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Palcoscenico

Carlo Giuffrè

La grande comicità nasce dal dolore

Immagine articolo Fucine MuteTiziana Carpinelli (TC): È con immenso piacere che stasera ci troviamo con l’attore e regista Carlo Giuffrè in occasione della rappresentazione di Miseria e Nobiltà al Teatro Comunale di Monfalcone.
Lo spettacolo che avremo la fortuna di vedere stasera ha mietuto ampi successi in questi mesi e in tutti i teatri in cui è stato allestito. Sono passati ben 116 anni dalla data in cui la rappresentazione è stata portata in scena per la prima volta a Napoli, eppure è uno spettacolo che non smette di far ridere il suo pubblico, di essere attuale e di far riflettere. Lei come spiega la magia di Miseria e Nobiltà, questo capolavoro della drammaturgia napoletana e che cosa ha significato, per lei, interpretare dopo quindici anni nuovamente i panni di Felice Sciosciammocca?

Carlo Giuffrè (CG): Certo. Anzi, quindici anni sono troppi, se lei pensa che tutti gli altri spettacoli — mi riferisco ai vari Shakespeare, i Molière, cioè agli spettacoli stranieri tradotti in italiano — vengono replicati continuamente; ogni anno lei vede in giro gli Amleti, i vari Pirandello, I sei personaggi, eccetera. Questa commedia, è già da tanto che non si rappresentava.
Questo è uno dei testi più interessanti della drammaturgia universale, scritto in dialetto (napoletano) come tutto il teatro prima che l’Italia fosse unita.
Ogni teatro parlava la propria lingua, il proprio vernacolo, e del resto, il teatro in lingua italiana, non esiste. C’è un teatro tradotto in lingua italiana, ma non c’è un vero e proprio teatro in lingua italiana.
Lo stesso Pirandello scrive le prime dieci commedie per Angelo Musco in dialetto siciliano: gli Atti Unici, La patente, I lumini di Sicilia, La giara e varie altre cose, inventando poi una lingua che ha una radice siciliana, un po’ come fa oggi Camilleri e senz’altro si può dire che non si tratta mai di un teatro di lingua letterariamente italiana.
Il teatro in Italia nasce pertanto in dialetto: i veneti scrivono in veneto, Goldoni scrive in veneto, Carlo Gozzi scrive in veneto, Ruzzante scrive addirittura in una lingua padovana tutta particolare e Macchiavelli scrive in toscano.
Il teatro nasce soprattutto nella zona della Campania, dove ci sono i grandi punti di riferimento di Pulcinella ed Arlecchino e poi anche di varie altre maschere, che so, tutti gli Zanni(Gianni), il Ballanzone, il Gianduia: ogni regione ha la propria maschera e gli italiani sono rimasti attaccati a questo tipo di rappresentazione. È nel Dna degli italiani tale genere di teatro, che è proprio la loro storia.
Noi non abbiamo cultura drammaturgica, non abbiamo autori: da Goldoni s’aspettano 230 anni per Pirandello e da Goldoni a Pirandello non c’è niente. Qualche cosa, ma poca roba.
Non ci sono grandi drammaturgie, perché? Perché arriva il melodramma, a metà del Settecento, con dapprima l’opera buffa e poi man mano Gluck, e in seguito Mercadante, Cimarosa, Paesiello e poi ancora Rossini e, nell’Ottocento, tutti gli altri, a partire da Donizetti, Puccini, Mascagni, Verdi, eccetera.
Il melodramma blocca tutto quello che era la prosa, la quale scaturisce proprio dalla commedia dell’arte, sviluppatasi lì in Campania, a Napoli.

Immagine articolo Fucine Mute

I grandi autori si collocavano in quella zona e in generale tutto il Seicento e il Settecento ne è pieno: Basile, Della Porta, Da Nino, Trinchera, erano tutti autori ormai spariti e tutti erano fermati dall’arrivo del melodramma.
Si costruiscono meravigliosi teatri per la lirica, per il melodramma, ma non ci sono più teatri per la commedia e in generale gli attori non recitano più; la prosa sparisce completamente dai palchi oppure si fanno delle poche cose, ma sempre e solo commedie tradotte da altre lingue.
Gli inglesi — che non hanno avuto la musica (e ciò vale anche per i francesi) — vedono, invece, ogni secolo coperto da due o tre grandi drammaturghi, dagli elisabettiani fino ai giorni d’oggi: mi riferisco ai Pinter, agli Schaffer, tutti grandi autori teatrali, mentre noi, in Italia, non abbiamo quasi teatro.
Allora, quando io rimetto in iscena queste commedie, riesumate e riproposte dopo tanti secoli, le traduco, le riadatto e le rimoderno, facendo collegare le realtà delle varie epoche con quelle di oggi, perché la storia dello scrivano pubblico, la toccante storia di Felice Sciosciammocca è anche la nostra storia.
Sciosciammocca, tra l’altro, è una maschera che Scarpetta inventa sostituendo Pulcinella: egli stesso riferì che da piccolo Pulcinella gli faceva paura in teatro, a causa del suo volto nero, e quindi verso la metà dell’Ottocento, quando diventa anche lui capocomico e fa un teatro autonomo, immediatamente sostituisce Pulcinella con questo Sciosciammocca.
Sciosciammocca vuol dire “Soffiami in bocca”, cioè si riferisce a quelli che sembrano avere una patata tra le ganasce e sono costretti a stare a bocca aperta, sono, in altre parole, coloro che guardano il mondo con stupore, con meraviglia, con ingenuità e con una certa curiosità che gli fa assumere quest’espressione un po’ buffa.

Allora, riprendendo il discorso, codesto tipo di teatro è il teatro che riguarda la nostra storia. Questo Sciosciammocca che fa lo scrivano pubblico, lavora perché nell’Ottocento l’analfabetismo in quelle zone era addirittura del novanta per cento: pochi sapevano scrivere e quei pochi che lo sapevano fare, s’arrangiavano ricoprendo il mestiere di scrivano pubblico, con il proprio tavolino, delle carte, una penna, un calamaio; venivano i clienti a fare domande, delle petizioni, lettere d’amore, qualunque cosa e questi lavoravano.
Ma quando arriva l’alfabetizzazione, alla fine dell’Ottocento, con la scuola obbligatoria, i clienti non ci sono più poiché la gente comincia ad imparare a leggere e a scrivere e il povero scrivano pubblico perde il lavoro. E questo succede anche oggi: man mano che il progresso avanza e la tecnologia conquista terreno, succedono sì delle cose buone, ma c’è anche chi ci rimette.
Per esempio, io giravo un film negli anni Cinquanta, che ripercorreva la storia di un musicista napoletano e mi ricordo che, in piazza Plebiscito a Napoli, mentre costruivano delle scene con dei pianini — che erano quelli che divulgavano le canzoni con le pianole — venne un signore anziano, tutto contento di lavorare, e gli chiedemmo come mai fosse così contento e disse: «Perché ormai io non lavoro più, m’ha rovinato la radio! ». Vale a dire: nacque la radio in quegli anni e questo signore che faceva il suonatore di pianino, perse il lavoro. Oggi si spinge un bottone e tre persone non hanno più un mestiere, e per questo motivo che quella di Felice Sciosciammocca è una storia sempre attuale.
Immagine articolo Fucine MuteL’altro compare (don Pasquale, interpretato da Nello Mascia, ndr), l’amico che faceva il salassatore — salassatori erano coloro che toglievano le pressioni, il sangue, facendo per l’appunto, dei salassi —, vive il medesimo dramma: la medicina moderna inventa nuovi farmaci (anche se ci saranno farmacisti imbroglioni che produrranno medicine finte, nocendo più del sistema suddetto) e allora anch’egli è costretto a smettere di svolgere la sua professione. Non lavora più nemmeno lui.
E questi sono drammi da cui nascono le grandi comicità, perché la grande comicità è drammatica.
Mai, mai pensare che debba far ridere il film di Natale di Boldi o di questi comicaroli della televisione. I grandi comici sono Chaplin, Buster Keaton, Petrolini, Totò, Eduardo.
La grande comicità nasce dal dolore.
Allora tu ridi, però c’è dentro un’emozione forte che ti arricchisce.
E quindi i grandi comici sono quelli che fanno sì ridere, ma sono anche e soprattutto coloro che con la comicità sdrammatizzano la tragedia della vita, pure solo con un battuta comica, perché era la capacità dei grandi commedianti della commedia dell’arte quella di raccontare una storia che nasce da una realtà e poi arriva al paradosso, all’onirico, al gioco, alla fantasia… E allora finalmente il pubblico sente in iscena chiamare Pasquale, Concetta e non più Peter, Jack o Mary, come di solito succede; già, perché nessuno dice che quello che si recita in Italia è teatro d’altri.

Noi continuiamo a tradurre Molière, Shakespeare, Ibsen ma non abbiamo una nostra storia. Non è che gli inglesi non recitino Ibsen o Molière o altri — recitano anche commedie di Eduardo —, ma soprattutto hanno una loro storia, una loro identità drammaturgica da raccontare e in un secondo momento fanno degli esperimenti con altri autori, che sono comunque realtà diverse.
Rammento, a tal proposito, quando è andato in scena a Londra, due anni fa, Filomena Marturano, la storia di un padre che vuol sapere chi è il figlio.
Ebbene, è questa una realtà che agli inglesi interessa poco: ‘a mamma è una cosa italiana, no? Tant’è vero che quando il personaggio protagonista continua a chiedere a Filomena Marturano: «Dimmi chi è mio figlio » — il dramma è che Filomena ha avuto tre figli e solo uno è suo — «Dimmi chi è mio figlio », «Non te lo dico, non te lo dico », un signore dalla platea ha gridato: «Fagli il Dna ».
Ha sdrammatizzato la cosa e questo perché non interessa tanto, ma è giusto, poiché è effettivamente una realtà da loro meno sentita, come a noi ci colpisce meno quella loro: perché dobbiamo continuamente far finta di impazzire per Amleto, per Riccardo III o per Re Lear? Il dramma delle figlie di Re Lear tocca certamente meno del dramma dei figli di Luca Cupiello, protagonista di quella grande commedia di Eduardo che io ho recitato negli ultimi anni: la figlia che non ama più e che c’ha l’amante, il problema e il dramma della vita, il figlio psicopatico, questi sono i fatti che ci riguardano.
Eppure quando arriva Shakespeare tutti dobbiamo far finta di sapere, di capire, di emozionarci: che ce ne frega a noi di RiccardoIII, della regina Maria Stuarda o degli altri?

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Questi grandi testi che io faccio sono come per i francesi Moliere, per gli inglesi Shakespeare, ed è questo ciò che sono: grandi, grandi classici; Scarpetta e tutto quello che io ho recitato finora, da Eduardo, Petito, Trinchera a Curcio, rappresentano le grandi commedie italiane, ma siccome non le possono far tutti, io sto cercando di tradurle come fecero i veneti con le loro opere: mano a mano le hanno riportate ad una lingua più accessibile a tutti, però all’inizio erano integralmente scritte in dialetto e solo in seguito, per farle capire agli altri, furono tradotte.
È quello che sto facendo un po’ io: se lei leggesse il testo originale di Miseria e Nobiltà, non comprenderebbe nulla, ma non perché è lei, neanche un napoletano non capirebbe più niente; sono ormai dialetti arcaici, dell’800, però io li traduco, li ripropongo, li rigenero, li nutro, li arricchisco e così diventano dei grandi classici.
Ecco perché rimetto in iscena queste opere e, aggiungerei, anche tardi, perché c’è un critico teatrale che si chiama Masolino D’amico, ed è il critico de La Stampa,che mi dice: «Il governo ti dovrebbeobbligare ogni anno a fare commedie di questo genere. Perché sei l’unico che recita commedie che riguardano la nostra realtà, la nostra drammaturgia ».

TC: A proposito di Scarpetta, egli è stato, in un’epoca in cui era comune essere figli d’arte, in realtà ricordato soprattutto come padre d’autore del grande Eduardo de Filippo.
So che lei ha esordito ventenne con Eduardo, restando con lui per tre stagioni:’48-’49-’50; e poi, nel corso degli anni, dopo meritati trionfi, s’è trovato ad interpretare da protagonista il grande repertorio eduardiano. Io le chiedo cosa conserva di quella figura e se ancora oggi, nonostante tutto il successo che ha avuto, c’è qualche suo insegnamento che si porta dietro quando s’appresta ad entrare in scena.

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CG: La verità è che io ho cominciato a recitare da ragazzino: ero un enfant prodige e già a tredici anni, in collegio, recitavo, forse meglio di quanto non reciti oggi, credo (ride, ndr).
Ero di una semplicità e di una purezza tali che mi ricordo che le madri degli altri ragazzi mi carezzavano e mi davano caramelle: ero già un divo!
In effetti, io sapevo già recitare e andavo in giro, quando entrai all’accademia d’arte drammatica, per i teatri a vedere non solo gli spettacoli ma anche i grandi attori, da Ruggero Ruggeri, Gianluigi Cimara, a Giaccone e tanti altri, tutti quelli che recitavano in quel periodo lì.
Poi, un giorno, capitai in un teatro dove c’era Eduardo che non avevo mai visto e dissi: «Ecco, questo recita bene! ». Cioè sapevo già cosa rappresentava per me il teatro, non è una presunzione, fui sorpreso in quanto mi piacque moltissimo e capii che così bisognava recitare e che io così avrei recitato, fors’anche se non avessi incontrato Eduardo, perché è un mio fatto naturale.
Successivamente sono stato con lui in compagnia tre anni, ma quando poi sono cresciuto ho fatto altre esperienze perché, per esempio, Eduardo ha recitato solo le sue commedie, mentre io ho recitato Molière, Shakespeare, Ibsen, Pirandello, insomma ho interpretato di tutto, cercando di avvicinarmi il più possibile alle intenzioni dell’autore e direi che, in definitiva, il compito dell’attore è proprio questo, fare da mediatore.
Quando ho recitato le commedie di Eduardo le ho fatte come Eduardo le voleva: se le ha scritte e le ha anche rappresentate, vuol dire che i personaggi andavano interpretati così.
Quando erano messe in scena le commedie di Cechov — ed egli non era attore ma solo scrittore —, il regista Stanislavskij continuava a spedire lettere a Cechov che se ne andava sulla Costa Azzurra con la scusa di curarsi dei malanni (mentre invece era un giocatore e andava nei casinò), chiedendogli come si sveglia Irina, come si muove Olga delle Tre sorelle o Nina del Gabbiano; voleva sapere le connotazioni, le psicologie dei personaggi e Cechov, ovviamente, gli rispondeva descrivendo più o meno quali dovessero essere le peculiarità, le caratteristiche, le particolarità dei personaggi.

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Quando Edurado scrive e recita le sue commedie, vuol dire che sono proprio così come lui ce le mostra e quindi bisogna farle in quel modo, ma con la propria interpretazione. Quando io recito Pirandello non centra niente Eduardo, quando recito Ibsen o Patroni Griffi o altri autori ancora, non centra più niente de Filippo.
Io cerco solo di avvicinarmi il più possibile a quello che l’autore ha voluto rappresentare, ecco. Eduardo ce lo fa vedere, bisogna recitare così. Potrei citare anche l’esempio delle commedie di Pirandello: prima le recitava Picasso, poi Almirante e poi ad un certo punto arrivò Ruggero Ruggeri, e Pirandello cominciò a dare le commedie tutte a lui, perché capì evidentemente che Ruggeri era proprio l’attore che, istintivamente o perché l’aveva compreso, si avvicinava di più a quello che l’autore voleva intendere scrivendo un personaggio.
Ecco, quando io recito Eduardo faccio Eduardo, ma non sono proprio Eduardo, perché se io interpretassi Eduardo che recita Ibsen, allora farei un’imitazione, mentre io non lo so come Eduardo avrebbe recitato gli altri autori, io semplicemente vedo quel personaggio, rappresentato dallo stesso autore, e capisco che così dev’essere. Questo ho imparato.
Poi ho fatto dieci anni nella compagnia di Romolo Valli.

TC: La Compagnia dei giovani…

CG: Sì, la famosa Compagnia dei giovani, e unendo questi due stili, cioè con la commistione dei due modi di recitare, viene fuori una apertura maggiore: per ciò cerco di dare al dialetto la classicità della lingua italiana e se faccio Pirandello cerco di dare alla lingua italiana tutto il gioco e tutta la fantasia del dialetto. Ecco, unisco queste due cose che sono l’istinto, la visceralità napoletana e l’approccio più colto, più classico, della Compagnia dei giovani.
Da lì ho imparato e con questi due modi di recitare cerco di fare un buon teatro.

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TC: So che lei è stato anche attore per il cinema e si è reso interprete di numerosissime pellicole, ha recitato per Monicelli e non ultimo, ricordo il ruolo intensissimo di Geppetto con Benigni.
Io vorrei chiederle se crede che il cinema possa rubare un po’ della magia del teatro o se invece, a suo avviso, quello cinematografico sia un mondo totalmente distante. Può fare il cinema, se così si può definirla, un’opera di ruberia?

CG: Io lo dico continuamente. Quand’ero in Accademia d’arte drammatica e assieme ad altri facevamo gli attori, gli allievi di teatro, ci si incontrava in certi luoghi deputati, come nella piazza a Roma, — per fortuna allora c’era la volontà di aggregarsi e di stare più insieme — insomma, quando noi dell’accademia dell’arte drammatica guardavamo gli allievi del centro sperimentale (quelli di cinematografia) li ritenevamo dei perditempo, soltanto dei bellocci, naturalmente sbagliando; però in effetti io ho sempre fatto il cinema soltanto come salvadanaio, non ho mai ritenuto il cinema un’arte vera, bensì un artigianato.
Il cinema appartiene al regista o comunque appartiene ad altri, ma non all’attore: magari l’attore fa una bella scena, crede di averci messo tutto, tutta la passione, il massimo della concentrazione, un primo piano particolarmente intenso, e poi invece al montaggio quel primo piano viene tagliato e l’attore non ne sa più niente, oppure dice una battuta e magari la musica è più forte della voce e si sente meno, non so, basta un mare in movimento, una sovrapposizione e il cinema non è più dell’attore; tant’è vero che s’è fatto anche con i non-attori: il neorealismo ha cominciato a fare pellicole con la gente normale, bastava la fotogenia, l’aderenza al personaggio, e noi, attori veri, ne abbiamo doppiati tanti di questi non-attori.
Negli anni Cinquanta, io doppiavo moltissimi film, c’era ad esempio un attore, un certo Cifariello, ma oltre a lui, ricordo di averne doppiati molti altri.

Immagine articolo Fucine Mute

Anche per questo, ritengo che il cinema non sia una cosa che appartiene all’attore; prendiamo il film di Benigni, Pinocchio, che è una pellicola che è andata male perché, per esempio, il personaggio di Geppetto è stato tutto tagliato, ridotto proprio ad un personaggio di servizio, senza più poesia, senza più niente.
Io mi ricordo in particolare di un primo piano, quando Pinocchio va a scuola con l’abbecedario che gli ha comprato il padre: c’era una scena in cui Geppetto lo guarda andar via con le lacrime agli occhi, commosso, e c’era un’alternanza toccante di primi piani con Benigni che correva con il libro sottobraccio e poi il mio volto, insomma il mio sguardo verso il figlio, pieno di emozione; e mi ricordo anche che, il giorno dopo, coloro che avevano visto in proiezione questo primo piano (sia Spinotti, famoso operatore, che altra gente dalla produzione) mi dissero: «Che bello quel primo piano tuo, com’è commovente ». Ebbene è stato tagliato. Non so perché. Non c’era più.
E quindi del cinema non me ne frega niente. Lo posso dire. Mi dispiace solo di non aver fatto un film che girò Monicelli ma che doveva essere girato da Germi, che si chiama Amici miei, un film che ebbe molto successo. Non lo volli fare perché avevo degli impegni in teatro e ciò mi dispiace ancora perché Germi, col quale io avevo fatto Il Ferroviere molti anni prima, me lo chiese con la poca voce che gli era rimasta, perché stava male e morì qualche giorno dopo, e mi disse: «Fallo, fallo è un bel personaggio ». E io non lo volli fare.
Ho sempre avuto col cinema dei rapporti conflittuali, mai precisi.
Quando giravo per esempio La ragazza con la pistola, rammento che dovetti lasciare il film perché scadevano i termini di contratto e dovevo cominciare lo spettacolo con la Compagnia dei giovani, e così, quando recitavo a Cesena, dovetti andare ad Ancona e girare il finale del film che non avevo fatto in tempo a girare a Brighton.
Ho sempre ritenuto il cinema un lavoro, diciamo così, soltanto “di guadagno” o di denaro che molte volte ho poi riciclato nel teatro. Per il teatro io ho sempre impegnato tutte le mie energie: fisiche, mentali, psicologiche e tutto il resto; e ciò per cercare di fare bene un tipo di teatro che dà delle emozioni dirette al pubblico, un teatro che è una cosa viva, specialmente quando si crea questa osmosi tra platea e palcoscenico: mi creda, è un momento di grande bellezza, un rituale meraviglioso, quando il pubblico interagisce, entra coinvolto nelle commedie e non sta lì a sbadigliare perché si recita letteratura o altro, ma perché vede un teatro che dà delle emozioni reali. Questa è una grande soddisfazione. Lei lo vedrà stasera e si accorgerà che quello che dico è vero.

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TC: Concludendo, vorrei farle un’ultima domanda: c’è un ruolo, tra tutti quelli che ha interpretato, a cui è particolarmente affezionato e uno che vorrebbe ripetere?

CG: Guardi, non riesco a dirlo perché mi affeziono in fondo a tutti i ruoli, ciascuno mi sembra, ogni volta che faccio una commedia, più importante di quello che l’ha preceduto.
Sicuramente amo di più questo tipo di teatro (Miseria e Nobiltà, ndr) che i Sei personaggi di Pirandello, lo dico chiaramente, perché quest’ultima è certamente più letteratura che teatro. E anche la gente da me vuole questo.
Mi ricordo che montavamo i Sei personaggi a Trapani, in Sicilia, stavamo per andare in iscena e nell’albergo dove abitavo c’era un bar. Mentre stavo al bar mi fermano dei signori col sorriso sulle labbra: «Signor Giuffrè, sta qui, cosa fa di bello? », dico: «Sto preparando i Sei personaggi in cerca d’autore», «Ah, si? Un caffè per favore ». Subito si staccarono, cioè non presero neanche in considerazione il fatto,perché tutto sommato — Pirandello è un grande, per carità — il guaio è che si portano i ragazzi a tredici, quattordici anni a vedere un teatro che è già difficile perché più letterario e filosofico: il teatro è bello quando è caldo, quando è semplice, quando arrivano delle emozioni dirette… Insomma, veda lo spettacolo e poi mi saprà dire!

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