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Palcoscenico

Enzo Vetrano

‘A birritta cu ‘i ciancianeddi

Niente ci vuole a far la pazza, creda a me!
Gliel’insegno io come si fa.
Basta che lei si metta
a gridare in faccia a tutti la verità.

– Luigi Pirandello –

Immagine articolo Fucine MuteTiziana Carpinelli (TC): In occasione della rappresentazione de Il berretto a sonagli, al Teatro Comunale di Monfalcone, siamo coi due grandi attori protagonisti Enzo Vetrano ed Elena Bucci. La prima domanda, che rivolgo ad entrambi, è: da che cosa nasce la volontà di portare in scena questo spettacolo, anche alla luce di quello che è stato il vostro progetto precedente de Il Mondo di carta?Perché proprio Il berretto a sonagli e ancora: da cosa scaturisce la scelta, come nei vostri precedenti allestimenti, di partire dalla fusione del testo integrale dell’opera (il cui titolo originale era  appunto ‘A birritta cu ‘i ciancianeddi), composta da Pirandello per Musco, con quello tradotto due anni dopo in italiano?

Elena Bucci (EB): Sicuramente c’è un interesse per Pirandello che va al di là di tutto. Poi, la scelta del Berretto a sonagli, in particolare, proviene da vari fattori, tra cui la circostanza che abbiamo cominciato, proprio con questo spettacolo, il progetto della trilogia di rilettura dei classici, che ha unito anche le nostre due compagnie, Le Belle bandiere e Diablogues, nell’intento di scegliere dei testi classici che potessero parlare, o meglio, che avessero ancora qualcosa da dire ai contemporanei, rileggendoli però con un fare teatrale che fosse più vicino alla nostra sensibilità e rispolverandoli, in primo luogo, per noi stessi.
Il berretto a sonagli è una storia apparentemente semplicissima, dove però c’erano personaggi per tutti e quattro noi attori (che siamo anche registi) e, nella sua apparente semplicità, tocca però delle corde che a noi piacciono molto e che fanno parte pure delle nostre poetiche precedenti, e cioè:  l’interrogativo sui margini della follia, il tentativo di leggere nei comportamenti quotidiani le cose che ci portano a renderli più folli (quelle che chiamiamo “devianze”) e il senso del grottesco dato dall’unione del tragico e del comico nella vita e quindi anche nel fare artistico; ci sono tutti questi elementi, ed essi erano presenti nel Berretto a sonagli congiuntamente ad una trama molto solida ma, come tutte le trame solide, poteva essere contemporaneamente carica di allusioni, di ambiguità, di rimandi ad altri significati. E per la seconda cosa che tu mi dicevi…

Immagine articolo Fucine MuteEnzo Vetrano (EZ): Per quanto riguarda la nostra scelta sulla riscrittura drammaturgica, c’è da dire che, anche se abbiamo lasciato il testo di Pirandello integrale, ci siamo serviti pure del testo in siciliano che spesso viene trascurato nelle rappresentazioni tradizionali ma che invece, a nostro parere, è fondamentale per la scrittura di Pirandello.
Tra le altre cose, abbiamo ripreso nel copione alcune scene che nella traduzione dell’opera dal dialetto in italiano sono state tolte; in particolare mi riferisco alla prima scena del secondo atto, dove Beatrice scopre tra le lenzuola uno scorpione, simbolicamente prendendo consapevolezza del tradimento del marito, e lo schiaccia: è una scena bellissima e non si sa bene perché l’abbia tolta dal testo in italiano.
Il testo siciliano, in realtà, è molto più forte, forse è anche molto più folle, poiché in esso il personaggio di Beatrice si contrappone a Campa in maniera molto più impetuosa e prepotente rispetto all’altra versione.
Sì, direi che soprattutto il personaggio di Beatrice è molto più ricco e ha quasi dei momenti da “femminista da primi del  Novecento”: fa delle rivendicazioni tanto più forti, mentre lui (Pirandello, ndr) in italiano ha un po’ edulcorato questo aspetto, come se, forse, in lingua non si potessero dire determinate cose e in siciliano sì.
Ma, come tu dicevi, il testo venne scritto per Musco e probabilmente anche Musco non voleva accanto a sé un’attrice che avesse, nella parte, rilevanza quanto lui e quindi si decise di tagliare un po’ il ruolo di quel personaggio; del resto questo era il periodo del capocomicato, del grande attore, e cose di questo tipo potevano accadere.

EB: Un’altra piccola cosa: questo è uno di quei testi in cui emerge la forza che aveva Pirandello e a noi, quest’elemento, ha entusiasmato al di là delle riletture che sono state fatte dopo e che ne hanno tirato fuori soprattutto l’aspetto filosofico: mi riferisco soprattutto al vigore compositivo che aveva l’autore, cioè alla capacità, attraverso dei meccanismi teatrali assolutamente perfetti, di riuscire a scardinare il mondo stesso nel quale egli viveva; mi spiego: con un testo come il Berretto a sonagli — apparentemente una storia solo di “corna” — Pirandello fa saltare per aria tutti i cardini del mondo borghese, del quale lui stesso faceva parte.
Quindi ci troviamo di fronte proprio alla forza dell’artista e della creazione, che va la di là della condizione anagrafica e storica in cui egli ha vissuto, e ciò ci è sembrato di impatto molto potente.

Immagine articolo Fucine Mute

TC:E in effetti, a proposito della definizione della critica di “lavoro borghese” de Il berretto a sonagli, io ho trovato che la bellezza dell’allestimento che voi avete prodotto, sia consistita proprio nella contemporaneità che avete impresso all’opera. C’è stato un oltrepassare gli schemi tradizionali che si è rispecchiato in una fisicità e in un movimento che è, per certi versi, inconsueto rispetto ad altre rappresentazioni del Berretto a sonagli. E questi movimenti che, peraltro, credo siano stati anche difficoltosi da sostenere nella recitazione delle parti di entrambi i protagonisti (e nello stesso tempo ha reso una rappresentazione efficace del pupo siciliano) hanno contribuito perfettamente a rappresentare il perenne dualismo del teatro pirandelliano.
A questo proposito volevo chiedere cosa ha comportato, nel sostenere i vostri ruoli, aderire a quella visione di Pirandello per cui, da un lato, abbiamo un personaggio che esige che l’attore renda le mosse del suo animo e, dall’altro, un attore che cerca nello spessore del suo personaggio una rappresentazione vera.

EB:È molto complicato addentrarsi a parole intorno a questi discorsi perché si può dire tutto e il contrario di tutto; quello che posso dire, per me e per il mio personaggio, è che, allo stesso tempo, ne ho percepito sia la potenza sia la “gabbia”; e così, il movimento pian piano è venuto fuori anche da questo, cioè da movenze apparentemente normali che in realtà trattengono sempre o una passione interna o un’emozione compressa dall’esterno.
Il lavoro non è mai naturalistico nel senso di imitazione pura e semplice della quotidianità, e ciò lo si vede anche nei dialoghi con Ciampa: molto spesso siamo lontani  e quando ci avviciniamo è come l’avvicinarsi e l’allontanarsi di due satelliti diversi; e questo lo senti quasi più a livello fisico che mentale, come se, appunto, loro fossero dei pianeti che si incontrano e si scontrano, le cui atmosfere vanno in empatia o in contrasto…E poi, sì, sicuramente c’è l’elemento dei pupi: la necessità di mettere in rilievo quel punto di rottura dove la fluidità del nostro sentire diventa meccanica perché tutti noi dobbiamo in qualche modo soggiacere a degli impulsi o a dei doveri sociali e allo stesso tempo questi impulsi e questi doveri sociali ci servono da supporto e da prigione.
Io credo che le indicazioni di un grande drammaturgo abbiano questa doppia forza; sta poi all’attore trovare i punti dove far esplodere questa energia, perché si crea un effetto quasi di contrasto tra la propria natura, i limiti imposti dal drammaturgo e tutta la vita che fluisce in questo.

Immagine articolo Fucine MuteMi rendo conto che il discorso risulta complicato, ma veramente ci sono elementi di varie cose che rendono l’ambiguità dell’opera e il nostro tentativo era proprio quello di rendere questo stato.
Se tu leggi Pirandello, sembra già tutto lì, nel testo. Apparentemente. La grande trappola è che esso risulta scritto talmente bene che sembra quasi ti dica come devi dire le battute.
Lo sforzo è stato appunto quello di rileggerle dimenticando tutte le volte che avevamo visto le opere di Pirandello, dimenticando tutti gli allestimenti, dimenticando quello che avevamo imparato a scuola — senza dimenticarlo per davvero, ovviamente — tutte le nostre letture, eccetera, per provare a vedere ora cosa succedeva nel provare, nel risentire quelle mosse d’animo e che cosa succedeva a noi, qui.
Ecco, in definitiva questo è stato lo sforzo grandissimo. In quel momento ci siamo resi conto di quanto, inconsciamente, ci portiamo sempre dietro. è stata lo sforzo di consapevolezza, la cosa più difficile.

EV: Elena ha spiegato quasi tutto, ad ogni modo, delle volte accade che le persone vadano a vedere Pirandello — questo ce l’hanno detto gli spettatori — e siano delusi. Da un lato, portare in scena questo tipo di opere, costituisce per noi una forte attrattiva: fai  Pirandello e quindi arrivano grandi folle; però nello stesso tempo c’è un po’ di noia, “Ah, vado a vedere Pirandello” — come se fosse una cosa noiosa — mentre  il testo è assolutamente straordinario ancora adesso: è la polvere che gli hanno messo addosso, semmai, a renderlo noioso.
E questo discorso si riferisce più che altro alla recitazione poiché si parla, addirittura, negli ultimi venti, trent’anni, di “recitazione pirandelliana”, come se Pirandello avesse scritto quel tipo di recitazione che noi oggi vediamo nella maggior parte delle messinscene, se non in quelle più prestigiose dove, chiaramente, ci sono stati grandissimi attori, e su quest’ultime non c’è niente da dire: mi riferisco alla messinscena fatta da Edoardo o a quella di Randone (cito gli attori che hanno interpretato Ciampa poiché non si ricorda l’opera tanto per le regie quanto per chi impersonava il protagonista), che questa polvere non ce l’ha.
E, in definitiva, la questione cruciale è cercare di essere il più veri possibile, ovvero agire su quelle mosse d’animo di cui parlava Pirandello, cercare di essere e non di fare il personaggio.

Immagine articolo Fucine MutePer esempio, le indicazioni che Pirandello aveva dato a Musco per Ciampa sono un esempio lampante: egli aveva detto che non doveva essere un filosofo — cosa che spesso poi hanno fatto — ma un pazzo, cioè un personaggio che da un momento all’altro non si sa quando poteva colpire.
Ed è qui che io ha tratto la spinta, per quanto riguarda Ciampa, ma ciò vale per tutto: la chiave è questa fisicità molto forte, più forte forse che nelle altre messe in scene.

TC: E in effetti, sul Ciampa-filosofo, c’è da dire che è l’unico personaggio portatore di una teoria, per quanto spiazzante e paradossale, sulla personalità; mi riferisco alle tre corde che muovono l’agire umano, la corda civile, la corda seria, la corda della pazzia. A questo proposito vorrei che lei ci spiegasse che cosa ha significato cambiare il registro tradizionale perché, come ha detto lei, non si trattava di un filosofo, ma di un personaggio imprevedibile, come la vita e allora, ancora una volta, si ritorna al teatro nel teatro…Volevo appunto chiederle come ha lavorato concretamente sulla sua parte.

EV: Concretamente… È un po’ il metodo che usiamo noi, in generale, all’interno della compagnia: cercare di essere e non di fare questo personaggio. Cercare dall’interno, da se stessi, e far venir fuori la propria emozione, la propria pazzia.
Il fatto, per esempio, che Ciampa ogni tanto rida all’interno della rappresentazione: questa risata mi è servita per tirar fuori la sua interna scissione; da un momento all’altro, questa risata, chi sa dove porta? Alla fine porta al disastro totale, ultimo, dove praticamente Ciampa e Beatrice — almeno per come l’abbiamo visto noi — coincidono: sono tutti e due fuori e dentro nella stessa maniera.
Comunque, è un lavoro che ogni sera richiede una forza di immedesimazione: è uno sforzo fisico molto intenso, perché basta che pensi di ripetere le battute come hai fatto nella sera precedente, ed ecco che esce fuori quel filosofo, esce fuori la teorizzazione di Ciampa, una teorizzazione in fondo popolare.
Ciampa non è un grandissimo filosofo, è uno che viene dal popolo e che ha una teoria quasi “normale”, della gente comune. Teorizza, sì, la corda seria, la corda pazza, la corda civile, ma è cosa che teorizzano tutti: il problema è che quando lo si presenta in questa veste di filosofo, secondo me, si viene a perdere proprio l’uomo Ciampa, cioè l’uomo che soffre, mentre a volte sembra quasi che venga messo al di sopra delle parti. Ma, per me, no: lui è una persona che là dentro sta soffrendo come pazzi, e alla fine è pazzo quanto Beatrice.

Immagine articolo Fucine Mute

TC: Per quanto il tema dell’esser vero, rammento che lo stesso Pirandello scrisse, nel ’35, che ci sono dei momenti privilegiati nell’attore, in cui appunto egli diventa il personaggio, e in quei momenti gli si potrebbe dare una battuta improvvisata che lui continuerebbe per conto suo, perché vivrebbe con tale intensità la sua parte che gli risulterebbe imprescindibile questo tipo di azione. In particolare, vorrei parlare del personaggio di Beatrice, che incarna un tema tipicamente pirandelliano: quello del contrario. Beatrice rappresenta l’opposto del razionalismo maschile e cioè — come l’hanno definito — una sorta di “tribalismo femminile”: lei invece cosa ha cercato di ricreare nel suo personaggio? Ha esplorato questa via o è andata “oltre”? Cosa ha voluto imprimere in Beatrice? So che la vostra compagnia, che è una fusione di due compagnie, persegue il confronto e il rimettere in gioco, sera per sera, tutto ciò che un attore ha dato…

EB: Guarda, non si tratta tanto di andare “oltre”, ma di sforzarsi al massimo, di rendere un personaggio come solo tu lo puoi fare e di provare a sfuggire il desiderio — per insicurezza o per facilità di rifugiarsi nei cliché o nelle prime soluzioni che vengono — di ricalcare un prototipo. Si tratta di scavare il più possibile in profondità per vedere dove risuona quel personaggio, il che non vuol dire rimettere in scena se stessi, eh? Ma vuol dire farlo come lo possiamo fare in quanto attori o attrici, cioè con la propria esperienza e con l’essere qui e ora. Io credo allora che il lavoro assuma valore proprio in funzione di questo.
Su Beatrice, posso dire che è un personaggio controverso, perché può apparire come una rompiscatole — o almeno c’è nel testo, ad una prima lettura, quest’impressione! — perché ha un chiodo fisso e lo vuole risolvere; però quando si cominciano a vedere le sue motivazioni e quando si comincia a sentire che pian piano le crolla il mondo intorno, le crollano cioè tutte le cose sulle quali lei è saldamente poggiata (la famiglia, la serenità economica, tutto ciò che, appunto, sono stati i valori borghesi, e lo dico senza intento moralistico, né in un senso né in un altro), allora si percepisce il suo spessore.
C’è la tentazione, che un essere umano ha sempre, di costruire qualcosa che abbia le apparenze di eterno e questa sorta di bozzolo protettivo: tutto questo, ad un certo punto, non funziona più. Niente funziona più.

Immagine articolo Fucine MuteBeatrice comincia ad avere un dubbio enorme sul marito ma si trova circondata dall’ipocrisia e dal tentativo di nascondere tutto; e nel momento in cui si impunta, vuole andare fino in fondo e rompere tutto purchè venga fuori una qualsiasi verità, scopre che la verità in sé non esiste perché si scontra contro il comune sentire di un uomo diversissimo, di un’altra condizione sociale, che le fa vedere, nonostante ciò, un altro bagliore di verità.
Ecco allora che questa sua grande ricerca per far emergere i fatti può diventare ancora più rovinosa dell’altra scelta. Per questo noi lasciamo, anche nello spettacolo, una via aperta: perché non sappiamo lei dove vada a finire, quale sia la sua scelta finale. Può tornare indietro?
Ciampa dice: “Lei farà la pace con suo marito”. Ma io, ogni volta che lo sento dire in scena, penso: “No, lei non potrà mai più, non potrà mai più tornare indietro”. E il manicomio dove va a finire…Fuggirà? Sì, spiego tutto questo in termini molto semplici, perché in realtà il sentire teatrale ha mille implicazioni ma anche una sua intrinseca semplicità.
Io credo, per come l’abbiamo vissuto noi, che lei non possa più tornare indietro, poiché sa troppe cose: questa sua nuova consapevolezza — che non so quanto verrà accettata dalle persone che in lei hanno sempre e solo visto “un determinato tipo di Beatrice” e che l’hanno esortata fin da subito ad esser passiva (perché gli uomini si devono prendere in questo modo) — le ha aperto gli occhi.
Ogni frase può esser vista in un modo o nell’altro, perché da ciascun lato essa può esser vera. Il fatto che lei faccia un percorso, bruci le tappe che sono sì quelle della verità, delle corna, ma anche quelle della responsabilità (che si prende in quanto donna) di uscire fuori da degli schemi di comportamento sociale, cambia tutto. Una volta che lei è uscita fuori, come fa a tornare indietro? E allora si capisce pure che, a volte, le azioni dolorose per tutti, possono essere le uniche azioni — forse, punto interrogativo? — che danno una consapevolezza.
Ma queste sono tutte domande, punti interrogativi, appunto, perché ad esempio Ciampa la vede in tutt’altro modo.
Nello stesso tempo è proprio da questo confronto che essi appaiono vicini, magari con due ipotesi diverse, ma con il medesimo disincanto verso la realtà del quotidiano, dei meccanismi della famiglia, del sociale.
E credo che noi oggi siamo alle prese con lo stesso disincanto ma anche con l’impossibilità di vivere senza la costruzione di rapporti, senza provare a inventarci nuovi modi di relazionarci che non abbiano quel bisogno di ipocrisia e cristallizzazione che lo stesso Pirandello odiava: che non abbiano bisogno di ciò, ma che abbiano una base di autenticità da qualche parte.
Ripensando alla citazione che tu hai fatto, devo dire che Pirandello è una vicinanza molto fertile per un attore, perché le sue opere possiedono una cosa che, a me personalmente, piace molto: la continua sottolineatura della contraddizione.
Perciò, se tu lavori vicino ad un testo pirandelliano e rifletti su come l’autore amava e, allo stesso tempo, odiava gli attori — perché da un lato erano fonte di ispirazione ma dall’altro erano il limite e il tramite delle sue creazioni che lui sentiva già così vive nel momento in cui le immaginava —, capisci che in tutte queste contraddizioni si “acchiappa” il teatro, che non sai bene che cos’è, ma che tu ugualmente vai avanti a costruire. È uno scambio continuo di diverse entità e di differenti persone: da una parte il drammaturgo che fa teatro, s’ispira, scrive e poi ti ridà un qualche cosa e, dall’altra, l’attore che legge, trasforma e ti ridà qualcos’altro.
Da questi avvicinamenti progressivi, da questa costruzione di una sorta di “struttura”, a volte, ti capita di “acchiappare” la vita in teatro e ciò avviene in maniera così intensa da averne quasi un’illuminazione. Ma non è sempre detto che ciò ti accada.
Le contraddizioni che mette in campo Pirandello sono un grande stimolo, perché molto spesso oggi si è portati a voler stare sicuri, tranquilli e paghi di quel poco che si è riusciti a mettere insieme e, secondo me, questo è il grande pericolo di ogni fare, sia che s’intenda il teatro come arte, sia che lo si intenda  come artigianato.
Invece, la continua domanda pirandelliana è assolutamente fondamentale e vivificante, non è mai  frustrante.

Immagine articolo Fucine MuteEV: Come diceva lei, c’è quest’urlo finale, che delle volte è stato visto come Beatrice che acconsente (la invitano a urlare, Ciampa ride, e tutto è tornato in famiglia), ma non è così: quello è un urlo. È terrificante anche nel testo; è un terremoto che spesso ci accompagna durante lo spettacolo, in alcune scene: è un terremoto. E un terremoto fa crollare delle cose.
Perciò sicuramente qualcosa sarà cambiato. Non torna tutto normale. E infatti Ciampa fa urlare Beatrice, le fa gridare “Be”; ed è giusto quello che diceva Elena: non può tornare tutto in ordine, ogni cosa sarà cambiata, non ci sarà più quello che c’era prima.

TC : Sì, c’è l’urlo e poi c’è il segnale del campanello quando arriva un personaggio…

EV : Sì, abbiamo giocato molto su questo espediente, cioè sul fatto di usare la parola, e io ripetevo sempre “Suonano”…C’è questo campanello che suona, suona, suona in continuazione!
Abbiamo giocato un po’ anche con la musica: si sente una melodia, e quindi si sente il personaggio dire:“Suonano”.
C’è un rapporto sia sul fatto di giocare ironicamente, sia su questo continuo cambiamento dei piani attraverso una musica che rimanda ad altro: ti porta un personaggio, ti porta un cambiamento emotivo, vale a dire, c’è uno stretto vincolo tra la melodia e il fatto emozionale che essa provoca, infatti delle volte arriva un tango, altre ancora, Sostakovic (quando per esempio entra Campa), eccetera.
Già nella parola “Suonano” c’è, congiuntamente alla musica, l’immagine di ciò che arriverà dopo o che arriverà contemporaneamente…

EB : Sì, c’è questo microcosmo che è lì, chiuso nella casa e nella parola “Suonano”; c’è sempre qualche cosa che assedia, che arriva da fuori, che sconvolge…

EV : Si apre un mondo molto più vasto, molto più complesso.

EB : E anche in questo caso, potevamo tagliarlo — ne parlavamo appunto l’altro giorno —, si può benissimo scegliere di tagliare la parola “Suonano” come, ad esempio, abbiamo eliminato i mobili della casa borghese (son rimaste tre sedie, il pianoforte sul di dietro e poi la lavagna luminosa che crea le scenografie insieme alla luce).
Allora si può dire: eliminate anche “Suonano”, usate il campanello! Ma noi abbiamo detto di no. Che cosa rappresenta, per noi, il “Suonano”? Che cos’è questo “Suonano”? Perché?
Ed è proprio questo il punto. Viene detto nel testo e volutamente cambiano le cose: ogni arrivo, dopo il “Suonano”, cambia completamente l’atmosfera e l’andamento della scena.
C’è un’alternanza quasi matematica tra scene comiche o lievi e scene drammatiche, e tutto va poi a convergere in questa situazione, va a spalancare varchi, va ad aprire possibilità.

EV : E poi, ogni volta che “Suonano”, i personaggi sanno tutti sempre chi è. Sempre. Lei sa che è suo fratello, che è Ciampa, eccetera. Già dalla musica si sa chi arriverà dentro o chi, piano piano, arriverà dopo.

TC : E poi i personaggi non scompaiono mai, cioè non escono mai di scena ma sono sempre…

EV : Sì, perché abbiamo pensato a questo mondo che effettivamente guarda, sorveglia, scruta, vede quel che succede. C’è tutto un microcosmo dietro che veglia: sono tutti a guardare, proprio come effettivamente accadeva in un piccolo paese nei primi del Novecento, dove tutti sanno tutto di tutti. E qui noi l’abbiamo messo.

Immagine articolo Fucine Mute

EB : E a me viene questa curiosità, quando penso a Pirandello che dice che si potrebbe anche improvvisare: i personaggi, quando escono di scena, che fanno? Dove sono?
È come se continuassero in qualche modo a vivere, è come l’illusione che, anche se smettiamo di vestirne i panni, ci sia qualcosa di loro che continua a vivere, e allora è proprio come se prendesse corpo questa fantasia, quest’illusione.

EV : E ogni tanto, siccome noi siamo arrivarti già a duecento repliche, pensiamo proprio ad una vita, cioè c’immaginiamo Beatrice quand’era ragazza, i suoi rapporti col fratello (ride, ndr)… Potremmo fare altri dieci testi scritti da noi su tutto quello che è la vita di questi personaggi.

TC : Un’ultima domanda prima di lasciarvi andare: volevo chiedervi, visto che questo sodalizio è stato fortunato, avete avuto successo ed è stato colto dal pubblico tutto ciò che voi avete voluto imprimere nella vostra rappresentazione, se ci sarà un proseguimento nel futuro, c’è qualche progetto? A cosa state pensando?

EV : Noi abbiamo fatto questo lavoro sui tre classici che è partito col Berretto a sonagli, poi è proseguito con l’Anfitrione e infine è subentrato Il mercante di Venezia, di Shakespeare.
Sono spettacoli che ancora vanno in giro — ad esempio quest’anno abbiamo ripreso ancora Il mercante — e pensavamo di chiudere questa trilogia; poi abbiamo riflettuto che ci troviamo bene e che volevamo continuare, così l’abbiamo fatto, stavolta con un altro autore che è Goldoni e col quale abbiamo debuttato a novembre, con Le Smanie per la villeggiatura.
Lì abbiamo fatto invece un lavoro sull’attore. Il testo, sì, è quello che è. In particolar modo abbiamo lavorato sulle Smanie e sul gioco attoriale, perché siamo in quattro in scena e facciamo dodici personaggi; e questo è davvero un gioco bellissimo, in cui ci divertiamo da matti!

Immagine articolo Fucine MuteEB : E fino ad adesso si diverte anche il pubblico!
Avevamo infatti una grande paura: noi volevamo tornare a lavorare in quattro, anche perché, dopo tre produzioni con altri attori, viene voglia di tornare a lavorare su noi stessi, di ritrovare le nostre dinamiche, una freschezza di lavoro, e allora abbiamo detto: “Noi ci crediamo”, ma fino all’ultimo ci siamo chiesti: “Chissà se il pubblico riconosce i meccanismi?”. Invece,  — cosa che ci ha sorpreso molto — tutti i tipi di pubblico (estremamente variegato) di fronte al quale lo abbiamo presentato sono entrati perfettamente nella logica del nostro cambio di personaggio. Capiscono perfettamente che ci sono questi quattro attori che si trovano di fronte alle Smanie per la villeggiatura di volta in volta con più parti diverse e addirittura ci parlano di un personaggio e dell’altro come se non fossimo noi stessi a farli. Ci sentiamo dire: “Ma scusa, quando Vittoria fa così e invece Giacinta…” e noi rispondiamo:  “Ma sono sempre io!”.
Sono entrati perfettamente nelle dinamiche di gioco del teatro, e ci è piaciuta questa cosa, perché è un po’ come far entrare la gente (senza doverlo fare a parole o in maniera didattica o didascalica) nella consapevolezza di ciò che significa fare teatro.
Questo momento ci è sembrato molto importante,  perché mentre si sa moltissimo di cinema — per non parlare di televisione —, per il teatro è come se il pubblico pian piano perdesse memoria, perché non lo si trova quasi più quotidianamente nei giornali o nella televisione ma lo si deve andare a cercare. Non è presente.
Per questo ci ha divertito il fatto di vedere il pubblico intento a risolvere delle domande teatrali: e adesso come faranno? E alla fine, come risolvono? È stato un gran bel gioco, insomma, siamo molto contenti.

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