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Cinema

Zatoichi: impressioni di un profano

Da profano del cinema, della cultura giapponese e delle recensioni, lascio ad altri il difficile compito di indicare i precedenti cinematografici di questo bel film, le citazioni, la fedeltà della ricostruzione storica, il valore della tecnica di Kitano, e mi limito a spiegare cosa io ho visto in Zatoichi.

Immagine articolo Fucine Mute

Fin dalla prima scena del film ho visto un modello di eroe. Un eroe invariabilmente silenzioso, inespressivo, che nella sua gioviale cecità mi ricorda tanto il Rutger Hauer di Furia Cieca, mentre nella sua apparente ottusità mi ricorda il buon vecchio Trinità di Terence Hill. E in effetti questo modello di eroe taciturno, imperscrutabile, generalmente inespressivo ma che si concede al riso e allo scherzo, si ritrova nei film Western, in tanti duri Harley Davidson e Marlboro Man del cinema americano, nei film di arti marziali e persino in quelli di molti supereroi: l’ometto timido, spesso serio o quantomeno assorto, che però si trasforma, in seguito a un certo evento o perché coinvolto in una determinata situazione, in un essere mortale, invincibile, dalla volontà ferrea e dalla morale irreprensibile.
Ho volutamente citato la figura del supereroe, perché di questo si tratta: di un essere dai poteri superiori nascosti dietro a un’identità almeno parzialmente fittizia, in opposizione manicheistica a un nemico che, pur assumendo forma diverse, incarna sempre lo stesso tipo di controvalori. In fondo non sappiamo perché Zatoichi stesse cercando il capo dei cattivi, quali motivi personali lo legassero a lui; non sappiamo perché combatte, ma lo fa, e va bene così, perché riporta ordine e giustizia. Ecco, in Zatoichi ho visto fin da subito questo tipo di eroe, un eroe sfuggente, un eroe da fumetto, un giustiziere.

Ora, l’intertestualità con il fumetto emerge altrove, in Zatoichi: nella commistione armonica del drammatico e del comico e nella rappresentazione della violenza. Quest’ultima è icasticamente esemplificata nell’uso del sangue, che schizza con tale abbondanza da risultare esagerato e dunque, come ogni esagerazione, ridicolo. Eppure mostrare il sangue significa violare un tabù, perché il sangue è il simbolo più antico e totale della morte, è il segno del corpo che si lacera, è l’emblema della debolezza umana davanti alla durezza della natura. È lo stesso Kitano a sciogliere questo nodo, quando in un’intervista afferma che adesso è impossibile non mostrare il sangue, quindi meglio mostrarne tanto. Una scena di tagliuzzamenti con katana senza sangue risulterebbe, per lo spettatore del 2003, inverosimile e ipocritamente bigotta. Ecco allora che il sangue sgorga con suoni come in un film splatter, a voler ridicolizzare la fame di violenza, la fame di crudezza dello spettatore moderno. Kitano ci fa ridere del sangue, ma così facendo, senza accorgercene, ridiamo di noi stessi e della nostra morbosità. La catarsi si perde nel ridicolo.

Immagine articolo Fucine Mute

Il sangue è un esempio della compresenza del dramma e della commedia. Il pianto e la risata, l’assoluto della morte e l’immanente della vita convivono in un perfetto equilibrio che rende il tragico sopportabile e il faceto non stucchevole.
Zatoichi non è, infatti, un film leggero. La storia del maestro cieco che dove arriva uccide tutti i cattivi mi sembra più una scusa, un’occasione di cui Kitano approfitta per raccontare delle tragedie quotidiane di vita. Dalla prima all’ultima: la difficile situazione del samurai disonorato, che vive una duplice tragedia, quella di non poter recuperare il proprio onore e quella di assistere impotente alla malattia della donna amata; il dramma dei due fratellini resi orfani da una banda di ladri, costretti dalla fame a prostituirsi e dal dolore a dedicare la propria vita alla vendetta; le difficoltà quotidiane dei contadini, vessati dai nuovi signorotti locali; il vizio quasi senza uscita del giocatore, che passa la sua vita in una bisca. Sono storie raccontate con incredibile leggerezza, senza concessioni al pietismo, senza la benché minima forzatura, senza indugi forzosamente drammatizzanti. La contadina e il giocatore, anzi, ci ridono sopra: attraverso di loro Kitano, e in questo si vede l’influsso delle sue origini, sembra voler dire: è terribile, ma questa è la vita.
Prima vediamo il giovane samurai/mercenario ghignare davanti al potere distruttivo che, attraverso la propria spada, è in grado di sprigionare. Più tardi siamo noi a ridere davanti al giocatore d’azzardo che cerca di insegnare ai propri amici la tecnica della katana. Vediamo la tragedia dei due bambini, poi assistiamo alla danza elegante e provocante in cui si esibiscono, ormai adulti. Vediamo la dura fatica dei contadini, e subito dopo li vediamo ballare il tip tap nel fango.
La vita, appunto. Con i suoi dolori e le sue gioie, entrambi effimeri quanto imprevedibili, entrambi fondamentalmente inspiegabili.
Dunque chi è il protagonista di Zatoichi? Non certo Zatoichi.

Questa interpretazione è corroborata anche dai flashback continui con cui Kitano ci mette magistralmente in grado di comprendere le storie dei personaggi. Bellissima, per esempio, la scena a casa della zia contadina, quando tutto il gruppo si concede un attimo di calma. Questa scena conferma come non ci troviamo in un banale film d’azione, tutto incentrato sulle prodezze dell’eroe di turno: il ritmo rallenta, e lo spettatore si perde nella pioggia come i personaggi, di cui condivide i pensieri — un ricordo guerresco per il nostro eroe, un ricordo triste per la giovane sorella geisha. E la scena culmina con un omaggio al Giappone e alle sue tradizioni, con la danza eseguita dal fratellino.

Immagine articolo Fucine Mute

Zatoichi è un film profondamente umano, che si distingue dai tradizionali film di supereroi (siano essi degli ipertrofici in calzamaglia, dei pistoleri fulminei, dei poliziotti giustizieri o quant’altro) perché protagonista, qui, non è l’eroe, e la sua azione purificatrice è mostrata solo a mo’ di intrattenimento. Protagonista reale del film è la vita, con le sue contraddizioni, con le sue brutture, con i suoi colpi di scena. La vita è più imprevedibile, più avvincente, più coinvolgente della finzione. Zatoichi è un film che, pur nella rappresentazione del dolore e della morte, conferma la vita.

Gli episodi mostrati sono in qualche modo allegorici, tipici come tipica è la figura dell’eroe: esempi di ingiustizie senza spiegazione, di angherie gratuite delle quali è possibile riconoscere tutta l’attualità e l’universalità. Dal momento, tuttavia, che teatro dell’azione è il Giappone di fine Ottocento, con i suoi riti, con gli oggetti tipici, Kitano non evade il compito di fornirne una splendida immagine.
I dettagli sono curatissimi. Quando il giovane giocatore d’azzardo prende l’ombrello della zia per andare al villaggio, ecco che Kitano, con una bella e atipica inquadratura, mostra come questo sia rotto. Ecco il linguaggio che fa la grandezza del regista: non c’è bisogno di denunciare la povertà, basta mostrarla. Allo stesso modo, niente è gridato o dichiarato: tutto è semplicemente, opportunamente mostrato.
La stessa logica e la stessa cura si ritrovano nella caratterizzazione dei personaggi, tutti ben tratteggiati. Un’elencazione sarebbe sterile, rimarcherò solo alcuni punti essenziali. Uno di questi è l’ironia con cui, mostrandoci lo scemo del villaggio, Kitano ci mostra anche la superazione delle strutture tradizionali del Giappone antico. Un altro è dato dalla differenza tra Zatoichi e il samurai/mercenario.
Entrambi abilissimi con la spada, si distinguono però nelle ragioni per cui uccidono e, ancor di più, nel gusto che provano nel farlo. Il primo sguaina la lama per necessità, il secondo ne fa un elemento fondante della propria personalità. Il primo uccide per riportare l’ordine (la morte, nella tradizione giapponese, ha proprio questa funzione purificatrice, serve a riportare tutto a uno stato originario), il secondo per denaro. Il mantenimento della propria donna, infatti, è solo una scusa: egli impersona il proprio ruolo senza reticenze, senza conflitti morali. Ancora: Zatoichi non ride mai, né prima né dopo un combattimento. Per lui si tratta di un momento solenne. Il mercenario, al contrario, non cerca di perfezionarsi, come il buddismo (da cui deriva, passando per il tao, lo zen giapponese) prescrive, ma entra in un’estasi di onnipotenza. Se Zatoichi, pur non essendo cieco, finge di esserlo per migliorare se stesso, l’altro è cieco veramente. Entrambi si autosottopongono a una sfida continua, ma Zatoichi la affronta per crescere, l’altro solamente per confermare la propria persona e le proprie abilità.

Immagine articolo Fucine Mute

Tuttavia Zatoichi non è un personaggio completamente positivo. Con la sua forza immensa, pur essendo una forza buona, sconvolge, con il proprio passaggio, la tranquillità dello status quo, arreca un disequilibrio che sfocia inevitabilmente nella morte (ancora una volta portatrice d’ordine).

Non tutto è quel che sembra, dunque. Il film rappresenta con fedeltà le finzioni e le apparenze che la vita ci presenta. Zatoichi, guerriero, passa per un massaggiatore cieco; il mercenario, che cerca di recuperare il proprio onore, se ne allontana sempre più; il giocatore d’azzardo, che passa per un dissoluto, è un buono dal cuore tenero; una delle due geishe è in realtà un uomo; il veccho aiutante al bar è il capo dei cattivi.
Tutte queste trasfigurazioni sono disvelamenti dell’identità autentica nascosta dietro la maschera. E non è forse la maschera un topico del fumetto? Non è grazie alle maschere che i buoni e i cattivi nascondono la propria natura, oltre al proprio nome?

Il film, però, si distingue dal fumetto per la sua possibilità, tra l’altro, di accedere, oltre che al senso della vista, all’udito. Kitano lo fa magistralmente, regalandoci qualcosa che va oltre la semplice colonna sonora: ci regala il balletto. Le zappe che colpiscono ritmicamente la terra e i rumori della costruzione della casa mi ricordano tanto Stomp, il musical in cui i suoni sono realizzati solamente con oggetti della vita quotidiana. Geniale usare la stessa tecnica in un film. Il trionfo della musica, però, è raggiunto con la scena del tip tap finale, alla realizzazione della quale concorrono, come si fa nel teatro, tutti i personaggi, e che quindi svela l’ultimo inganno di Kitano: è vero, vi ho mostrato la vita, ma in fondo è pur sempre un film!

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