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Cinema

Tagli di “Aprile”

Nanni Moretti su Fucine Mute 56

Stasera vorrei trattare con voi quel particolare tipo di cinema, diretto e prodotto da me, che ha sfiorato la politica, poiché stasera non si può fare a meno di eludere la discussione sull’arte del governare e vorrei parlarvene in modo non ideologico, cercando soprattutto di non annoiarvi.

Vi racconterò il mio rapporto “intermittente” con la politica: un rapporto fatto di impegno giovanile — e quindi, per definizione, non continuo —, un rapporto fatto di attenzione e di disattenzione e anche, perché no, di pigrizia. Nell’ultimo anno e mezzo, in maniera improvvisa ed imprevista, tale legame è diventato molto stretto e così mi sono temporaneamente imbarcato in questa “avventura”.

Ma ritornando con la mente agli inizi, c’è da dire che per la mia generazione è quasi inevitabile partire dal ’68.

Io, in realtà, nell’anno scolastico ’67 — ’68 frequentavo un liceo classico che non aveva le ultime tre classi ma arrivava fino alla quinta ginnasio (tant’è che l’anno dopo dovetti cambiare Istituto per terminare il liceo) e così in quegli anni mancavano gli studenti vecchi, per intenderci quelli dai sedici anni in su, e pertanto nel ’68 la mia giornata tipo era semplicemente: la mattina a scuola, il pomeriggio al Cinema Nuovo Olimpia e la sera in piscina al Foro italico.

Di mattina a scuola io mi annoiavo… Ci sono tante persone che oggi si ricordano dei tempi delle superiori e dicono: «Sì, io mi annoiavo ma in ultimo banco ho letto tutto Anna Karenina, Guerra e pace, eccetera». Io no. Non leggevo. Mi annoiavo e basta.
Nel pomeriggio invece andavo in piscina e poi appunto al cinema Olimpia che era un po’ come La Cappella Underground (storico centro triestino di ricerche e sperimentazioni cinematografiche ed audiovisive, n.d.r.) qui a Trieste o come qualche cinema d’essai, oggi conosciuto senz’altro dai cinefili ma forse non ancora esistente all’epoca.

Attorno ai quindici anni, quando ho iniziato ad essere uno spettatore appassionato, ho iniziato a vedere tutti i classici del cinema, da quello americano a quello europeo o a quello italiano. La sera, invece, andavo a giocare a pallanuoto in piscina — regista centrovasca, questo il mio ruolo (senza cinepresa, però!) —, un ambiente dove erano ben definiti i compiti: portiere difensore, regista attaccante e centrovasca.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56

Ritornando all’argomento principale, devo ammettere che quel poco di politica che ha caratterizzato la mia gioventù l’ho fatto negli ultimi anni di liceo, precisamente tra il ’70 e il ’72, quando già il movimento del ’68 si era in parte cristallizzato nei gruppi extraparlamentari. Quest’ultimi erano nati, in un primo tempo, come critica al vecchio modo di governare della sinistra tradizionale — e in particolare del Pc — ma poi avevano finito col riproporre in piccolo, creando un’inevitabile ma involontaria parodia, il suo stesso dogmatismo e il suo medesimo sistema di far politica, anche se come punto di riferimento consideravano la Cina di Mao Tse Tung e non i Paesi dell’est.

Come dicevo, la precedente situazione degli anni ’68 — ’69 si era cristallizzata e pertanto, per il ricordo che io conservo, posso sostenere che quel modo di operare, portato avanti a scuola, fosse riconducibile — e può sembrare un gioco di parole ma non lo è — a quello di un gruppo moderato della sinistra extraparlamentare… E quindi c’era una certa continuità! Parafrasando un concetto in voga oggi, aggiungo che quello era un modo autoreferenziale di fare politica mentre nell’ultimo anno e mezzo, con i movimenti e in particolare con le manifestazioni e i gruppi dei girotondi, c’è stato un approccio politico molto più concreto.
Non a caso i girotondi nelle varie città sono stati creati dalle donne che hanno seguito un orientamento tangibile e per niente rivolto a se stesso, anzi siamo così riusciti a parlare a tutti: successivamente qualcuno ci ha voluto seguire e altri no.

Invece a scuola si faceva politica ma non si era realmente interessati a parlare agli studenti cui importava di politica o ai cosidetti “qualunquisti”, né tanto meno agli studenti di destra o a quei pochi che erano allora iscritti alla Federazione Giovanile Comunista: tutta l’energia — e fa parte del patrimonio genetico della sinistra la volontà del lacerarsi, del dividersi, del litigare, almeno fino a oggi… no, diciamo fino al 2001 — era rivolta ad una discussione niente affatto concreta, anzi molto ideologica che spesso si esauriva nel litigare con il gruppo vicino che a noi sembrava allora lontanissimo.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56

A Roma c’erano due schieramenti: sembra una questione sportiva eppure era così. Oggi magari può far ridere, comunque ciascun schieramento era composto da quattro gruppi e Il Manifesto era in mezzo, giustamente primus inter pares. Il Manifesto era un quotidiano che mi piaceva molto leggere all’inizio degli anni settanta e infatti recentemente mi ha molto colpito e addolorato la morte di Luigi Pintor che rappresentava un altro modo di fare giornalismo e un altro modo di fare politica e, in definitiva, anche un altro modo di stare al mondo.

Ritornando a questi due schieramenti, noi eravamo costituiti nei seguenti quattro gruppi: Unità Operaia, che era il mio gruppo e pubblicava un rivista oggettivamente molto bella per quei tempi, Soviet, Avanguardia Operaia e Quarta Internazionale che era il gruppo trotzkista, mentre noi eravamo invece “trotzkisti libertari non democratici”.
Poi, dall’altra parte, c’era il secondo schieramento e perfino le rispettive manifestazioni erano tenute sempre separate: al sabato pomeriggio il percorso classico era da piazza Esedra a piazza Santi Apostoli e non ci voleva niente per portare 5.000 persone in piazza. Solo la volta in cui tentammo di organizzare una manifestazione di solidarietà con dei marxisti dissidenti in Polonia — che erano stati incarcerati — si arrivò immediatamente da 5.000 a 200 persone, perché l’opposizione dei paesi dell’est era argomento tabù o indifferente perfino negli schieramenti della sinistra extraparlamentare.

L’altra coalizione era composta invece da Potere operaio, Lotta continua, Nuclei comunisti rivoluzionari e da un gruppo che si chiamava Comitato Comunisti Romani e che veniva pertanto da noi definito “cocorò”, ma non solo, siccome era un gruppo marxista comunista, allora diventava Comitato Comunista Romano Marxista, ovvero “cocorò marlene”; ciò, beninteso, non veniva detto in maniera dispregiativa ma era normale, tanto che si diceva: “Alla manifestazione di domani il comitato cocò marlene non verrà”, eccetera. Del resto, questa era la nostra concezione della realtà e del senso del ridicolo.

Naturalmente questi due fronti si odiavano: noi ci autodefinivamo il fronte leninista, invece loro ci definivano il fronte revisionista, noi definivamo loro il fronte avventurista, mentre loro si autodefinivano il fronte rivoluzionario.

Io, non riuscendo nella nostra scuola a comunicare con gli altri studenti, facevo, in maniera un po’ blanda, della politica e mi ricordo benissimo il giorno in cui il mio preside, che era una brava persona, mi convocò nel suo studio e mi disse: «Moretti esci da questo guscio aggroppato in cui stai consumando la tua giovinezza».

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Mi ricordo anche del giorno in cui mi diedero in mano un megafono per la prima volta: stavamo giù, nel cortile della scuola, ed era il periodo dei film di Totò e, sebbene oggi circoli la favola secondo la quale noi per decenni ci impedivamo di veder i film di Totò — e non è affatto vero (era sì morto da pochi anni ma era da parecchio che vedevo i suoi film) —, mi ricordo appunto che quel giorno, usando il linguaggio del principe de Curtis che avevo visto e sentito nelle sue pellicole, dissi rivolto al preside e agli altri studenti: «Appropinquiamoci all’uscita!». E un ragazzo più grande mi disse: «Ah, ecco una grande opera di demistificazione del linguaggio del preside». In realtà, due giorni prima avevo visto all’Olimpia Totò Tarzan e io, in quell’occasione, volevo semplicemente riproporne il modo di parlare.

Invece, a proposito di riviste, ci tengo a dire che la nostra era diretta da Paolo Flores d’Arcais, che faceva parte del gruppo: era bella perché ai nostri tempi non si dava molta attenzione alla confezione e alla fattura di un giornale, piuttosto al contenuto. Devo aggiungere — e mi costa un po’ dirlo — che era più bella la rivista Giovane critica, diretta da Giampiero Mughini che ora molti possono vedere su Controcampo.

Ma tornando a Il Manifesto, ricordo che le critiche o le discussioni più laceranti e più forti non erano, in quel quotidiano, tanto sul campo politico o sindacale, ma avvenivano per lo più sul piano culturale e ideologico: ricordo, ad esempio, la discussione a proposito de La storia, il romanzo di Elsa Morante. Eh, si sente che sono passati trent’anni…

Riprendendo l’iniziale discorso sul modo di far politica dei gruppi che erano nati per criticare la sinistra tradizionale, devo ribadire che quello era un modo vecchio di farla, mentre io — che gli anni settanta li ho vissuti tutti — avevo l’impressione che un movimento veramente nuovo e innovativo fosse il femminismo. Ecco, non è vero, come si dice oggi, che il sessantotto pose all’attenzione nuove questioni e che tra queste ci fosse quella sulla posizione tra i sessi. No, assolutamente non fu così. Il ‘68 questa questione non se la pose proprio e, anzi, mi sembra che il maschilismo continuasse a dominare anche il quel momento, mentre il femminismo contemporaneamente cominciava davvero a porre problematiche inedite.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56Anche per questo faticò moltissimo ad affermarsi nella società e nella stessa sinistra, sia quella vecchia che quella nuova, e pure tra le donne di questo schieramento: nella parte tradizionale, perché erano legate ad uno schema di emancipazione e ad un modo di far politica tutto maschile e quindi avevano introiettato, cercato di far loro, quelli che nell’ideologia e nella vita erano i valori maschili, ma anche nella sinistra extraparlamentare, dove il femminismo faticò ugualmente a consolidarsi. In questa circostanza Il Manifesto fu il quotidiano più aperto.
Ricordo che le donne operaie di Lotta continua detestavano le femministe, perché con quel movimento e con le loro parole d’ordine si dimenticavano, a parer loro, della contraddizione fondamentale, principale — cioè quella tra capitale e classe operaia, tra padrone e operaie — e invece si ponevano questioni banalmente borghesi come quelle dei rapporti tra i sessi. È questa un po’ la conferma che la sinistra extraparlamentare non capì nulla del femminismo.
Mi ricordo anche di un terribile slogan che veniva portato avanti in alcune manifestazioni extraparlamentari: Abortire non è un reato, è un diritto del proletariato.
E invece non è affatto un diritto del proletariato ma una scelta, comunque e sempre, dolorosa delle donne: non c’entravano minimamente i diritti della classe operaia.

Sempre a proposito del femminismo, della metà degli anni settanta e dell’autocoscienza, devo rivelare che per un caso e per la prima ed unica volta nella mia vita mi ritrovai all’avanguardia senza saperlo, perché nel ’74 partecipai, insieme ad altri tre amici, ad un gruppo di autocoscienza maschile. Di questi gruppi, in Italia, ce n’erano pochi (al femminile) ma di maschili ce n’era quasi nessuno.
Scusate ma devo bere un bicchier d’acqua perché il ricordo mi è doloroso. E mi è doloroso perché io presi sul serio la cosa cioè parlai realmente dei fatti miei, anche intimi, mentre i miei amici dicevano banalità del tipo: «Sì, mi ricordo quel giorno che stavo alla fabbrica, sulla Tiburtina, alle sei e mezzo… E poi quando mi fecero entrare… Era bello il momento del cappuccino, alle 8 e mezzo…».

Nanni Moretti su Fucine Mute 56

Io invece discutevo dell’adolescenza maschile, proprio sulla falsariga dei gruppi femminili, e di altre cose personali di cui mi pento ancora oggi e di cui, in realtà, mi ero pentito già l’anno seguente, visto che gli amici con cui avevo condiviso l’esperienza non erano più tali.
Infatti si rimase un gruppo per parte dell’estate, diciamo complessivamente da marzo a giugno; a giugno finimmo e il gruppo si sciolse dopo che un partecipante aveva buttato il quaderno in faccia ad uno di noi gridandogli: «Maledetto quattrocchi!», perché aveva gli occhiali.
E così a giugno era tutto cessato e lo ribadisco di nuovo: io fui l’unico cretino che parlò veramente di sé e questo mi scoccia ancora!

Vorrei a tal proposito ricordare il personaggio di Alberto, qualche anno dopo, in Ecce bombo, che è un po’ lo scheletro, la parodia, di quest’esperienza.

Ecce bombo fu per me davvero una sorpresa, perché affrontava un tema con dei personaggi veramente molto circoscritti, mentre io non volevo fare un film su quella generazione dal momento che, pochi mesi prima, c’era stato il Movimento del Settantasette che nacque dalla disperazione, si alimentò nella disperazione e finì nella disperazione; in quel periodo alcuni giovani scelsero strade violentissime ed Ecce Bombo uscì proprio nella primavera del ’78, durante il primo sequestro Moro, ed è questo il motivo per il quale la pellicola non voleva assolutamente essere rappresentativa.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56Era un film molto parziale perché non solo era sui giovani, ma era su dei giovani in particolare, quelli piccolo-medio borghesi, e piccolo-medio borghesi di una città, cioè della città di Roma, e anzi venivo accusato di fare dei personaggi di un preciso quartiere di Roma, Roma nord, e ancora, di una zona precisa di Roma nord, ovvero Prati delle vittorie, e anzi di una piazza precisa, piazza Mazzini.
Così, quando cercai di cambiare tipologia di film, mi dovetti trasferire a Monteverde, visto che là dovevano evidentemente esserci altre atmosfere e quindi altri personaggi!
Al di là del fatto di Roma nord, nel film veniva realmente considerata una porzione di giovani molto limitata, poiché erano appunto personaggi piccolo-medio borghesi, cittadini, romani, di sinistra, anzi di estrema sinistra, e per lo più stanchi di far politica in schieramenti che partecipavano a gruppi di autocoscienza maschile! E io pensavo, scrivendo e girando il film: «Be’, non interesserà a nessuno».

Mi ricordo ancora la proiezione privata di Ecce Bombo: c’eravamo io, il montatore e il produttore Mario Gallo.

Davvero ritenevo che il film sarebbe andato male, proprio perché avevo fatto un film drammatico per pochi, così, alla fine di questa proiezione privata, il produttore mi disse: «Io voglio bene a questo film come si vuole bene a quei figli riusciti male, a quei figli sfortunati, a quei figli un po’ infelici… E proprio per questo gli voglio ancora più bene!». E io gli davo naturalmente ragione.
La pellicola aveva anche un’uscita bloccata e mi rammento che esordì al cinema Etoile a Roma (che ora non c’è più) e che aveva solo quindici giorni a disposizione perché poi, dopo quel lasso di tempo, ci sarebbe stato il film di Pasqua, Le braghe del padrone, con Montesano, e quindi si doveva cambiare cinema.

E niente, pensavo di aver fatto un film drammatico per pochi e scoprii invece di aver fatto un film comico per tutti, perché poi il lungometraggio cominciò ad andare bene non solo a Roma, come sembrava in un primo momento, e non solo nelle città, ma un po’ dappertutto. C’era un’assolutamente imprevista rincorsa all’identificazione da parte di spettatori che erano lontani per età o per cultura o per ceto sociale e anche per idee politiche, dai personaggi e dallo spirito che animava il film.

A proposito di questa sorprendente rincorsa all’identificazione vorrei raccontarvi, per chiarirvi l’idea, cosa accadeva tra i miei amici.

Una volta andati a vedere Ecce bombo il primo giorno, e avermi detto che il film era effettivamente piaciuto, li sentivo, dopo una settimana, un po’ più freddi al telefono. E allora io chiedevo: «Ah, perché hai visto il film? ». Mi si rispondeva: «Mah, sai ci sto ripensando…». «E come mai?» dicevo allora io. «Mah, ieri sera sono andati a vederlo i miei genitori ed è piaciuto anche a loro… E questa cosa non è che mi convinca tanto!».
Quindi l’altra cosa che non avevamo previsto era infatti questa “trasversalità” del pubblico che si sentiva vicino al film.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56

Facendo il paragone con un film che era stato fatto un anno e mezzo prima — e cioè Io sono un antartico, che fu un grande successo ma solo nei circuiti per appassionati di cinema — devo dire che quest’ultimo ed Ecce Bombo sono simili per spirito, per argomento, per personaggi e per autoironia.

C’era all’epoca una generazione che i giornali e la televisione, magari giustamente, descrivevano come monolitica, grigia, incapace di ridere di se stessa, mentre io, con questi due film, facevo capire che eravamo capaci anche di prenderci in giro e infatti, sempre a proposito del tema di oggi, se la politica è entrata nei miei film, c’è entrata solo come realtà critica, affettuosa e spesso persino cattiva nei confronti della sinistra che io ho preferito, nelle mie pellicole, prendere in giro anche duramente e forse con affetto, piuttosto che limitarmi a criticare in maniera diretta e manichea quelli che uno può considerare i propri avversari.

Ritornando invece al sequestro Moro, vi dirò che, personalmente, ero per la trattativa: ho ricordato già tante volte che ero lettore de Il Manifesto, rivista che aderiva a quella posizione, e mi pare di ricordare che solo un altro giornale di Genova, che si chiamava Il lavoro — ed era di Zincone —, fosse per la trattativa. Non scordo come ci colpì tutti e profondamente il discorso di Paolo VI, che si rivolse direttamente ai terroristi chiamandoli “uomini delle Brigate Rosse” e tutti sappiamo come andò a finire.

Ho alquanto riflettuto, come altri credo, quando un paio di anni dopo apparvero sui giornali, in seguito al sequestro Moro e alla sua uccisione, le prime dichiarazioni dei pentiti e le primecollaborazioni e io, tonto come altri tonti, immaginavo i brigatisti come dei marziani costruiti dai servizi segreti e invece poi lessi, assieme agli altri, di storie che venivano, non so, dal cattolicesimo di sinistra o dalla sinistra tradizionale e, nel caso dei più giovani, da Autonomia Operaia o da Potere Operaio. E, devo dire, quello sì che fu un bel colpo! Il muro di Berlino no, per me non lo fu altrettanto, anzi, personalmente dissi: «Ah, meno male, finalmente». Nessun panico.

Vorrei sfiorare con voi, per un attimo, la morte di Berlinguer, che fu un’altra cosa che mi colpì notevolmente. Io non sono mai stato iscritto al Pc. Mi limitai a votarlo, pur spesso trovandomi in disaccordo con la sua linea politica. Eppure quell’avvenimento mi toccò profondamente perché, senza seguire schematismi o nostalgie un po’ facili, s’intuiva ch’era finita un’epoca e ne cominciava un’altra.
A proposito della famosa diversità, Berlinguer, che in quegli anni batteva duramente sulla questione morale, veniva molto accusato (anche dalla sinistra) di moralismo: non capivano a cosa alludesse e solo in seguito, dopo qualche anno, si è compreso.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56Tre miei film toccano, in quest’ambito, la politica e cioè: Palombella rossa, La Cosa e Il portaborse. Con Palombella rossa volevo parlare dell’89, della crisi della sinistra (in particolar modo del Pc) e del difficile rapporto con la memoria che abbiamo noi della sinistra e in genere noi italiani. Ho preferito raccontarlo attraverso una metafora, quella della partita di pallanuoto che non finisce mai. Magari altri avrebbero preferito che io facessi un film realistico su, che so, la crisi di un giovane dirigente comunista, ma a me non interessava: io volevo percorrere strade narrative più libere.
Magari altri avrebbero preferito un film realistico, del tipo: io, un giovane dirigente comunista, che mi alzo la mattina già col mal di testa — gli occhiali dove sono? —, che comincio a litigare con mia moglie (perché in questi casi le crisi politiche sono sempre i fantasmi di crisi affettive e le crisi ideologiche sono sempre i fantasmi di crisi esistenziali); io che prendo la macchina, una wolkswagen maggiolino (una macchina “molto da crisi esistenziale” e anche abbastanza cinematografica), e me ne vado al mare d’inverno (molto poetico con le onde che si vedono lambire la spiaggia); e poi io che mi reco al Pc, in un piccola sezione fuori Roma, in un minuscolo paese, a parlare con questi compagni anziani tanto generosi ma tanto ottusi, che proprio non li capisco più; e infine, io che torno a Roma col maggiolino e mi fermo a mangiare in una trattoria un po’ fuori porta, dove ci sono dei ragazzi o meglio dei punk — perché quella era l’epoca dei punk — che non comprendo e per i quali i miei parametri non servono più.
E chissà come mai? Io prima i giovani li capivo… Proprio non li capisco questi punk! Questi jukebox con la musica troppo alta…
E ancora io che telefono, col telefono a gettoni (perché quella volta non c’erano i cellulari), a mia moglie e le dico: «Cara, ma noi due stiamo assieme solo per abitudine, io non so più niente di te!».

Però scusate, non è poi così male! (prende appunti sulla storia che ha appena descritto, n.d.r.).

Non si sa mai, eh? Siccome non ho ancora capito che film voglio fare dopo La stanza del figlio… Sì, è vero che c’ho la scusa che da un anno e mezzo mi occupo anche d’altro…

Comunque, riprendendo un po’ il discorso del film non realistico, voglio aggiungere che questa pellicola, Palombella rossa,uscì due mesi prima del crollo del muro di Berlino. Personalmente, come ho già accennato, questa circostanza non mi diede nessuna angoscia o panico, anzi. Io non ho mai capito perché tante persone siano state a lungo filosovietiche o abbiano guardato a quei paesi.
Occhetto, all’epoca segretario del Pc, fece la proposta di cambiare natura, volto e identità al partito e questo colpì molto il popolo; così, in gran parte con la macchina da presa, girai per le sezioni del Pc il documentario che si chiama La Cosa.
Pensavo di dar fastidio: è vero che si trattava di una minuscola troupe, ma era pur sempre la presenza di una macchina da presa 16mm, di un operatore di macchina, di un assistente operatore, di un fonico e ovviamente di me stesso.

E nonostante io credessi di dar disturbo, dovetti invece constatare che era un periodo talmente appassionato e appassionante, a cui guardavano con interesse non solo i militanti del partito o gli elettori e le elettrici ma tutta la società italiana — creando così una specie di autocoscienza collettiva — che la mia cinepresa, assieme alla mia piccola troupe, non dava alcuna noia.

E questo perché in quelle riunioni, in cui si discuteva per il sì o per il no, ovvero delle posizioni di quelli che erano d’accordo col segretario del partito e di quelli che non lo erano, c’era panico ma anche speranza, c’erano alcune persone addolorate ma altre erano felici, c’era preoccupazione e c’era angoscia e addirittura la stessa persona poteva essere la fonte alterna di tutti questi sentimenti contrastanti: sentivano che di lì a poco, siccome avevano dato molto alla politica, sarebbero diventati delle persone diverse, perché quel partito lì, a cui avevano dedicato gran parte della loro vita, non ci sarebbe più stato.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56Infine, eccoci al terzo film di quest’excursus prima degli anni ’90: Il portaborse, una pellicola di Daniele Lucchetti che io ho prodotto. Una delle poche cose che dissi al mio socio Barbagallo della Sacher film, la casa di produzione che ho fondato nell’86, fu: «Guarda, se dobbiamo coprodurre e vendere un film alla televisione, io lo vorrei fare solo con le reti Rai». Infatti, già in quel periodo, per fare un film c’era bisogno anche dell’apporto finanziario di una televisione. Era l’86 e non faceva ancora politica!
Devo premettere che trovo veramente molto prepotente e boriosa la frase, sentita almeno qualche migliaio di volte negli ultimi 15 anni, per la quale la coerenza è la virtù degli imbecilli: veramente mi ha rotto le scatole! Eppure lo dicono tutti. Come se l’incoerenza fosse la qualità degli intelligenti. Io capisco che è difficile essere coerenti, però nemmeno provarci mi sembra sprecato: e allora che si campa a fare?
Questa cosa della coerenza me l’ha insegnata mio padre che era liberale, ovvero simpatizzava per il partito liberale (quello di qualche decennio fa), e non la sinistra.

Mi ha insegnato questo ed altro, come l’essere responsabili di ciò che si fa o il non dar sempre la colpa al prossimo, allo stato, all’arbitro che è stato troppo rigido e ha diretto male la partita, ai pali, alla sfortuna, eccetera; da lui ho cercato di imparare queste cose e conseguentemente chiedemmo solo a quella rete televisiva l’appoggio economico.

Domandammo allora a Rai uno di coprodurre Il portaborse e un suo dirigente, dopo aver tentato molto “carinamente” delle critiche alla sceneggiatura, alla fine confessò: «Guarda, scusa, noi non vogliamo coprodurre film che possano creare problemi istituzionali». E ricordo, per chi non l’ha visto, che è un film su un modo di far politica che allora era vincente e in cui io interpreto un ministro corrotto e corruttore.
Così riproponemmo la questione a Rai tre che invece andò sull’ “estetico”, tant’è che un altro dirigente ci fece una lezioncina sulla nostra sceneggiatura, dimostrandoci che era brutta e che il personaggio del professore Luciano Sandulli, interpretato da Silvio Orlando, era sbagliato.

Mi ricordo che alla fine io e Barbagallo ci ritrovammo in ufficio, in silenzio. Qualunque altro produttore non avrebbe più fatto il film, non per paura, ma perché l’apporto televisivo — e quindi un buon trenta per cento del finanziamento — era importante. Poi arrivammo in studio. C’era Lucchetti che ci aspettava assieme agli sceneggiatori Sandro Petraglia e Stefano Rulli, e io dissi: «Vabbè, la Rai ci ha detto di no. Il film si fa lo stesso. Per cortesia, ora mettiamo una battuta contro la Rai». E così inserimmo nel film la battuta che ora vi vado a raccontare.

Lucchetti autoironicamente interpreta il regista pubblicitario di uno spot, o meglio di un promo, per la campagna elettorale del ministro Botero, rappresentato da me; fa un filmino di due o tre minuti, orrendo, controproducente, stilisticamente spaventoso e io vado in proiezione e vedo il prodotto finale di questo regista pubblicitario che mi era pure stato raccomandato.
Segue uno stacco in cui io, coi collaboratori — ma senza il regista che era stato nel frattempo allontanato-, sono nel mio salotto e distruggo tutto quello che c’è nella stanza; piglio per il collo uno dei miei assistenti e dico: «Ma con tutti gli imbecilli della destra che ho fatto assumere alla Rai, ma non me ne potevi prendere qualcuno più capace?».

Il film andò in concorso a Cannes l’anno in cui c’era, come presidente di giuria, Polanski che diede tutti i premi a Burton Fink, dei fratelli Coen; quelli del concorso dovettero l’anno successivo cambiare il regolamento, perché lui e i suoi sottomessi giurati assegnarono al film la Palma d’oro, il Premio per la miglior regia — che poi è un doppione — e il Premio per il miglior attore, mi sembra a Turturro. Il portaborse concorreva e naturalmente la burocrazia cinematografica, televisiva e politica italiana non venne alla proiezione di gara del concorso: si erano dati, un po’ ovunque, la voce di non venire. Poi c’era il pubblico francese, che non era un pubblico di appassionati poiché i critici e i giornalisti vedevano il film a parte, e noi pensavamo: «Chissà,accento, volti e film italiani…».
Invece, su questa battuta de “Con tutti gli imbecilli…”, ci fu un applauso a scena apertadell’intero pubblico cannense.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56

Un mese prima, a Roma, mentre uscivamo tutti assieme dalla prima proiezione del film al cinema Tivoli, accadde che un mio amico, attraversando la strada e venendo verso di me, mi disse solamente questo: «Ahhh! Come respiro!», senza pronunciare nient’altro, come a dire ch’era un film di cui si sentiva il bisogno. Era una pellicola su cose che si sapevano ma non si sapevano, si dicevano ma non si dicevano e poi, non ultimo, erano passati tanti anni da quello che fu glorioso con risultati alterni: il cinema politico italiano di Rosi, di Petri e anche di altri registi.
Era un film di cui si sentiva la necessità, ma noi non lo sapevamo: io, poi, non avevo neanche mai fatto cinema politico diretto, ho voluto fare un’eccezione volentieri in quel caso, perché era un modo di far politica che desideravamo raccontare ed era un modo di far politica che ci auguravamo scomparisse. Ed è scomparso… Per pochi mesi. O meglio, dopo pochi mesi è ritornato sotto altre sigle.

Ricordo che Il portaborse doveva uscire nell’aprile ’91: in un’intervista sul governo di Repubblica, il vicesegretario dell’allora partito socialista parlava di qualunquismo e del film; dieci mesi dopo, nel febbraio ’92, a Milano ci fu il primo arresto di Chiesa, lo scandalo delle tangenti e da lì le tante cose che già sappiamo.

Ora possiamo quindi passare alla proiezione di questo film di ventisette minuti, contenente venti scene che sono state tagliate.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56Vedrete Berlusconi, non quello di oggi, ma quello del ’94: non pensavo che peggiorasse e invece quello di oggi è ancora peggio. Quando dice che ha vinto le elezioni, sono quelle del ’94 e in generale a essere ripercorso è un po’ tutto il periodo che va dal ’94 al ’96: nel ’94 si ha la prima vittoria di Berlusconi e nel ’96 la prima, anzi l’unica nei secoli dei secoli, vittoria della sinistra.
C’è nel filmato anche parte di mio padre che è realmente mio padre e, a onor del vero, devo dire che prima lo obbligavo sempre a recitare nei miei lungometraggi. Egli era professore di epigrafia greca ed è morto nel ’91, di malattia e non per i miei film, e da allora lo sostituisco nella recitazione con mia madre.
Gli ho fatto fare di tutto: il sindacalista in Palombella rossa, il magistrato ne La messa è finita, lo psicologo dei professori della scuola Marilyn Monroe in Bianca, il produttore di me regista, in Sogni d’oro, lo spettatore di teatro underground in Io sono un autarchico, il poeta e l’attore disoccupato che dice la frase: «Il dottore è pazzo» in Ecce bombo. Era molto bravo, molto più bravo di me e aveva molto talento. Ogni volta che usciva un mio film, all’università e in consiglio di facoltà lo prendevano in giro, ma in realtà, secondo lui, i colleghi erano invidiosi perché loro volevano stare la suo posto.

Nel filmato suddetto mia madre è veramente mia madre e poi c’è anche Carlo Mazzacurati, un mio amico regista che si presta a fare l’attore e che ad un certo punto fa il grido d’angoscia dell’uccello predatore: straordinario, com’era straordinario in Caro diario, quando io lo svegliavo — ed era un critico cinematografico che rimproveravo per le critiche che aveva scritto — leggendogli i suoi articoli al bordo del letto.
Degno di nota era anche il finale (vero) che avevo girato con Silvio Orlando, quando mi sono un po’ eccitato, siccome a me piace, anzi piacerebbe, ballare: in quei tre giorni in cui giravo il musical (che sono i sessanta secondi di film che più mi sono costati in tutta la mia carriera cinematografica) ho fatto quell’inquadratura che non ho montato nel film ma ho montato qui, ribaltando il campo. L’ultima scena di Aprile riprende proprio la troupe che balla accanto alla macchina da presa e io ho la mantella blu scuro.
E poi, sempre a proposito del filmato di cui vi parlavo, ci siamo io e mio figlio piccolo di un mese, già iscritto all’Enpals (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per i Lavoratori dello Spettacolo e dello Sport Professionistico)!

Inoltre, siccome sono quasi convinto che nessuno si ricorda di quei ministri che erano al governo Prodi, ad esempio, il ministro ai lavori pubblici era Antonio Di Pietro, il ministro degli esteri mi pare fosse Dini, il ministro della giustizia Flick, è possibile il ministro del tesoro Ciampi? Sì. Insomma, faccio riferimento ad un paio di loro.
Ultime due cose: ad un certo punto si vede la famosa Casa del popolo e io sono costretto a votare Polo; a Firenze erano costretti a votare Cecchi Gori e Dini, e insomma loro, un elettorato comunista, votavano lì tutti felici e, siccome erano i candidati dell’Ulivo, erano tutti così convinti.

E poi c’è quel brillante sondaggista, Nicola Piepoli, forse non vi sovviene, ma quando vedrete la sua faccia senz’altro lo ricorderete; fa tutt’un esame degli spostamenti vincenti della sinistra alleata al centro, stavo per sbagliarmi e dire allevata al centro, be’ insomma non è poi uno sbaglio; molti mi dissero: «Eh, bravo a recitare quel testo scritto da te». Ma non era affatto un testo scritto da me: io lo stavo intervistando e lui semplicemente mi riferiva cosa pensava sul capogruppo di Forza Italia e Stefania Ariosto.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56Ma vediamo pure questi 27 minuti di Tagli di aprile.

(segue la visione degli spezzoni presso la sala del Cinema / Teatro “Miela” di Trieste, n.d.r.)

Ci sono delle scene che sono costate fatica, soldi o litigate con i collaboratori e invece delle scene che sono subito riuscite bene, però magari non c’entravano col film e allora ho cercato, come sempre, di essere meno autoindulgente possibile — almeno dal secondo montaggio in poi, infatti al primo si monta quasi tutto — e rappresentare il film nella sua forma definitiva.

Molti mi hanno chiesto di Pietro, mio figlio, che appunto dormiva. Be’ in quelle scene io faccio l’elenco dei ministri e spiego perché abbiamo vinto e, non so, se abbiamo fatto dieci ciack, allora capitava che, nei primi cinque era sveglio e nei secondi cinque dormiva: si trattava solo di scegliere, di volta in volta, la variante da sveglio o da dormiente.

Siamo dunque arrivati agli anni più recenti quando, tra la fine del ‘93 e l’inzio del ’94, si assiste per la prima volta a questo fenomeno e cioè allo sviluppo di un partito dove nascono la lotta di classe, i movimenti sociali, i movimenti d’opinione o le battaglie ideali, un partito che per la stessa ammissione del suo fondatore e dei suoi amici, nasce per gli interessi personali di un’unica persona. Siamo quindi alla fine del ’93 e agli inizi del ’94: Silvio Berlusconi parla dei suoi debiti (ricordo che alla fine del ’93 aveva 5.000 miliardi di lire di debiti) e di quella che cominciò a chiamare “persecuzione giudiziaria” nei suoi confronti.
Ecco, i debiti non ce li ha più e per quanto concerne i processi — lo abbiamo visto pure ieri, con quel che è successo al senato — capiamo ora come cerca di evitarli.

Mi dispiace di non aver filmato, a proposito di cinema e politica, un documentario sulla nascita dal niente del partito di Forza Italia, con i quadri di Publitalia, la società che raccoglie la pubblicità per Berlusconi.

Quando si parla di leggi antitrust e di conflitti di interessi, ci dimentichiamo che, oltre a varie industrie, giornali e televisioni, c’è anche Publitalia al servizio di Berlusconi, che è un’incredibile arma nei confronti dei mezzi di informazione; ecco, mi dispiace davvero di non aver ripreso la nascita dal nulla di Forza Italia, con tali quadri che vengono appunto smistati da Publitalia a questo nuovo partito, perché magari sarebbe stato importante filmare quel momento.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56Devo ammettere che mi interessa di più filmare come nascono queste cose lontane da me che non fare documentari autocelebrativi; ad esempio, che so, quest’anno tantissime volte i giornalisti alle manifestazioni mi dicevano: «Ah, allora fai un film sui girotondi?». Ma perché poi? Io li stavo facendo i girotondi, perché mai li dovevo anche filmare? A me non interessava fare un documentario celebrativo.

Mentre invece, lo ribadisco, mi sarebbe interessato riprendere la nascita di questo strano partito.

Volendo essere e sapendo di essere un po’ schematico, mi sembra che dal ’94, ovvero dall’entrata in politica di Berlusconi, i due elettorati, centrodestra e centrosinistra, abbiano cominciato a non comunicare più; fino ad allora, a voler sempre esser un po’ schematici, l’elettorato democristiano e quello comunista comunicavano e riuscivano a parlare perché c’era un linguaggio che apparteneva a tutti; c’era un linguaggio comune anche perché sapevano di avere alle spalle la costruzione congiunta e la nascita della nostra democrazia nonché il linguaggio della politica; negli altri paesi europei oggi ci sono dei valori che sono patrimonio comune dei conservatori e dei progressisti, invece questo sembra essersi rotto in Italia dal ’94 ai giorni nostri.

La svolta (dei girotondi, n.d.r.) avviene per caso, ma in fondo non per caso: come tanti di voi, mi sentivo un po’ imbarazzato, a disagio, ed ero preoccupato per la situazione.

C’era stato il 2001 con la seconda vittoria di Berlusconi, una vittoria schiacciante, e ricordiamoci che, non tanto la vittoria quanto le dimensioni di quella vittoria, gliel’ abbiamo regalata noi, non noi come elettori, ma i partiti che votiamo: le dimensioni potevano essere evitate. Questo avveniva appunto nel maggio 2001 e il 2 febbraio 2002, un anno e mezzo fa, mi trovai invece a piazza Navona, con altre persone, non tante, diciamo qualche migliaio, e c’era una manifestazione sulla giustizia, organizzata dal comitato La legge è uguale per tutti, a cui presenziavano i parlamentari di tutto l’Ulivo. C’erano tutti i rappresentanti della società civile, ovvero parlavano politici non di professione: una scrittrice, un cronista, un professore o anche un magistrato.

Si scaldarono gli animi perché, essendo intervenute persone non politiche, ci furono molte critiche nei confronti del governo di centrodestra e delle sue leggi sulla giustizia (ricordiamo la legge sulle rogatorie e la legge Cirami che stava arrivando dopo qualche mese di discussioni; in questi giorni abbiamo invece lo strappo costituzionale in Senato).
Furono critici col centrodestra ma anche liberamente critici con quelli che consideravano gli errori recenti del centrosinistra e questa dimensione, anche autocritica, appassionò le persone che erano, come me, in piazza.

In seguito la manifestazione si concluse con due interventi, questa volta di politici di professione, che sembravano, a noi che eravamo in piazza, non aver colto la verità, cioè quella voglia sì di criticare il centrodestra eccetera, ma anche di mettere in discussione alcuni errori della sinistra, cose queste, che erano nell’aria già da tempo tra i manifestanti presenti. Gli interventi dei politici professionisti non colsero questa novità, questa voglia di ripartire; ricordo che erano tutti un po’ storditi mentre l’elettorato lo era meno.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56Io non avevo alcun mito alla base, però mi ricordo, come in un flash, che negli anni’60 c’era tra i gruppi extraparlamentari il mito della base del Pc: la base rivoluzionaria contrapposta ai vertici revisionisti, che spesso si è rivelata più gretta dei suoi dirigenti, ad esempio durante l’invasione sovietica in Afghanistan o all’inizio di Solidarnosc.
Devo ammettere che noi elettori ed elettrici (gli stessi che hanno in seguito animato i movimenti autoconvocati dell’ultimo anno e mezzo, e i girotondi) reagimmo un po’ prima ed eravamo sicuramente un po’ meno storditi dei vertici del centrosinistra, del resto lo sapete come sono andate le cose un anno e mezzo fa.

Riprendendo la narrazione dell’episodio di piazza Navona, devo riportare il fatto che, durante gli interventi “classici” dei politici di professione, quei quindici metri dal palco che ho compiuto, li ho percorsi in 20 minuti; ad un certo punto ho scavalcato l’amica con cui stavo assistendo al comizio, ho fatto due metri verso il palco e, dopo altri due o tre minuti, ho fatto tre o quattro ulteriori passi in avanti; è cominciato il secondo intervento del politico di professione e ho fatto altri due o tre metri. Ero molto teso, non sapevo che cosa avrei fatto: e poi (e questo è molto significativo) credono che sia stato io a decidere di salire sul palco!

Alla fine, pian piano e facendo due passi ogni tre o quattro minuti, sono arrivato sotto il palco ma erano ormai finiti gli interventi: Fernando Dalla Chiesa stava salutando i manifestanti e qualcuno cominciava ad avviarsi verso il bar intorno a piazza Navona;allora delle signore che mi avevano visto arrivare — non so che faccia avessi -mi hanno detto: «Anche tu qui per parlare?». E io ho fatto una faccia (mima un smorfia, ndr), ma non ho detto nulla e sono state loro, le persone intorno a me, mentre dalla Chiesa stava salutando, a dire: «C’è Moretti che vuole parlare».

Allora ho alzato la mano e tutto è cominciato, ma senza quelle persone intorno che come me si sentivano a disagio, che come me volevano ripartire e non sapevano bene in che modo, che come me erano state quella serata prima un po’ infiammate e poi un po’ deluse, che avevano i miei stessi sentimenti e io i loro, probabilmente non avrei trovato il coraggio e l’energia di salire su quel palco e dire quelle cose.
Sono state quelle persone, con cui condividevo questi sentimenti di frustrazione, di disagio, di imbarazzo ma anche di voglia di ripartire e di reagire, a dire che io dovevo parlare e così sono partito e ho detto le cose che pensavo da mesi e da anni, anche se non ritenevo di volerle dire o di doverle dire proprio quella sera.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56

Così ho fatto, per usare un eufemismo, un intervento molto critico nei confronti della dirigenza del centrosinistra.

Mentre tornavo a casa a piedi — e non sapevo che le registrazioni di queste manifestazioni erano trasmesse in diretta dalla Rai, da Radio radicale eccetera — incontravo molte persone, alcune come me andavano via dalla manifestazione e altre invece avevano sentito alla radio l’intervento, ma tutte si complimentavano: allora capii che nei minuti e nelle ore successive, già si era mosso qualcosa, non solo grazie a me, certo (già in precedenza c’erano stati il primo girotondo a Milano sulla giustizia e la manifestazione a Firenze dei professori), però, usando un’espressione che io stesso ho coniato, era “saltato un tappo”. Grazie al mio intervento e al rilievo che gli diedero la radio, la televisione e i giornali, si fece appunto scoppiare questo tappo dell’elettorato.

Nanni Moretti su Fucine Mute 56

Quindi mi resi immediatamente conto che si erano messe in moto energie positive, malgrado parecchi dirigenti della sinistra e del centrosinistra — ma non tutti, perché ad esempio Fassino, segretario dei Democratici di sinistra, fin dall’inizio mi cercò, dicendomi che aveva scritto una lettera, pubblicata due giorni dopo piazza Navona su L’Unità, a cui io risposi con un lungo articolo su La Repubblica — avessero molti timori dopo il mio urlo, il mio sfogo alla manifestazione. E cioè temevano due cose: che molti militanti e simpatizzanti abbandonassero la politica e se ne tornassero a casa — un “rompete le righe” generale, per intenderci — e che molti di coloro che invece volevano continuare a far politica abbracciassero quella che veniva chiamata, con un estremismo facile, velleitario e antipartito, la “deriva massimalista”.

Be’, successe esattamente il contrario. Accadde che ci fu una rinnovata voglia di fare politica e di partecipare alle nostre manifestazioni: non ci fu assolutamente alcuna deriva massimalista.
Ci fu invece, una volta tanto, un elettorato che diede energie e ossigeno ai vertici del centrosinistra e contemporaneamente ci furono manifestazioni molto critiche (come minimo) nei confronti del centrodestra e, sempre liberamente, critiche ai rivoluzionari della sinistra e del centrosinistra.

E così, dopo due settimane da quell’intervento a piazza Navona avvenne a Roma, di mattina, il primo girotondo attorno al Palazzo di Giustizia.

L’incontro con Nanni Moretti si è tenuto presso il teatro “Miela” di Trieste in occasione della proiezione di “Tagli d’Aprile”, spezzoni inediti non inclusi nel montaggio definitivo del film Aprile. Il testo è a cura di Tiziana Carpinelli.

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