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Scrittura

Gabriella Stanchina, “La scala a spirale”

Immagine articolo Fucine MuteDopo una lettura attenta de “Il libro della scala a spirale” (Edizioni Polistampa Firenze, 2002, pag. 56) emergono i “punti cardinali” della poesia di Gabriella Stanchina e, in parte, si disvela il come del suo fare — le motivazioni non appaiono del tutto chiare o comunicate all’inizio, sebbene il modo di procedere, partendo da elementi naturali, esplori l’inconscio e la sua intelligenza.
Lo stile ricercato e complesso, il lessico ricchissimo e antico, il ritmo costante, ipnotico, del verso, definiscono solo i contorni del mondo visionario che la poesia della Stanchina crea: è l’esecuzione della poesia che segnala gli indicatori frequenti dell’intenzionalità formante dell’autrice, come ad esempio le riprese della maglia tessuta fino ad un certo punto nella poesia che evolvono in improvvise astrazioni, leggi dell’opera e concetti, da comunicare.
In prima analisi, il luogo dove si avvera la poesia dell’autrice è l’immaginazione, dove accadono eventi di una certa rilevanza.
Tale mondo però è osservabile da una finestra opaca o per certi versi annerita.
Ci avviciniamo al vetro, contempliamo stupefatti questa realtà, ma è difficile riconoscere l’importanza di alcuni elementi e la secondarietà di altri.
Grazie alla conoscenza degli studi e dell’interesse dell’autrice per il periodo preromantico, da Holderlin a Novalis, abbiamo informazioni utili alla decifrazione delle opere.
Quindi, attraverso l’individuazione delle caratteristiche formative ridondanti, si riesce a delineare un processo che accomuna tutta questa produzione, una trama di base a molte poesie, la tela dove vengono depositati di volta in volta i colori, i ricordi, le emozioni, i pensieri — fermo restando che in ogni caso le poesie possono anche essere prese singolarmente, come singolare e difficilmente inquadrabile sotto qualsivoglia movimento o avanguardia letteraria è la formatività dell’autrice.
In primo luogo compare la filosofia.
La filosofia nel pensiero preromantico fa da substrato alla poesia e, come dice Horderlin, è l’unico vero mezzo per avvicinarsi all’infinito: “Un Dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando pensa”.
Per la Stanchina la filosofia diviene piattaforma da cui partire per voli prometeici verso la luce, ma lo spunto poetico visionario è solo in apparenza ottocentesco, perché punto di partenza per un viaggio che si tuffa nell’inconscio doloroso. Inoltre il volo è a tratti indecifrabile — penso all’uso “estremo” degli aggettivi.
L’ancora di questo processo di scrittura, che carica spesso e volentieri le immagini, si trova o all’interno di un progetto sentito precedentemente, forse attraverso linee di sviluppo già delineate, oppure attraverso procedure di riconoscimento del senso programmate di volta in volta, proposizione dopo proposizione, sezione dopo sezione.
In altre parole e oltre queste ipotesi di intenzionalità, se romantica la Stanchina è, non lo è perché sembra ripercorrere antichi sentieri abbandonati in una irreale prosecuzione dell’ideale romantico.
Facendo propri alcuni cardini del romanticismo (la presenza della natura, contemporanea all’assenza pressoché totale di elementi quotidiani, derivati dell’uomo del ventesimo secolo; la funzione magica del dolore nella genesi poetica; l’utilizzo esteso della visione e del viaggio simbolico strappati al mito greco) l’autrice grazie all’introspezione scrive nuove funzionalità per questi elementi.
Questo fare oltrepassa coraggiosamente la polvere di certe riesumazioni postmoderniste (taluni parlerebbero di un neo-preromanticismo post-postmoderno, ma non mi sento di giocare con certi termini o classificazioni).
Ciò che rende efficace, affascinante e difficile la poesia della Stanchina, è il fatto che le funzioni proposizionali, da cui possiamo astrarre, segnalano elementi e generano mondi surreali, che a loro volta si modificano.
Le proposizioni, caricandosi di simboli non facilmente decifrabili, ruotano attorno equilibri che si precisano via via, fino a divenire irriconoscibili rispetto a ciò che erano all’inizio (ulteriori spunti formativi, sequenze che gemmano da alcuni elementi, capovolgimenti di immagine; oppure ribaltamenti concettuali di proposizioni precedenti o di una serie di proposizioni, di una sequenza particolare) ed è per l’intervento nella poesia della stessa autrice in prima persona, o grazie al mantenimento delle relazioni originali preesistenti tra gli elementi, che è possibile addentrarsi in tali mondi senza farsi distrarre troppo dal lessico e dalle aggettivazioni a volte sovrabbondanti, a coglierne quindi l’intenzionalità, ad esserne guidati.
Il lettore può produrre le proprie ipotesi, riconfigurando le impostazioni delle visioni passo dopo passo.
Riguardo il processo si può sottolineare come la Stanchina, nella maggior parte delle poesie, ricerchi una sorta di programma narrativo che attraverso gli studi e le ricerche precedenti l’ispirazione sembra fare da scheletro ad un grande utilizzo delle proprie capacità tecniche, descrittive ed evocative, che qualche volta debordano dalla matrice che il pensiero aveva loro scavato per farsi ricercatezza linguistica.
Ciò a volte comporta, per il lettore, il fatto che l’emozione all’interno della poesia è più legata alla comprensione del testo a livello intellettuale piuttosto che sottoforma di trasporto emozionale diretto.
Ne risulta dunque un fare attraente, che invita il lettore a indagare nella poesia le originali intenzioni e le caratteristiche, un fare poesia senza mai sbilanciarsi in prese di posizione precise, quasi fosse il tentativo di superamento del problema filosofico legato all’esistenza dell’individuo, per poi tornare romanticamente al volo visionario, alla coscienza della veggenza del singolo, alla sua ricerca di essere una cosa sola con il mondo, in opposizione alla massa.
Immagine articolo Fucine MuteIl fatto poi che l’autrice abbia voluto dare alla raccolta lo stesso titolo della sequenza principale che vi è contenuta, non appare essere casuale o poco ponderato: la poesia “Il libro della scala a spirale” è un viaggio dell’uomo in se stesso; la spirale è contemporaneamente esterna all’autrice poiché è lo spazio dove le azioni avvengono, ma anche interna, rappresentando l’inconscio (o l’anima) del poeta che si fa viaggio.

METADIALOGO

Christian Sinicco (CS): Holderlin affermava che noi non siamo che un segno, mentre la Stanchina sembrerebbe dire: “Siamo segni che hanno forme, impariamo a sillabarci”. Tu che ne pensi?

Furio Pillan (FP): Ti riferisci all’ultima poesia della “Sequenza della neve”, opera nella quale la Stanchina sembra appunto dire qualcosa di simile — in parte emerge uno degli aspetti “romantici”della sua poesia, e cioè il concetto di poeta come veggente, come custode di un segreto o almeno cosciente dell’esistenza di un segreto da relazionare agli altri uomini, a chi poeta non è o non sa di esserlo. Attenzione: mi guardo bene dall’affermare che la Stanchina sia una romantica o addirittura preromantica o pensi queste cose; i suoi studi l’hanno sicuramente influenzata, ma ciò è molto diverso dal metterla in una categoria e farla parlare automaticamente. In maniera del tutto scherzosa e piuttosto polemica l’ho definita una neo-preromantica post-postmoderna. Praticamente non vuol dire niente.

CS: Roberto Carifi nella prefazione a “La scala a spirale” dice che la Stanchina ripercorre antichi sentieri che la postmodernità nichilista aveva abbandonato. Il fatto che un poeta muova i suoi passi da alcuni modelli è importante, ma “postmodernità nichilista” è un termine che andrebbe svolto. È probabile che sia uno dei mondi possibili che taluni, o i molti, vivono? Se trenta anni prima della Stanchina fosse nato un poeta con una scrittura simile, in che forma l’avremmo categorizzato? Piuttosto direi che il poeta sa ciò che vuole perché ha una visione, una progettualità. Inoltre possiede la sensibilità per indicare passo dopo passo i cambiamenti, i punti di vista che cambiano. Nonostante il verso non sia di facile comprensione e la raffinatezza delle immagini che utilizza contribuiscano alla complessità della sua poesia, grazie ad un’analisi approfondita trovo questa scrittura intensa.

FP: Sono stranamente d’accordo con te sulla precisione delle immagini e sul progetto. Possiamo annotare in molte delle poesie della raccolta — ad esempio”Pieghe”, ”Dirupo”, ”Il campo viola”, ”Albero”, ”Estuario” e “La sequenza della neve”- come la sua ispirazione utilizzi ripetute modalità, quali l’osservazione di scorci naturali, scorci privi di oggetti artificiali o legati alla presenza dell’uomo: da questi elementi la Stanchina parte per il suo volo visionario e filosofico, attraverso la trasfigurazione e l’evoluzione delle immagini e della lingua — a volte sviluppa, come già accennato, un uso ricercato di aggettivi, forse esagerato.

CS: L’utilizzo di un materiale, l’aggettivo, si fa principio per la formatività, per la creazione. Ma la caratteristica principale è il mondo che compone attraverso i versi, un mondo che evolve e modifica le sue convenzioni. Si può notare come le immagini, associate ad alcuni simboli, vengano rimescolate fino a ritrovarsi in scenari simili a quelli di partenza, ma completamente diversi per ciò che concerne le leggi che governano a quel punto la forma. Nella “Scala a spirale”, tra il primo e il secondo giro, notiamo questo cambio: si può osservare come sfondi diversi governino elementi simili, producendo situazioni emotive differenti, paradossali, strettamente correlate.

FP: La capacità di partire da alcuni elementi presentati all’inizio della poesia, i quali a loro volta generano altri mondi, perdendo alcune connotazioni; il successivo cambio degli elementi, le nuove relazioni, i nuovi collegamenti…

CS: Collegamenti da trovare, scoprire.

FP: Esatto, collegamenti non del precisi, non del tutto riconoscibili. L’effetto prodotto è una sensazione surreale, per via di echi che possiedono una memoria della loro posizione formale antecedente, echi già noti.

CS: Proprio così. La Stanchina in “Divertissement” afferma: “Io non posso vivere in un mondo cubista”. Difatti, se dipingesse, non sarebbe cubista: potrebbe essere piuttosto un Kandinsky che innesta gli elementi della pittura di Magritte, che hanno una funzione precisa e uno sfondo preciso, in uno spazio che evolve, una pittura surreale in evoluzione. La tela bianca rappresenta uno spazio al di là della poesia a cui le parole e le immaginazioni si rivolgono, un indefinito che trova la sua realtà dentro le nostre emozioni, mentre eseguiamo la poesia. I concetti a cui possiamo arrivare, le emozioni che sentiamo, le immagini che creiamo, variano secondo le indicazioni del testo che svolge diversi punti di vista, luoghi in cui noi ci mettiamo.

Immagine articolo Fucine Mute

FP: Un altro aspetto sorprendente richiamato da ciò che hai definito “la tela bianca” — per quanto probabilmente marginale — è la presenza in alcune poesie di concetti tipici del mondo scientifico: in particolare ne “La baia dell’angelo” c’è un verso che cita la radiazione fossile, che in cosmologia indica quella radiazione di fondo presente in ogni punto dello spazio in modo uniforme, una sorta di onda di energia che permea l’universo e che viene utilizzata come prova della sua nascita violenta, il cosiddetto Big Bang. È un po’ ciò che resta a testimonianza di come sono stati i primi attimi del cosmo: per questo è “fossile” e, nonostante questa terminologia sia nota grazie alla divulgazione scientifica, il concetto è piuttosto tecnico; come tecnico è il termine “linee di forza” nella poesia “Il campo Viola”. “Linea di forza” è un termine che si riferisce alla fisica dei campi: la definizione di linea di forza è un po’ complicata; non del tutto correttamente, è una rappresentazione grafica dell’andamento e della direzione in cui agisce una determinata forza. Faccio un esempio: quando si sparge della limatura di ferro nello spazio che divide due calamite: il campo magnetico agisce sulla limatura che si dispone su delle traiettorie, traiettorie che congiungono il polo positivo di una calamita con quello negativo dell’altra. Tali traiettorie sono indicative della linea di forza. Naturalmente la Stanchina fa un utilizzo poetico di questi concetti: è un frequente uscire dal suo mondo poetico in senso stretto per andare a cercare in altri mondi nuovi collegamenti, nuovi modi di intessere le relazioni tra gli elementi. Passando ad una altro argomento, nella raccolta sono presenti ben tre sequenze di poesie in stretto collegamento come “Requiem”, “Il libro della scala a spirale” e “La sequenza della neve”. In pratica sono delle miniraccolte all’interno del più ampio progetto editoriale. Che significato hanno secondo te?

CS: Possiamo considerare ogni sequenza come una poesia unica, un poema. Potremmo non dar peso alla suddivisione e leggerle come fossero un unico componimento perché possiamo scoprire una musica particolarissima, tenendo ben presente che in un secondo momento la nostra esecuzione dovrebbe accettare le indicazioni progettuali della Stanchina, utilissime per accompagnare la nostra riflessione, fonti di informazione che si aprono a noi. Soprattutto “La sequenza della neve”: è molto emozionante leggendola, entra semplicemente nonostante la complessità.

FP: Sono d’accordo. Penso che abbiamo parlato anche troppo. Il momento è la conclusione del nostro dialogo, ma lasciami solo fare un’ultima considerazione del tutto scherzosa: tu hai fatto prima quel paragone pittorico grazie a Kandinsky e a Magritte; più modestamente vorrei spiegarti perché oggi ti ho portato questa bottiglia di vino, Muller Thurgau del Trentino, appropriato per la poesia della Stanchina perché oltre alla provenienza comune, è un vino bianco, femminile, colore giallo intenso con riflessi verdolini; ha un profumo delicato e lievemente aromatico; il sapore è fresco, fruttato ed armonico, con un retrogusto leggermente amarotico. Molti elementi mi ricordano questo fare poesia. Che te ne pare?

CS: Ottima scelta, indipendentemente dall’annata.

Nel ripercorrere il volume della Stanchina, approfondisco ora alcuni testi che ritengo importanti per la comprensione, quali “Nell’imminenza”, “Il libro della scala a spirale” e “Sequenza della neve”. Il metadialogo non nasconde il fatto che la scrittura della Stanchina sia complessa, ma al contempo segnala i punti di forza dell’autrice. Sebbene i collegamenti di questo tessere siano da scoprire, la nitidezza dell’immagine guida la descrizione e la voce procura emozione. Il rimando è sempre ad un altro, sentito o percepito, un altro che permetta di giungere ad una verità su noi stessi grazie ad un ascolto e ad un logos.
Questo ascoltare si configura a partire da descrizioni di accadimenti, come “Nell’imminenza”: nella prima parte della poesia l’azione (emergo a fior d’essere) attraversa una scrittura densa di immagini che puntano ad evocare più che ad essere precise, e la Stanchina si pone all’interno di un luogo presunto o reale, una sorta di guscio primordiale (situazione riconoscibile anche in altri testi della stessa raccolta). In questo luogo coesistono i “fare” differenti ma contemporanei di due soggetti: le azioni in primo piano che fa compiere al soggetto della proposizione e l’azione del silenzio che rimane come sfondo. Una serie di proposizioni (affilo il mio corpo…ne estenuo la fibra…sopravvivo…attendo) preparano ad una ipotetica fuoriuscita futura di questo ente.
Ed è proprio dentro l’attesa della sua “imminenza” che l’essere gioca il paradosso con se stesso, tutto preso tra sopravvivenza e tentativo di consumarsi questo esoscheletro, questo limite di vitalità, in una ritualità di gesti preparatori.
La seconda parte della poesia invece contiene la previsione degli accadimenti che avverranno al ritorno dal viaggio successivo alla rottura del “guscio”.
Due, secondo me, le possibilità interpretative per interpretare questo ritorno: la ricomposizione della condizione precedente all’emersione, cioè un ritrovarsi di nuovo nell’imminenza; una condizione nuova determinata dall’esistenza vera e propria che come coscienza trattiene il vissuto dell’esperienza “esterna”.
In entrambi i casi le impressioni ricevute da questo rifluire sono direttamente evocate dall’immagine della contrazione del palmo di una mano o comunque mediante la descrizione di una sensitività tattile non del tutto precisa o definita (nel palmo contratto… riflussi intessuti sensibili al tocco).
In conclusione, anche se il titolo “Nell’imminenza” ci condurrebbe ad accettare l’ipotesi della prima astrazione, cioè del ritorno dall’imminenza ad uno stato di pre-emersione, in realtà entrambe le alternative sono plausibili.

Nel primo giro de “Il libro della scala a spirale” ritorna una immagine cara all’autrice, la mano (mani incavate dell’alba), ma qui la sensazione del risveglio (si desta) e il motivo dell’ascensione (ascendo) verso un alto cortile di luce preludono ad una serie di azioni concrete, quasi dantesche. L’ambientazione è una mattina luminosa.
Nel secondo giro vi è subito la presa di coscienza che la salita è salita dentro di sé, un’ascensione che avviene internamente per mezzo di una scala a spirale, in uno strano gioco per cui il soggetto diviene esso stesso questa scala. L’ambientazione di questa sequenza è notturna (falce di luna; saetta nell’ombra; promessa di plenilunio nella mia mano incisa) e nuovamente appare l’immagine della mano che in questo caso invece di aprire il giro lo chiude.
Nel terzo giro la salita dentro se stessa conduce ad uno stato di sensibilità e dunque di conoscenza della precarietà di fronte l’intera esistenza (in mezzo alla clessidra). Risalendo la scala, la sensazione di precarietà (ciò che abbandono frana) si fa più forte (non vi è se non svolta e sviamento) e tutta una serie di elementi volutamente evocati nella loro doppiezza svolgono le azioni del soggetto. L’immagine pare quella di una esistenza tra due coni dove il soggetto è il punto in comune, soggetto incapace di razionalizzare l’esperienza tra passato e futuro. Domina la sensazione del buio, dell’ombra, che crea angoscia (tende agguati).
Nel quarto giro è descritta una situazione dove tutto ciò che viene lasciato indietro e che richiama (l’eco del richiamo) viene avvolto dalla luce attorno a un fuso che ruota in una sola direzione. Questa immagine si va a relazionare allo stato di sensibilità raggiunto precedentemente nel tentativo di razionalizzazione dell’esperienza e produce innumerevoli visioni di sé (ho lastricato di specchi ogni parete/so che nessuna ripete il mio volto) che non sono sufficienti a descrivere pienamente l’esistenza. L’insufficienza di qualsiasi elemento che spieghi l’immagine attuale del soggetto e delle sue voluttà non può fornire alcun orientamento. Siamo in presenza di immagini riflesse, illuminate da una luce indiretta, rifratta.
Ma nel quinto giro ci troviamo di fronte ad uno stacco, il racconto di come è avvenuta la consapevolezza. Gli specchi sono abbandonati per gli sguardi, che possono essere infiniti, e il soggetto oltrepassa l’immagine deformata di sé (metafora per lo spaesamento) presente in tutti gli specchi che lo raffigurano grazie ad uno sguardo attraverso i diversi punti di vista possibili (e inudito germinava di pupill e/lo sguardo meridiano in cui/sussisto), trovando così le direzioni del proprio orientamento.
Il sesto giro è ilraggiungimento della stato di conoscenza e del reale significato della ricerca: la scala è rappresentativa dell’intera esistenza del soggetto, che si crea durante la vita.
Tanto più il soggetto tesse la sua trama salendo verso la luce, tanto più i gradini discendono scavando il silenzio all’interno dell’individuo verso un presagio d’azzurro.

Immagine articolo Fucine MuteLe filigrane d’azzurro cadute dalla conoscenza le ritroviamo anche nella prima parte della “Sequenza della neve”.
Il soggetto afferma che proprio quando abbiamo smarrito il biancore ( o abiurato il silenzio od ancora cessato di udire il rumore della neve che cade) accade un’azione singolare, riflessa, indipendente dalla nostra volontà, cioè l’inchiostro dei segni sfoglia il chiarore del cielo. Gli ultimi quattro versi della prima parte si collegano alla descrizione precedente e il tempo (furore del tempo) come simbolo viene antropomorfizzato e relazionato al cielo (lacerti di cieli; voglio ricordare una visione di Dante Alighieri, Inferno, canto 22: “Presegli il braccio col ronciglio, sì che, stracciando, ne portò un lacerto”), alla mente e ai pensieri.
La seconda parte attraversa i mattini d’inverno che si levano dall’infanzia, un’immagine bellissima, un gioco chiaro scuro sul ricordo fanciullesco della neve e degli alberi. È un’immagine che si apre allo stupore e che chiama il soggetto a prendere posizione sulla propria esistenza.
Infatti nella terza parte assistiano al binomio Neve — Vita (dove c’è la bruttezza della vita lì si adagia la neve, che è vista in maniera del tutto diversa dalla sua forma originale perché nel ricoprire grava su qualcosa).
La vita viene invocata attraverso immagini dolorose, ma la neve e lo splendore si possono adagiare, possono comprendere, soltanto nei luoghi “calunniati”.
Il soggetto quindi esamina come una comprensione a ritroso sia vitale per il presente e per il futuro, per ricomporre l’equilibrio del mondo, per ricomporre la propria esistenza nel mondo. La neve ricompone una nuova forma equilibrata, plastica, più dolce, attutendo le forme acute, aguzze, della vita.
L’ultima parte è probabilmente un invito alla logica dell’emozione, al pensiero del nostro inconscio, delle nostre risposte che hanno effetti sul mondo circostante, una lingua che ancora dobbiamo apprendere da noi stessi, una voce da fare. Il fatto che ci siano simmetrie indica come superare l’ordine (esterno) costituito e precostituito dall’uomo e dalla sua storia e prefigurato dai giardini. Giungeremo all’ordine (interno) insito nella natura dell’uomo?
Il pensiero umano scorrerà alto sopra le nuvole e farà ombra, darà vita alla forma, sillaba la Stanchina.

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