non bisogna confondere il principio di precauzione con un generico invito alla prudenza o con un’ingiunzione aprioristica: il principio si applica quando, in presenza di rischi gravi o irreversibili non se ne possa ancora stabilire con certezza un’esatta quantificazione e una precisa relazione tra causa ed effetto sulla base delle conoscenze scientifiche a disposizione. L’adozione di decisioni cautelative dipende insomma dalla mancanza totale o parziale degli elementi necessari per valutare il rischio che presenta un fenomeno, prodotto o processo, rischio la cui esistenza plausibile tuttavia è dimostrata.

Immagine articolo Fucine MuteLa valutazione del rischio serve per concedere o rifiutare l’autorizzazione a mettere in commercio prodotti potenzialmente pericolosi. A volte tuttavia le conoscenze che servono a valutare il rischio non sono sufficienti (ciò accade per esempio per gli Ogm) e in tal caso appunto si applica il principio di precauzione: insomma il ricorso al principio presuppone “che, per l’insufficienza dei dati, il loro carattere non concludente o la loro imprecisione, non sia possibile valutare con sufficiente certezza il rischio in questione.” È chiaro che le misure cautelative adottate in base al principio possono essere riesaminate quando nuovi dati a disposizione consentano una valutazione sufficiente del rischio. La Commissione europea sottolinea che il principio di precauzione può essere invocato solo nell’ipotesi di un rischio potenziale e che non può in nessun caso giustificare decisioni arbitrarie.
Riassumendo, l’applicazione delle misure restrittive o cautelative sulla base del principio di precauzione postula tre condizioni: l’identificazione di effetti potenzialmente negativi, l’esame dei dati scientifici a disposizione, un’ampia incertezza scientifica.
Si osservi esplicitamente che per fare scattare il principio basta che le conseguenze negative siano potenziali: il rischio non può essere dimostrato ma non può neppure essere escluso alla luce delle conoscenze del momento. Alla base di questo atteggiamento di cautela sta la velocità con cui le conseguenze si possono manifestare e propagare: è bene dar peso anche ad effetti negativi non dimostrabili ma prospettabili perché il passaggio da evento negativo plausibile a evento negativo probabile a evento negativo in atto potrebbe essere così rapido (e le conseguenze così gravi) da non consentire interventi correttivi a posteriori.
È d’importanza fondamentale rilevare che l’onere della prova spetta agli utenti. Al di fuori delle norme che regolano i medicinali, gli anticrittogamici e gli additivi alimentari, la legislazione comunitaria non prevede un sistema di autorizzazione preventivo all’immissione dei prodotti sul mercato. Il pericolo associato a un processo o a un prodotto, dopo che questo è stato immesso sul mercato, dev’essere quindi dimostrato dai cittadini o dalle associazioni dei consumatori. È vero che in certi casi il principio di precauzione può comportare un’inversione della clausola, per cui l’onere della prova (in questo caso d’innocuità) spetta al produttore, al fabbricante o all’importatore, ma questa decisione va presa caso per caso, e la Commissione non prevede l’estensione di questo obbligo a tutti i prodotti. Che l’onere della prova di pericolosità spetti ai cittadini comporta una tendenziale diffidenza del pubblico verso le innovazioni e quindi un rallentamento della loro adozione. D’altra parte, mentre la prova di pericolosità si può ottenere, la prova certa dell’innocuità non si può raggiungere mai.

Immagine articolo Fucine MuteNon sfugge che l’espressione “principio di precauzione” da una parte ha un significato tecnico ben preciso (che ho cercato di chiarire) e dall’altra fa parte del bagaglio lessicale comune. Non si tratta di prendere delle decisioni prudenziali in presenza di un rischio certo e quantificato, magari solo su base statistica, come sarebbe quello derivante all’incolumità di chi attraversa una strada piena di traffico. D’altra parte non si tratta neppure di adottare misure preventive quando i rischi sono soltanto immaginati: i rischi devono essere “plausibili” anche se non sono certi e quantificati. Forse il nome del principio è infelice: qualcuno ha proposto di chiamarlo “principio di Jonas” dal nome di Hans Jonas che per primo ha cercato di formularlo, ma le differenze sono cospicue, come cercherò di chiarire tra poco.
Osserviamo che quando si parla di rischi e di incertezza le situazioni classiche e consolidate sono ben diverse da quelle che emergono dall’applicazione delle cosiddette “nuove tecnologie”, che sono nuove (anche) perché le loro conseguenze non si sono ancora del tutto esplicitate. In questo caso la posizione degli esperti è ben diversa che nel caso classico, in cui una lunga storia di convergenza teorica e applicativa ha portato all’unanimità o quasi delle opinioni. Nel caso delle nuove tecnologie gli esperti sono spesso in disaccordo tra loro, emettono opinioni non esenti da pregiudizi e da una certa carica ideologica. Ed è proprio in questi casi di irriducibile incertezza che scatta l’applicazione del principio: sono i casi in cui invece di “valutazione scientifica” sarebbe più corretto parlare di “valutazione degli scienziati”. Il ridimensionamento di quella che siamo abituati a chiamare “certezza scientifica”, che ha le sue radici nel rapporto sempre più svantaggioso tra la complessità delle situazioni e l’insufficienza delle conoscenze, porta a dubitare del ruolo che sembrava aver assunto (o poter assumere) la tecnoscienza di guida e criterio sufficiente per l’elaborazione delle decisioni politiche.
Eppure il principio di precauzione, nella formulazione riassunta sopra, continua a basarsi su una semplificazione, cioè che gli esperti da consultare siano soltanto i tecnici, scienziati e ingegneri (talvolta medici), trascurando tutte le altre componenti che concorrono alla formazione del sapere complessivo di una società: sia quelli specialistici, della sociologia come della psicologia e dell’antropologia, sia quelli che sono patrimonio comune degli umani, dal buon senso all’intuizione, dalla pratica dei mestieri al senso del bello, dal rapporto con la natura all’esperienza del dolore alla ricerca della felicità. Riprendendo quanto osserva Lorenz nella citazione riportata sopra, escludere dalla base delle decisioni politiche il corredo delle sensibilità e dei saperi umani significa privilegiare indebitamente il discorso tecnoscientifico fino al punto di provocare nei suoi confronti le reazioni di sfiducia che oggi si osservano: tra la valutazione tecnica e la decisione politica di diffondere, per esempio, un alimento resta un vuoto che è vietato colmare con le valutazioni o con le percezioni individuali. Per di più, nella formulazione del principio di precauzione, la certezza della conoscenza scientifica, l’unica della quale non è lecito dubitare, viene messa a confronto con una situazione (provvisoria, beninteso) di incertezza: è un invito esplicito a un atteggiamento fideistico se non magico, nei confronti della scienza. Inoltre vengono del tutto trascurati altri argomenti, considerati non scientifici, che pure presentano lo stesso grado di incertezza delle valutazioni scientifiche. Ce n’è d’avanzo per generare irritazione se non ribellione (anche per l’uso dell’aggettivo “scientifico,” la cui definizione resta avvolta in un’oscurità tutt’altro che scientifica).
Naturalmente resta da definire che cosa sia “scientifico” e che cosa no. La definizione, implicitamente, sembra essere: è scientifico ciò che fanno gli scienziati; ma mentre questa definizione circolare, basata su un’autonomina e un’autoconferma della comunità scientifica, non aveva conseguenze di rilievo in passato, quando la scienza non aveva grandi effetti sulla vita delle persone, oggi la situazione è diversa: le responsabilità degli scienziati sono cresciute di pari passo con gli effetti pratici che provoca la loro attività. Eppure la scienza tenta sempre di situarsi nella situazione autonoma e autoreferenziale del passato, rifiutando ogni addebito di responsabilità. Molti scienziati vorrebbero che il canale tra loro e la società fosse a senso unico: fornire le basi per l’azione politica ma non essere coinvolti nelle conseguenze delle decisioni. Tuttavia il passaggio dalla società delle certezze alla società dell’incertezza rende sempre più difficile questo disimpegno.

Immagine articolo Fucine MuteQui si misura tutta la distanza che separa il principio di precauzione, un’istanza giuridica e formale basata sul presunto trionfo asintotico della certezza scientifica, dal “principio di responsabilità” di Hans Jonas, che fra le soluzioni etiche del problema tecnologico contemplava anche l’abbandono di quei progetti che fossero sentiti troppo pericolosi. Oggi i progetti vengono al massimo procrastinati e sottoposti a regole (che ovviamente possono sempre essere cambiate). Nel principio di precauzione viene a mancare, mi sembra, quella dimensione assoluta della rinuncia che si collega alla valutazione di un eccesso rispetto a una misura sentita come giusta. E l’assenza di questa sensibilità per il limite è rispecchiata in una frase una sconfortante e ripetuta litania (che sembra racchiudere una grave saggezza mentre è solo la rassegnata accettazione degli aspetti magici e deteriori della scienza: non c’è progresso senza rischi. Con le conseguenze, o premesse, altrettanto irriflesse: non si può fermare il progresso, non vorrete per caso tornare alla candela… Insomma: dubitare dell’intrinseca bontà della tecnoscienza è un peccato di ottusità, un segno di arretratezza reazionaria e di becera adesione alle tenere utopie degli ambientalisti. Non solo, ma ogni progresso sembra dettato dalla più urgente delle necessità: ma quali sono i progressi tecnoscientifici davvero necessari? Di solito le innovazioni diventano necessarie a posteriori, quando sono state adottate dalla società: i politici dovrebbero meditare su questa surrettizia inversione di temi e di ruoli.
Un punto essenziale riguarda la percezione soggettiva o intersoggettiva del rischio. Che ciascuno di noi sia disposto a correre certi rischi, e lo fa di continuo, non giustifica che gli vengano imposti rischi ulteriori, che non dipendono dalla sua volontà e che percepisce eccessivi. Se vado in autostrada a mio rischio e pericolo, perché mi si deve anche imporre di mangiare cibi transgenici se ne ricavo la percezione di un rischio intollerabile? Spesso, nella condanna senza appello dei renitenti al verbo progressista, si trascura la dimensione quantitativa del rischio, e ci si limita alle considerazioni probabilistiche: c’è rischio e rischio, ed è la contemporanea valutazione della probabilità di un rischio e della gravità delle sue conseguenze che dovrebbe guidare le scelte. Per decenni ci siamo sentiti dire che la probabilità di un incidente nucleare grave è irrisoria, ma nessuno ha moltiplicato questa probabilità per la gravità dell’incidente per offrirne una valutazione più sensata. E poi gli aspetti tecnoscientifici non esauriscono le conseguenze, nel bene e nel male, di un’innovazione. Bisognerebbe considerarne anche gli aspetti economico-sociali: occupazione, giustizia, sanità, libertà, sicurezza, controllo sociale, relazioni tra le classi all’interno di uno stesso paese e rapporti tra paesi sviluppati e sottosviluppati (v. Fukuyama 2002).
Infine l’aspetto illuministico della scienza acquista sempre più spesso venature messianiche: pretendendo una fede indiscussa nelle sue premesse e promesse, la scienza tende a rinunciare anche alla sua funzione pedagogica, discutibile ma utile, nei confronti del pubblico. I profani, come diceva Orazio, vanno tenuti alla larga: anche perché, se li si informa, non c’è garanzia che essi diano credito alle perentorie asserzioni degli iniziati. Le dimostrazioni della scienza, quando si calano nella complessità del reale, perdono il loro carattere cogente e univoco, si prestano a interpretazioni, a scismi, ad apostasie. Coinvolgere i cittadini, sui quali tutti alla fin fine ricadono le conseguenze delle scelte, ricorrere alla democrazia diretta o almeno rappresentativa è atto rischioso ma non demagogico e non è neppure l’aggiunta di un tassello in più al mosaico delle opinioni: il parere dei non specialisti non si pone allo stesso livello del parere degli esperti e delle associazioni. Se i cittadini vengono informati, il loro parere è quello che dà senso ai risultati delle valutazioni: perché allora, nel quadro del principio di precauzione, la Commissione europea non fa riferimento alcuno al dibattito pubblico? Forse, di fronte al potere e all’autorità degli scienziati che tendono a imporre il loro punto di vista, l’unico antidoto contro il pensiero unico e le decisioni unilaterali è proprio il rafforzamento dei canali di informazione e delle consultazioni di tipo democratico. Il pubblico è composto da esseri umani dotati di buon senso e di intuizione: gli esperti (non solo tecnici in senso stretto) dovrebbero assumersi il ruolo di mediatori tra la scienza e i cittadini, fornendo loro gli elementi su cui esercitare responsabilmente queste doti.
Sarebbe, questo sì, un procedimento davvero scientifico, perché consentirebbe di tenere in considerazione una quantità di dati e di fatti (la percezione dei rischi, l’orientamento culturale del pubblico, le componenti irrazionali, gli aspetti simbolici, la sensibilità e gli interessi comuni delle persone e altro ancora) che l’impostazione astratta che oggi passa per scientifica trascura (già la scelta dei fatti da considerare tali è ideologica, quindi non scientifica e già da tempo sappiamo che non esistono fatti, ma solo fatti interpretati, inseriti in un contesto e perciò carichi di valori: quindi le scelte politiche basate sui fatti scientifici sono comunque scelte ideologiche, non si scappa). Così si potrebbe forse rimediare alla dissimmetria d’informazioni tra gli specialisti (gli scienziati, i politici, le imprese) e la società civile, dissimmetria sempre più accentuata e causa certa di una polarizzazione antidemocratica e autoritaria.[10]

Immagine articolo Fucine Mute

Il presente testo è tratto dal sito della Fondazione Giannino Bassetti, e riprende le considerazioni svolte dall’autore in occasione di un convegno dal titolo “Per una critica progressista del progresso: la scienza di fronte al mondo e a se stessa” svoltosi il 14 e 15 novembre 2002 alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste.
Ringraziamo Gian Maria Borrello, responsabile del sito, ed il prof. G. O. Longo, per il consenso accordatoci sulla pubblicazione del saggio.


Note

1. E’ forse la prima volta nella storia che l’Occidente si affranca, in parte ma decisamente, dalla tutela culturale dei Greci, e ciò grazie a un fenomeno, la tecnologia concreta, che nella classicità non ha mai avuto una grande importanza: la tecnologia dei Greci era soprattutto astratta, era fatta di macchine concettuali (la filosofia, la matematica, la retorica), mentre la nostra è una tecnologia sempre più concreta. Peraltro la nostra sudditanza nei confronti della Grecia antica resta fortissima: a loro dobbiamo la matematica, la logica, le forme della poesia e del teatro, la filosofia, le scienze della natura, la geografia, la medicina, la storia. Le forme del discorso che usiamo sono ancora quelle inventate dai Greci. E’ ovvio che si tratta di contingenze dovute a casualità, rotture di simmetria e concomitanze aleatorie, ma la storia le ha trasformate in realtà che percepiamo necessarie quanto i fenomeni naturali. Ci vuole una notevole capacità critica per capire che la nostra civiltà avrebbe potuto imboccare strade diverse, lontane dalla razionalità scientifica e dalla sua ossessione per la verità.

2. Nel suo libro La nostalgia dell’assoluto, George Steiner analizza il vuoto morale ed emotivo lasciato dal progressivo declino delle chiese tradizionali, soprattutto del cristianesimo (Steiner 2000). Hanno tentato di riempire questo vuoto alcune grandi “metareligioni”, aventi il carattere totalizzante della mitologia: il marxismo, la psicoanalisi e l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss. E la scienza intesa come ricerca della verità. Le prime tre teologie sostitutive si sono dimostrate fallimentari, mentre l’alternativa dellaricerca scientifica della verità non è più credibile: presentatasi anch’essa come teologia succedanea, ha perso poco a poco vigore e oggi è assediata da un discredito che si manifesta in ondate di irrazionalità che, al di là delle forme patetiche, sconclusionate e ridicole, esprime il profondo disagio e il bisogno di trascendente che continua a urgere negli umani. Il risentimento che molti dimostrano nei confronti della scienza è quello degli amanti traditi.

3. Lo screditamento della scienza ha cause molteplici: intanto l’opposizione della chiesa, che vedeva ben al di là della “verità” che stava a cuore a Galileo. Nella verità scientifica, sempre provvisoria e perfettibile, la chiesa vedeva una profonda causa di instabilità e di dolore di fronte all’immutabilità confortante della verità rivelata, garanzia di ordine e felicità. Più sottile e perdurante è poi l’azione corrosiva del misticismo, per il quale la verità ha un carattere irrazionale o ultrarazionale, al di là della logica e del controllo sperimentale (questo elemento irrazionale non cessa di riemergere anche ai nostri giorni). Da ultimo è venuto l’attacco dei sociologi della scuola di Francoforte, per i quali la verità, le leggi scientifiche e la logica non sono né naturali, né eterne né neutrali, ma esprimono la visione del mondo propria della classe dominante, le sue idee politiche e la sua struttura di potere socio-economico. La verità dipende dagli obiettivi politici e sociali del potere, che conferisce alle leggi scientifiche la loro aura di sacralità. Ma, come fa notare George Steiner, oggi “c’è anche qualcosa di molto più preoccupante: per la prima volta nella tradizione occidentale emerge un’incongruenza, uno sfasamento fra verità e sopravvivenza umana, fra la ricerca razionale della verità e gli ideali contrastanti della giustizia sociale. Non solo la verità può non renderci liberi, ma ci può distruggere.” (Steiner 2000). Questa paura delle conseguenze della verità scientifica è un dato di cui si deve tener conto nel giudizio che si dà della scienza. E’ interessante rilevare che il sorpasso della scienza da parte della tecnologia è più o meno contemporaneo al trasferimento del centro pulsante della ricerca dall’Europa, erede dei Greci, di Cartesio e di Newton, all’America di Edison, di Bell e di Shannon. Di questo passaggio fa parte ed è emblema l’emigrazione negli Stati Uniti di Enrico Fermi nel dicembre del 1938: la commovente ed esaltante epopea dei “ragazzi di via Panisperma” si trasformava nella spaventosa avventura di Los Alamos e nel suo esito infernale a Hiroshima e Nagasaki. Le ricerche sull’atomo, fin lì accessibili a tutti, presero, per esplicita richiesta dei fisici, la via del segreto militare. La scienza aveva venduto l’anima al potere.

4. La scienza non è mai stata “pura” e meno che mai lo è oggi: inquinata dalla tecnica e dall’economia, essa si arrende alla cieca egemonia del mercato. La ricerca non è più l’attività romantica di un tempo: la spinta della curiosità e l’anelito alla conoscenza sono stati sostituiti da inesorabili imperativi economici. La contaminazione tra scienza e mercato è seria. Lo dimostra la posizione di quanti, convinti che i mali del progresso derivino dalle applicazioni colpevoli di una ricerca di base in sé innocente, rivendicano alla scienza il suo primato di nobiltà sulla tecnica non invocando ragioni di principio, ma ricorrendo a un arbitro esterno, cioè appunto il mercato. Semplificando: la ricerca di base sarebbe superiore a quella applicata perché alla lunga rende di più in termini monetari. Senza ricerca pura le applicazioni e i brevetti diventano via via più scarsi. La causa della ricerca pura è sostenuta con argomenti squisitamente economici, concorrenziali e contabili: così i cervelli che fuggono dall’Italia configurano una perdita di capitale investito e già pagato che vola verso la concorrenza. La comunità di riferimento è quella scientifica, industriale e politica, trinomio difficile da ricondurre alla visione tradizionale del sapere. Il tal governante è illuminato perché ha affermato che nel prossimo decennio la sfida per i paesi industriali sarà vincere o almeno essere protagonisti nello sviluppo scientifico, mentre un altro capo di stato è oscurantista perché non attribuisce valore economico ai premi Nobel del proprio Paese. E via dicendo. Non ho nulla da obiettare a questa impostazione aziendale: poiché oggi la ricerca non è un’attività gratuita, chi ne paga i costi salati pretende un ritorno. Voglio solo rilevare che siamo lontanissimi dalla visione classica di un sapere fine a sé stesso, dilettoso e disinteressato. E, dosando le valvole dei finanziamenti, sempre più saranno sostenute solo le ricerche capaci di fornire innovazioni utili. A questo punto bisogna domandarsi che senso abbia parlare di libertà di ricerca. Al massimo la ricerca è in libertà vigilata.

5. Nella storia dell’uomo l’irrazionalismo è molto più antico della razionalità: non è l’irrazionale che scaccia la scienza, semmai esso riemerge per l’indebolimento della scienza. L’irrazionalismo non si manifesta solo nell’ambito che la scienza vorrebbe riservarsi: alcune trasmissioni televisive forniscono una panoramica comica e insieme patetica dell’ingegnosa attività di truffatori, azzeccagarbugli, imbonitori e ciarlatani, che nei campi più disparati traggono profitto dalla credulità della gente. In fondo una buona dose di credulità bisogna avere anche per affidarsi alle cure della medicina ufficiale e averne beneficio: se non si credesse, fideisticamente, nel medico, il fumoso statuto razionale della medicina non darebbe molto affidamento. Tutti ci facciamo imbrogliare, e talora volentieri: l’imbroglio è una pratica, attiva e passiva, frequentissima in tutti gli aspetti della vita sociale. Del resto una società senza truffatori e truffati sarebbe molto meno vivace e tenderebbe alla grigia monotonia della perfezione. Di fronte alla ciarlataneria forte è la tentazione del paternalismo (che semplifica brutalmente i rapporti tra vittima e truffatore e non tiene conto di molte sfumature e bisogni psicologici che sfociano nel sadomaso). Difficile distinguere il paternalismo autoritario e virulento da quella forma di paternalismo attenuato che è l’impulso all’educazione. Per concludere: scienza e irrazionalità, che sembrano opporsi, sono in realtà incommensurabili quanto il sistema delle conoscenze e il sistema delle credenze: perciò il tentativo di sconfiggere l’irrazionalismo con le dimostrazioni (o confutazioni) scientifiche è futile, oltre che ridicolo (com’è ridicolo tentare di far passare per ‘scientifici’ i fenomeni paranormali e cose del genere).

6. C’è in queste promesse demiurgiche il richiamo esplicito agli aspetti magici della scienza e della tecnologia. In particolare la delega tecnologica (che coinvolge anche l’etica e la responsabilità) ha il carattere magico dell’evocazione di un’entità-guida superiore. La scorciatoia della magia ha sempre affascinato gli umani, quindi forse non è sorprendente che in un’epoca di crisi vi ricorra proprio la scienza, che, come la religione, è sempre stata sua nemica. Il ricorso agli aspetti magici e prestidigitatori è molto evidente in matematica: il successo che incontra oggi questa disciplina esoterica presso il grande pubblico (e che si concreta in film, spettacoli teatrali e libri di divulgazione) non investe la matematica, ma un vago alone fumoso e suggestivo che la circonda da molto lontano e che ha tutte le caratteristiche del misticismo miracolistico. Questa (pseudo)divulgazione fa parte della truffa mediatica, è utile ai divulgatori e rassicura i divulgati-truffati, ma non accresce di un ette né la conoscenza né l’interesse per la matematica in sé. Anzi è importante che il pubblico continui a non capirne nulla, altrimenti l’alone magico si dissolverebbe e lascerebbe scorgere la matematica in sé, con tutta la sua severa e impervia bellezza, che non è per tutti (perché, come dice Rilke, “il bello non è che il tremendo al suo inizio”).

7. Per tradizione il campo di indagine della scienza (e non solo della fisica) è la natura. Senza addentrarmi in un tentativo di distinguere con precisione tra naturale e artificiale, mi sento tuttavia di affermare che il campo che si offre oggi all’indagine è sempre più quello artificiale: perciò i metodi e le pratiche della scienza tradizionale potrebbero non essere più adeguati. Con la fisica non si può studiare il ciberspazio.

8. La scienza non costruisce gli oggetti che studia, mentre la tecnologia non studia gli oggetti che costruisce. In realtà la distinzione non è così netta: la scienza si vale spesso della tecnologia per modificare gli oggetti naturali e ricondurli a condizioni sperimentali favorevoli al loro studio. Gli oggetti della scienza sono quindi fortemente impregnati di tecnologia e sono in parte (ri)costruiti. Per i manufatti tecnici, la costruzione effettiva sembra implicarne la conoscenza perfetta (anche se bisognerebbe distinguere la conoscenza d’uso dalla conoscenza di principio). Tuttavia certi manufatti hanno una complessità tale da impedirne una conoscenza compiuta. Questo vale in particolare se i manufatti sono embrionali e hanno carattere evolutivo, come il software e soprattutto molti prodotti delle biotecnologie, che in più si ibridano strettamente con i prodotti naturali. Anche sotto questo profilo la distinzione tra naturale e artificiale appare sempre più tenue.

9. Questa delusione per le promesse che la scienza non ha mantenuto deriva dal passaggio, in gran parte dovuto proprio all’attività scientifica, da un mondo di certezze a un mondo di incertezze, che, di conseguenza, pullula di rischi (sotto il profilo pragmatico la distinzione tra rischi “reali” e rischi “percepiti” non è così ovvia come potrebbe sembrare: ciò che conta, di fatto, non è tanto che un rischio sia reale quanto che sia percepito). La crescita continua delle conoscenze pareva consentire un intervento sempre più efficace e un controllo sempre più fine della realtà: oggi ci si rende conto che spesso il controllo è impossibile e che gli interventi sono spesso all’origine di effetti imprevisti e rischiosi. Spesso il rischio non deriva dallo stato delle cose quanto dalle perturbazioni dovute agli interventi regolativi umani.

10. Una delle conseguenze più stravaganti di questa dissimmetria, che si traduce in dissimmetria di potere, è la pratica aberrante di brevettare tutti i prodotti della ricerca, compresi gli organismi viventi. Fino al 1980, quando una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti concesse la possibilità di brevettare il primo batterio transgenico, la materia vivente non poteva essere brevettata, anzi in generale si potevano brevettare le invenzioni ma non le scoperte. L’appoggio dato da gran parte degli scienziati alla brevettabilità del vivente urta contro l’asserita necessità che la scienza, per conseguire conoscenze oggettive, sia disinteressata e scevra da condizionamenti d’ogni tipo.


Bibliografia minima

Bateson, Gregory, 1976, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, II edizione accresciuta, Adelphi, Milano, 2000.
Collins, Harry e Trevor Pinch, 2000, Il golem tecnologico, Edizioni di Comunità, Torino.
Fini, Massimo, 2002, Il vizio oscuro dell’Occidente, Marsilio, Venezia.
Fukuyama, Francis, 2002, L’uomo oltre l’uomo, Mondadori, Milano.
Greco, Pietro, 2002, Lo sviluppo sostenibile, in Lo sviluppo sostenibile, a cura di Pietro Greco, Cuen, Napoli.
Jonas, Hans, 1990, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino.
Longo, Giuseppe O., 1998, Il nuovo golem: come il computer modifica la nostra cultura, Laterza, Roma-Bari.
Longo, Giuseppe O., 2000,Di fronte alla tecnologia, «Nuova Civiltà delle Macchine», XVIII, n. 4.
Longo, Giuseppe O., 2001, Homo technologicus, Meltemi, Roma.
Longo, Giuseppe O., 2003, Il simbionte, Meltemi, Roma (in corso di pubblicazione).
Ortega y Gasset, José, 1999, La rebelión de las masas, Espasa, Madrid.
Teilhard de Chardin, Pierre, 1962, L’avenir de l’homme, Editions du Seuil, Parigi.

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