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Omnia

Con le armi della poesia

Spirito della televisione e nuovo fascismo

a Pier Paolo,
per un vuoto che non si colma

«L’Italia di oggi è distrutta esattamente come l’Italia del 1945. Anzi, certamente la distruzione è ancora più grave, perché non ci troviamo tra macerie, sia pur strazianti, di case e monumenti, ma tra ‘macerie di valori’: ‘valori’ umanistici e, quel che più importa, popolari. Come quelli del 1945 gli uomini di potere italiani — a causa non solo della distruzione che hanno operato, ma soprattutto a causa dell’abiezione dei fini e della stupida inconsapevolezza con cui hanno operato — sarebbero degni di un nuovo Piazzale Loreto. Che certo — fortunatamente e sfortunatamente — non ci sarà».
– Pier Paolo Pasolini –

«Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano; il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…»
– Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari

«Sotto il governo di un tutto repressivo, la libertà può diventare un potente strumento di dominio.»
– Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione

«Il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria — in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio (Marx) — e che quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggiore repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini. Infatti (è la battuta di uno dei protagonisti del mio prossimo film, tratto da De Sade e ambientato nella Repubblica di Salò): “In una società dove tutto è proibito, si può fare tutto: in una società dove è permesso qualcosa si può fare solo quel qualcosa”.»
– Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma

Immagine articolo Fucine MuteLa libertà in Italia, oggi più che mai, corre sul filo del rasoio: nel rovinare inarrestabile di ogni valore, in una società opulenta eppure con milioni di persone “che stanno a guardare”, al limite della sussistenza, l’assassinio della cultura sembra ormai perpetrato definitivamente.
Nel mondo del lavoro la via della raccomandazione, del clientelismo, della strumentale affiliazione partitica, di una mediocritas tutt’altro che aurea diventa sempre più l’unica transitabile; e la più esecrabile di tutte le virtù, l’astuzia bieca e senza scrupoli della volpe e del serpente, la radice profonda del successo.
Ecco il lato oscuro di una società in cui molti oggi cantano proditoriamente le «magnifiche sorti e progressive» della leibniziana “migliore Italia possibile”.

Ad ogni giornalista, ad ogni direttore d’azienda pubblica, ad ogni presentatore televisivo si potrebbe chiedere: chi ti ha messo lì? E da ognuno, o quasi, sarebbe lecito ottenere una risposta precisa e circostanziata: ma non la otterremo mai; anche se, pasolinianamente, “noi sappiamo”[1].
In un Paese democratico, compito dei partiti è coordinare ed organizzare i diversi poteri e le diverse funzioni dello Stato: non di scegliere la classe dirigente, che è divenuta così bieca creatura politica al servizio dei partiti e non illuminata e capace élite — selezionata esclusivamente in base al merito — per la gestione competente ed al più alto livello del bene collettivo.
Ma ora l’assassinio della cultura sembra ormai perpetrato definitivamente[2]: ora che la televisione è la via maestra della politica, della cultura (della cultura?), dei rapporti umani fittiziamente sbandierati per soldi sui palcoscenici dei nuovi giullari televisivi, che all’ombra raggelante del Potere fanno risuonare sinistramente i loro campanelli e i loro vocalizzi sull’abisso del nulla[3].

Immagine articolo Fucine MuteLà dove non ci sono più idee né ideologie, ma differenti gruppi di potere che si fronteggiano, prima litigando trivialmente, infine accordandosi proficuamente per i proprî egotismi, alla politica è da tempo (da sempre in Italia?) subentrata la sua forma corrotta e degradata, il politicismo.
Ritorna allora, oggi più che mai, nella sua luminosa violenza, la profezia agghiacciante degli Scritti corsari, dopo venticinque anni intatta nella limpidezza di un nuovo moderno “rasoio di Occam”: «Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio “uomo” che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.
La responsabilità della televisione in tutto questo è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.

Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano; il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…»[4]
E ancóra: «È in corso nel nostro paese, come ho detto, una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d’accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale, ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani. […] Di fatto, avveniva, invece, almeno a livello inconscio, un processo di laicizzazione, che consegnava le masse del centro-sud al potere dei mass-media e attraverso questi all’ideologia reale del potere: all’edonismo del potere consumistico.»[5]

Immagine articolo Fucine MuteIn Italia, è ormai indiscutibile la sostanziale continuità fra il regime fascista ed i partiti, che ne hanno ereditato — e per certi aspetti sapientemente perfezionato — il sistema totalitario e tentacolare — “mafioso” — di gestione del potere, introducendo l’uso della corruttela generalizzata e un bieco diabolico patto — fattuale se non istituzionale — con la grande criminalità organizzata per la spartizione del Paese[6].
Infatti, «L’Italia non è mai stata capace di esprimere una grande Destra. È questo probabilmente, il fatto determinante di tutta la sua storia recente. Ma non si tratta di una causa, bensì di un effetto. L’Italia non ha avuto una grande Destra perché non ha avuto una cultura capace di esprimerla. Essa ha potuto esprimere solo quella rozza, ridicola, feroce destra che è il fascismo. In tal senso il neo-fascismo parlamentare è la fedele continuazione del fascismo tradizionale. Senonché, nel frattempo, ogni forma di continuità storica si è spezzata. Lo “sviluppo”, pragmaticamente voluto dal Potere, si è istituito storicamente in una specie di epoché, che ha radicalmente “trasformato”, in pochi anni, il mondo italiano.

Tale salto “qualitativo” riguarda dunque sia i fascisti che gli antifascisti: si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo (il popolo) e di umanesimo cencioso (i ceti medi) da un’organizzazione culturale arcaica, all’organizzazione moderna della “cultura di massa”. La cosa, in realtà, è enorme: è un fenomeno, insisto, di “mutazione antropologica”. Soprattutto forse perché ciò ha mutato i caratteri necessari del Potere. La “cultura di massa”, per esempio, non può essere una cultura ecclesiastica, moralistica e patriottica: essa è infatti direttamente legata al consumo; che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare automaticamente un Potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbìe affini.»[7]

Ma «[…] oggi […] la funzione anti-culturale è stata assunta dai mass-media (i quali tuttavia fingono di amministrare e rispettare la cultura). L’epigrafe per questo capitolo della storia borghese l’ha scritta una volta per sempre Goering: “Quando sento parlare di cultura, tiro fuori la rivoltella”.»[8]

Il ruolo totalitario della televisione e del Potere che essa esprime (e di cui è espressione) — politico in primis — diventa performativo della forma mentis non meno che del modus vivendi specialmente riguardo ai risvolti più intimi dell’essere umano, brutalmente e disumanamente spostati dal ‘privato’ al ‘pubblico’, a cominciare dalla sessualità: «Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore. Insomma, la falsa liberalizzazione del benessere ha creato una situazione altrettanto e forse più insana, che quella dei tempi della povertà. Infatti: primo: libertà di una libertà sessuale “regalata” dal potere è una vera e propria generale nevrosi. La facilità ha creato l’ossessione; perché è una facilità “indotta” e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l’esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza. Protegge unicamente la coppia (non solo, naturalmente, matrimoniale): e la coppia ha finito dunque col diventare una condizione parossistica, anziché diventare segno di libertà e felicità (com’era nelle speranze democratiche). […] In compenso l’enorme maggioranza (la massa: cinquanta milioni di italiani) è divenuta di una intolleranza così rozza, violenta e infame, come non è certo mai successo nella storia italiana.»[9]

Immagine articolo Fucine Mute

In effetti, «[…] il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria — in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio (Marx) — e […] quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggiore repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini.
Infatti (è la battuta di uno dei protagonisti del mio prossimo film, tratto da De Sade e ambientato nella Repubblica di Salò): “In una società dove tutto è proibito, si può fare tutto: in una società dove è permesso qualcosa si può fare solo quel qualcosa”. […]

Intanto, ciò avviene in funzione dell’edonismo consumista (per adoperare parole ormai “franche”, poco più che sigle): cosa che accentua fino all’estremo limite il momento sociale del coito. Inoltre ne impone l’obbligo: chi non è in coppia non è un uomo moderno, come chi non beve Petrus o Cynar. E poi impone una precocità necrotizzante. Bambini e bambine appena puberi — dentro lo spazio obbligato della permissività che rende la normalità parossistica — hanno un’esperienza del sesso che toglie loro ogni tensione nello stesso campo sessuale, e, negli altri campi, ogni possibilità di sublimazione. Si direbbe che le società repressive (come diceva un ridicolo slogan fascista) avevano bisogno di soldati, e inoltre di santi e di artisti: mentre la società permissiva non ha bisogno che di consumatori. Al di fuori, comunque, di quel “qualcosa”, che la società permissiva permette, tutto è ripiombato — a scorno degli ideali progressisti e della lotta dal basso — nell’inferno del non permesso. […]

Immagine articolo Fucine Mute

Il nuovo potere consumistico e permissivo si è valso proprio delle nostre conquiste mentali di laici, di illuministi, di razionalisti, per costruire la propria impalcatura di falso laicismo, di falso illuminismo, di falsa razionalità. Si è valso delle nostre sconsacrazioni per liberarsi di un passato che, con tutte le sue atroci e idiote consacrazioni, non gli serviva più.
In compenso però tale nuovo potere ha portato al limite massimo la sua unica possibile sacralità: la sacralità del consumo come rito, e, naturalmente, della merce come feticcio. Nulla più osta a tutto questo. Il nuovo potere non ha più nessun interesse, o necessità, a mascherare con Religioni, Ideali e cose del genere, ciò che Marx aveva smascherato.
Come polli d’allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere: tale è la forza di attrazione e di convinzione della nuova qualità di vita che il potere promette, e tale è, insieme, la forza degli strumenti di comunicazione (specie la televisione) di cui il potere dispone. Come polli d’allevamento, gli italiani hanno indi accettato la nuova sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo.

Immagine articolo Fucine MuteIn questo contesto, i nostri vecchi argomenti di laici, illuministi, razionalisti, non solo sono spuntati e inutili, ma, anzi, fanno il gioco del potere. Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori. E del resto è ciò che si dice far piovere sul bagnato. I nuovi italiani non sanno che farsene della sacralità, sono tutti, pragmaticamente, se non ancora nella coscienza, modernissimi; e quanto a sentimento, tendono rapidamente a liberarsene. »[10]

Che altro si potrebbe aggiungere? se non, con Marcuse, che «Sotto il governo di un tutto repressivo, la libertà può diventare un potente strumento di dominio».

Testo tratto da “Nuove Lettere” – Rivista Internazionale di Poesia e Letteratura, anno XI, n. 12, marzo 2002. Per gentile concessione dell’autore, Roberto Pasanisi.


Note


[1] Cfr.14 novembre 1974. Il romanzo delle stragi (Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Epoca!, 1988 [1975], p. 74-78).


[2] Cfr. Manuela Campari, Muti: “Stanno uccidendo la cultura”. Severo atto d’accusa contro l’indifferenza dei governi e contro la Rai: “Così si arriva alla dittatura”, “la Republica”, 11/VII/1995, p. 1; L’Abbado furioso: «Alla musica l’Italia preferisce le sfilate di moda». Direttori d’assalto, “Il Mattino”, 18/IX/1995, p. 10; e Donatella Longobardi, Bussotti: «Lascio l’Italia, qui non si rispetta la musica». Il musicista stasera a Capua esegue in anteprima le sue nuove composizioni, “Il Mattino”, 29/IX/1995, p. 15. Cfr. pure, più in generale, Riccardo Chiaberge, Cervelli d’Italia. Scuola, scienza, cultura: le vere emergenze del Paese, Milano, Sperling e Kupfer Editori, 1996, pp. 5-8; Sergio Romano, Prefazione a Chiaberge, Cervelli…, cit., pp. IX-XV passim; Luigi Caramiello, Malauniversità: quando il sapere diventa mercato. Che genere di prove si devono superare negli Atenei italiani? A leggere le cronache, di tipo diverso da quelle accademiche, “Il Mattino”, 11/VII/1998, p. 14. Cfr. infine, sulle medesime tonalità, Aldo Masullo, Il mio dissenso circa il ddl sui concorsi universitari, “la Repubblica”, 9/VIII/1998, p. 10; Marco Federighi, Il sistema inglese, “la Repubblica”, 9/VIII/1998, p. 10; Romeo Bassoli, La fuga dei cervelli. Nessuno investe sugli scienziati. I ricercatori italiani vanno in cerca di fortuna all’estero: da noi non c’è sbocco, né possibilità di continuare gli studi, “Il Mattino”, 25/XI/1998, p. 13; e Salvatore M. Aloj, E l’Italia come va? Male, grazie. Ricerca scientifica. All’ultimo posto tra i G7 per pubblicazioni scientifiche, per scarsità di ricercatori e di investimenti. Ma non basta aumentare i fondi…, “Il Mattino”, 12/XI/1997, p. 16.


[3] Cfr. Alle strette le tre signore della tele-truffa. E il Financial Times: la Venier, stile da mercato del pesce. Perquisizioni nelle città delle supervincitrici. Taormina: s’indaghi anche in RAI, “Il Mattino”, 17/IV/1997, p. 9; e Barbara Caputo, Televisione, l’essere e il nulla. Intervista a Sgalambro. Altro che «cattiva maestra»: il filosofo catanese chiarisce il ruolo nichilista del medium, “Il Mattino”, 31/XII/1997, p. 17.


[4] Pasolini, Scritti…, cit., p. 24.


[5] Pasolini, Scritti…, cit., p. 90.


[6] Come scrive Calise, «un chiaro confronto tra l’Italia e i sistemi delle altre democrazie occidentali — Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania —, […] illumina il rapporto tra stato, governo e partiti. Da garanzia di controllo democratico, la partitocrazia italiana si è trasformata in consociazione di una élite separata dal paese. Ma per cambiare, non sono sufficienti né la retorica della riforma, né il passaggio dalla cultura di partito a quelle aziendalistiche del tipo recentemente proposto, che comunicano attraverso semplificazioni plebiscitarie. È necessario tornare a una concreta valutazione delle istituzioni, nella consapevolezza che “senza identità nazionale non esiste democrazia dei cittadini che regga”.» (Mauro Calise, Dopo la partitocrazia. L’Italia tra modelli e realtà, Torino, Einaudi, 1994, IV di cop.). Per una più ampia prospettiva storiografica, cfr. Simona Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1994). Il quadro, dunque, resta assai fosco, nell’àmbito di una ‘seconda repubblica’ che non è mai nata — né, viste le premesse, nascerà mai. La sostanziale continuità, sotto molti aspetti, del regime partitocratico con quello fascista, già antesignanamente rilevata, appunto, da Pasolini negli Scritti corsari, è in effetti ben chiaro: «I due partiti popolari che si sono contese le spoglie dell’amministrazione centrale e periferica dell’Italia repubblicana hanno trovato scarse resistenze. Al tempo stesso hanno potuto fruire di un modello di organizzazione statale già preesistente e in parte addirittura già omologato ai principî della massificazione del ventennio fascista (Morlino). Tutto ciò ha contribuito all’intreccio tra macchina di partito e dello stato che ha reso eccezionale la forza della partitocrazia italiana, come sarà eccezionale la sua crisi» (Calise, Dopo…, cit., p. 145).


[7] Pasolini, Scritti…, cit., pp. 36-37.


[8] Pasolini, Scritti…, cit., p. 81.


[9] Pasolini, Scritti…, cit., p. 83.


[10] Pasolini, Scritti…, cit., pp. 102-105 passim.

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