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Cinema

Le nuvole e il viaggio

Appunti per un cinema nomade

Gus Van SantL’inquadratura iniziale di Elephant (2003), un campo di nuvole in movimento esprime bene ciò di cui si vorrebbe fosse capace un cinema contemporaneo, attuale (se proprio vogliamo usare un’espressione quanto mai abusata), pronto a recepire le grandi metamorfosi della società tenendo conto anche delle piccole e soltanto all’apparenza insignificanti sfumature.
E soprattutto un cinema coraggioso, magari ai limiti della sfrontatezza (impossibile non citare in proposito le alzate al cielo del prorompente e rimpianto Le onde del destino di Von Trier), ma disposto piuttosto a morire che ad abbassare lo sguardo.
Come appunto quello di Gus Van Sant, interessante figura di regista che dapprima off Hollywood e poi “in”, sembra aver trovato con la doppia, meritata vittoria di Elephant all’ultimo festival di Cannes un giusto equilibrio di fondo nella sua ricerca tra il cinema mainstream e l’espressione personale.
Se difatti Belli e dannati (1991) offriva il ritratto di un hobo, ovvero di un vagabondo per il quale sappiamo non vi è confine tra il suo sentire interiore e il deserto intorno, a distanza di dieci anni Gerry (2001), ancora inedito in Italia e perciò attesissimo ribadisce la condizione di perpetuo cammino degli “eroi” di Van Sant.

Gerry (Gus Van Sant, 2001)

Un sociologo affermato come Jean Baudrillard già sul finire degli anni Settanta si concentrava sulla condizione erratica legata ad una radicale trasformazione dello spazio urbano oltre che architettonico (L’effetto Beaubourg, 1977).
Più recentemente Michel Maffesoli nel suo Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza attribuisce ad un generale sentimento di “nostalgia” per l’altrove l’erranza, la necessità di continuo movimento (il sottotitolo dell’edizione originale francese è vagabondages initiatiques), di nomadicità che caratterizza le generazioni contemporanee.
Questa diventa dunque un modo per relativizzare l’impero categorico della modernità, il viaggio, e produrre forme alternative, così dette flessibili: la ripresa del neoartigianato, il ritorno alla natura, la ricerca di una migliore qualità della vita, senza dimenticare ovviamente l’abbondanza di pratiche new age.
Sul grande schermo i vagabondi di André Techiné, autore del nutrito panorama francese post nouvelle vague, perlustrano uno spazio che è sempre paesaggio interiore e che di volta in volta assume sembianze diverse.
L’attaccamento dei suoi personaggi al luogo d’origine — la fredda e remota provincia dei Pirenei da cui proviene lo stesso regista — e coincidente con il corpo opprimente ed ingombrante del padre o della madre, è spiegabile soltanto se pensato in relazione al suo contrario: il luogo mitico, utopico della grande ville parigina, dove è possibile realizzare i propri sogni, diventare adulti e di successo e fare esperienza.
In Niente baci sulla bocca (1991) il trasferimento del giovane protagonista nella metropoli si configura come un vero e proprio rito di passaggio che contribuisce a spezzare definitivamente la già fragile condizione di partenza, creando uno spazio fluttuante a disposizione dello spettatore, una zona di sospensione che mette a nudo l’instabilità dei sentimenti.
Sulla scia del successo di alcuni romanzi di Paul Bowles, Alice et Martin (1999) mostra la fuga dalla città e in primo luogo da se stessi di una coppia di amanti tormentati; la destinazione è la Spagna andalusa, terra di fertile incrocio tra occidente ed oriente.

Lontano (André Techiné, 2001)

Nell’ultimo Lontano (2001) la città di Tangeri si propone set caotico ed assolato nel quale si intrecciano le vicende di Said, ragazzo arabo il cui sogno è entrare in Europa, e di Sara che dopo la morte della madre è incerta se restare o andarsene in Canada.
L’impressione è che tutti questi personaggi siano un po’ stranieri, ovvero che non si sa né come né tantomeno dove collocarli; sicché lo spazio circostante, sia una città oppure un villaggio alla fine del mondo, si dà a vedere come luogo di sospensione, spazio vuoto tanto più forte quanto (ri)nasce all’interno di un mondo che si vede già perfetto, già pieno.
Di questa medesima realtà sfaccettata, in poche parole nomadica, i film del regista franco algerino Tony Gatlif rappresentano l’altra faccia della medaglia, dove il contorto psicologismo svanisce per lasciare il posto all’incontro e alla conseguente, difficile accettazione dell’altro, dell’estraneo.
Così il tentativo di raccontare l’universo zingaro incominciato con il documentario Latcho drom (1993) prosegue con il film di finzione Lo straniero pazzo (1997).
Qui Stephane è un giovane musicologo che abbandona la città di Parigi, spinto dal desiderio di trovare una persona e dare così un volto alla voce di donna incisa su di un nastro.
Egli arriva quindi nei pressi di un villaggio zingaro e viene subito riconosciuto dalla comunità come straniero e quindi potenzialmente pericoloso; mette in pericolo le radici della comunità, è una fonte di contagio. Il paesaggio nevoso che lo circonda -siamo in una zona sperduta della Romania — è luogo di sospensione come e più del deserto per via di quel bianco che segnala assenza di colore e quindi assenza di un’identità ben definita.
Al cuore di un cinema che rivela i confini incerti e mutevoli del paesaggio circostante ed in accordo con la sete d’identità dei suoi personaggi è il piano-sequenza iniziale di Paris, Texas (Wim Wenders, 1984). Rocce e sabbia del deserto americano scorrono fintanto che la mdp si ferma su di un falco.
Un uomo dalla carnagione scura e i vestiti sgualciti vaga senza una meta precisa sulle musiche di Ray Cooder, effettua una pausa per prendere la borraccia; poi riprende il suo cammino con passo quasi baldanzoso verso dove non si sa. All’opposto del fratello che si presenta come borghese con un lavoro ben retribuito, una moglie ed un figlio, Travis — questo il nome del solitario viandante — si rifà piuttosto ad Ulisse, l’archetipo dell’errante.
E Paris, pressoché sconosciuta località nel bel mezzo del deserto che il titolo pone subito all’attenzione, altro non è che un’invisibile Itaca nonché luogo del suo concepimento dove egli sogna ancora di ritornare.

Respiro (Emanuele Crialese, 2001)Esiste infine una variante del nomadismo più allegra, vicina alla curiosità infantile e giocosa che sul piano visivo privilegia l’acqua, il mare, come avviene in The beach (Danny Boyle, 2001), trasposizione letteraria dal romanzo omonimo di Alex Garland in cui Leonardo di Caprio è un giovane ribelle che si unisce a due amici con la speranza di trovare un’isola dell’oceano pacifico sede di una comunità hippy. Così come Respiro (Emanuele Crialese, 2001) prende lo spunto da una leggenda dell’isola di Lampedusa dove si narra di una donna, che nel film ha gli occhi azzurri di Valeria Golino, vagabonda tra le rocce per sfuggire alla comunità isolana, chiusa ed ostile.

Finora Solaris (Steven Soderbergh, 2002) offre l’alternativa più riuscita, più elegante al modello di viaggio tradizionale. Tutto ha inizio con la partenza di uno psicologo interpretato da George Clooney per raggiungere una stazione spaziale in orbita attorno al pianeta Solaris, che si mostra come una fragile installazione immersa in un magma oceanico dalle tonalità infinite, e continuamente cangianti dal viola al blu al rosa. Arrivato sul posto, egli scopre che alcuni abitanti sono morti, altri appaiono terrorizzati. Infine, ritrova la moglie, che sappiamo essere morta già da diversi anni.
La vita terrestre così come la si vede prima della partenza e nelle scene di vita coniugale si amalgama perfettamente con la vita sulla stazione spaziale, grazie ad uno stile morbido e in cui brilla l’assenza di brusche rotture per indicare i flash back che appaiono così sotto forma di sogno avvolgente.
Di conseguenza anche lo spazio “vero”, quotidiano è indiscernibile da quello “finto”, artificiale; essi appaiono piuttosto come mise en scene della medesima illusione: l’Altrove spaziale, l’Amore eterno, il Cinema.

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