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Palcoscenico

Armamaxa

Braccianti. La memoria che resta

Immagine articolo Fucine MuteFabrizio Maurel (FM): Vorrei sentire due parole veloci e leggere sulla nascita del gruppo, e sul vostro curioso nome…

Armamaxa (A): Il nostro è un gruppo che raccoglie tre individui, Enrico Messina, Micaela Sapienza e Alberto Nicolino che al momento non è qui perché non fa questo spettacolo e che è nato per cercare di mettere insieme le forze di tre artisti che singolarmente facevano più fatica a lavorare. L’idea di Armamaxa nasce nel 1998 attorno ad uno spettacolo che si chiamava Hruodlandus — Libera Rotolata Medioevale. Armamaxa vuol dire carretto, ed è un nome che evoca molte altre cose, a noi piace giocare con il suono delle parole, e pensare che sul carretto ci possa salire anche qualcun altro. Il carretto è una vettura scoperta che serviva a trasportare uomini, anziani e bambini a Romax(?), in un latino mutuato dal persiano. Queste sono parole, alla fine quello che conta è che noi siamo gli Armamaxa… e anche se tutti ci chiamano maramaxa, aramaxa, o marmamax, noi continueremo a chiamarci Armamaxa in ogni caso e basta.

FM: Una domanda per così dire “semplice”: pensieri e parole sul rapporto fra istituzioni e teatro…

A: Sicuramente noi siamo un gruppo assolutamente invisibile, e il rapporto con il mondo istituzionale del teatro è praticamente nullo, ma non è una nostra volontà a priori: credo che nei teatri bisogna andarci ma senza far loro la corte. Evidentemente ci sono dei luoghi dove a noi è precluso l’accesso, perché non abbiamo materiali da scambiare, noi portiamo il nostro spettacolo e non abbiamo da comprare; il sistema del teatro è un po’ complesso. Quindi nonostante lo spettacolo faccia diverse repliche — siamo stati a Sant’Arcangelo e Volterra -, e ci sia alle spalle questo progetto che per noi è enorme, cioè Braccianti. La memoria che resta, facciamo dieci o quindici date l’anno che dal nostro punto di vista sono tantissime, ma da quello del Teatro istituzionale sono pochissime. Credo che mantenere una certa libertà dal ministero, dalle istituzioni, ci consenta di vivere meglio e di fare le cose che amiamo. Però ripeto non bisogna rinunciare a priori, vedi ad esempio la stagione di Monfalcone, che è fuori dalla norma dei soliti teatri istituzionali, hanno visto lo spettacolo e lo hanno imposto all’E.R.T. (Ente regionale Teatrale del Friuli Venezia-Giulia, ndr).
Noi siamo una compagnia che non conviene prendere in questo momento perché non avendo riconoscimenti ministeriali non serviamo per la compilazione dei borderoux, quindi puoi capire che siamo come dei fagioli in una pentola di pesce, insomma non ci azzecchiamo nulla. Eppure qui a Monfalcone c’è un gruppo di persone che lavora bene, da Roberta Sodomaco a Luca Signorini, tutti quelli del comune e Luisa Vermiglio. Qui, come in altri posti, hanno capito che questo non è solo uno spettacolo, ma è un progetto: quando ci si rende conto che ti prendono per tutto il progetto in sé ti si apre il cuore, mentre ci sono delle realtà istituzionali e anche non, che ti comprano lo spettacolo, trattano sul prezzo senza minimamente interessarsi a tutto il lavoro che sta dietro, alla ricerca, alle motivazioni…

Immagine articolo Fucine Mute

Vorrei aggiungere una cosa sulla parola comprare, è una parola pericolosissima nel teatro, però è un equivoco che bisogna chiarire, le persone che fanno teatro devono campare, quindi è lecito vendere uno spettacolo, non è lecito venderlo sempre e comunque e cioè svenderlo, questo per noi è abbastanza importante, però ripeto è lecito che sia venduto e comprato perché viviamo in questo mondo e non è che possiamo arrampicarci sulla luna. Ecco perché vogliamo essere liberi di scegliere dove, come e quando farlo, anche gratuitamente perché no se la situazione lo merita, oppure di non farlo anche se pagati a prezzo pieno.

FM: Il teatro è ancora un luogo d’incontro? La ricerca di un pubblico vivente… i sensi dell’attore… parlatemi di Braccianti

A: Senza il pubblico non si può fare teatro. Ci piace pensare che quando facciamo uno spettacolo almeno in una persona del pubblico si muova una domanda, se questo avviene possiamo dire che abbiamo raggiunto un senso del nostro teatro.
La cosa che manca oggi è che il teatro non è più una necessità; il pubblico non va a teatro perché ne ha bisogno, il teatro non è più il luogo della catarsi del dramma collettivo. Il teatro ormai è il luogo dello svago, dove si va a vedere l’attore famoso, l’attore della televisione. Penso che questo sia il teatro morto, e non lo dico io, lo diceva già Peter Brook parlando di teatro mortale, il teatro che ti ammazza, il teatro della facciata, del costume, della luce, delle scenografie, delle cose… e l’attore non c’è, ovvero non c’è l’uomo. Noi allora proviamo, nel nostro piccolo, a metterci la nostra carne, a metterci in gioco, e probabilmente almeno una persona del pubblico, ogni volta, sente questa cosa.
Se lo spettatore si fa una domanda, se si mette in gioco, anche se indossa la pelliccia forse è valsa la pena di fare lo spettacolo…

Il teatro diventa un mezzo di comunicazione incredibile se il pubblico è un gruppo di 250-300 studenti dell’istituto professionale della Val Trompia in provincia di Brescia. Abbiamo appena fatto pochi giorni fa questo spettacolo per questa scolaresca infinita, che è entrata facendo la ola dello stadio: li hanno fatti entrare come delle bestie, e ci hanno detto fate voi, vedete voi, siete in pasto alle bestie; buona fortuna. Questi ragazzi non erano assolutamente abituati ad andare a teatro, a parte qualche rara eccezione, e il loro unico modo di comunicare era il coro da stadio, gli ammiccamenti, i rumori. Noi ci siamo guardati, e la prima cosa che abbiamo pensato, è che dovevamo dar loro un buon motivo per restare qui un’ora ad ascoltarci, senza dire: “ragazzi state buoni, zitti, il primo che parla va fuori”. Sarebbe stato inutile. Abbiamo fatto una chiacchierata di dieci minuti, e all’inizio c’è stato un po’ di brusio, dopo di che ce li siamo presi per un’ora, e in questi ragazzi c’è stato un silenzio incredibile, è stata un’esperienza notevole, per un’ora i ragazzi sono rimasti là, sospesi, ad ascoltare storie di vecchi, di anziani, storie che se si prende in mano un manuale storico, e si sfoglia la storia del bracciantato dall’origine ai giorni nostri, ci si spara un colpo, e la si considera un noia mortale…

Immagine articolo Fucine Mute

Il teatro per ragazzi, viene proprio a fagiolo per il discorso sul pubblico… Di solito il teatro per ragazzi è quello che fa più male di tutti, è fatto per tutti tranne che per i ragazzi. Io ne ho fatto molto, una volta ho fatto uno spettacolo per 850 bambini che andavano dalla prima elementare alla terza media, a Palermo: quel giorno avrei voluto morire, essere in tutte le parti del mondo fuorché lì, perché ero a prendere in giro delle persone, i ragazzi sono delle persone, alle quali purtroppo molte volte viene destinato un teatro fatto solo per accaparrarsi fondi e spartirsi territori.
Se si cominciasse dalle compagnie che fanno il teatro per ragazzi, che sono le compagnie di base, quelle che muovono il teatro, allora forse la ricerca, il teatro in generale, andrebbe avanti e crescerebbe, e non si troverebbe nella crisi in cui versa adesso in un momento in cui c’è bisogno sempre e per forza di trovare un fenomeno per dire che il teatro è vivo.

Uno degli uomini che ci ha raccontato, direttamente o indirettamente queste storie dei braccianti, ci ha seguito fino a Rubiera, in Emilia Romagna, e ha detto a noi e al pubblico che il mestiere del bracciante è un mestiere di galantuomini. Sentirlo dire da lui è stata una cosa bella, molto forte, ed è proprio questo lo spirito che noi abbiamo portato nella costruzione di “ Braccianti “, di questo nostro lavoro. È uno spirito che emerge proprio dalle loro parole, dalla leggerezza con cui loro raccontano delle loro vessazioni, delle loro umiliazioni, le stesse che poi stanno vivendo ancora adesso quelli che fanno il loro lavoro nei campi da noi e nelle altre parti d’Italia.

Sentir parlare un vecchio, che è morto, e di cui è rimasta solo la voce, che dice: “Povero a chi capitava la frusta, perché faceva più male di tutto” per poi ridere di questo, a noi ha offerto la chiave di lettura per affrontare l’argomento parlandone con pulizia e con leggerezza. Abbiamo pensato che in questo modo avremmo dato più peso all’argomento: evidentemente questa è una scelta politica, nel senso più alto che si può immaginare, perché altrimenti non ha senso fare teatro, io non trovo altre ragioni, se non quelle di gridare al mondo le mie piccole piccolissime necessità e urgenze, sperando che qualcuno mi ascolti. Io appartengo ad una generazione di cui non sono tanto fiero, una generazione in cui l’ideale, la collettività si è completamente perduto; io nell’85 facevo il secondo liceo e scioperavo per i termosifoni(!). Penso che in tutti i lavori che si fanno bisogna recuperare un po’ il senso di stare nella società, e in questo senso ci vuole un’etica politica. È ciò che abbiamo messo dentro lo spettacolo e che diventa anche una scelta estetica, nel senso che quella leggerezza che ci hanno trasmesso loro, nel modo di parlare, nei volti delle fotografie viste o delle persone incontrate, abbiamo scelto di metterla in scena. Allora abbiamo fatto un percorso nel quale era necessario scegliere cosa togliere, cosa non raccontare e farlo è stato difficile perché avevamo una quantità di materiale infinito, sia di storie che di foto di voci di suoni, per cui poteva diventare uno spettacolo barocchissimo, Invece abbiamo tolto proprio per arrivare all’essenzialità, alla leggerezza, a quel telo che c’è in scena, attraverso la sperimentazione e la sfida abbiamo scelto di raccontare una storia attraverso il corpo e la parola, anche il corpo può raccontare una storia uscendo dagli schemi di un teatro-danza o di un teatro solamente narrativo. Ci siamo imbarcati in questa sfida, provando ad unire questi due linguaggi così diversi, ma alla fine così fusi nel raccontare la stessa storia, perché alla fine la storia che racconti è una sola.

Immagine articolo Fucine Mute

Vorrei aggiungere un appunto, che mi è venuto in mente solo adesso, sulla questione del teatro, perché è vero che c’è del marcio in Danimarca, però è anche vero che noi abbiamo avuto la fortuna di incontrare alcune persone come Federico Toni e Marco Tamarri. Federico Toni fa una rassegna che si chiama Tracce di teatro d’autore, in sette comuni della provincia di Bologna; è una delle più importanti rassegne che ci sono in Italia. Marco Tamari è stato per molto tempo l’insostituibile dirigente dell’ufficio cultura di Bologna, ha dato da lavorare a decine e decine di persone di teatro, per cui sotto la coperta marcia ci sono delle cose che fanno vivere il teatro, e se ci mettiamo in rete, noi, voi, loro, allora qualcosa si può fare, se invece stiamo dentro a quei meccanismi di cui parlavamo prima, allora arrivederci e grazie…

Del progetto Braccianti possiamo dire che queste persone lo hanno accolto fin da subito, ancor prima che nascesse sulla carta, hanno creduto al nostro lavoro, quindi l’idea di investire su un progetto e non quella di comprare uno spettacolino, o finanziare uno spettacolo che funziona; è la dimostrazione che c’è ancora qualcuno in giro che ama il teatro e vuole prendersi dei rischi.

FM: Ancora una domanda su Braccianti. La memoria che resta. La memoria, proprio in un’arte come il teatro, che vive di istanti gettati nel tempo. La memoria che resta, che rimane, cos’è e cosa vuole fare di questo arto invisibile che è dentro ad ogni uomo…

A: Ci sono due cose bellissime che ho letto e che mi ritornano sempre in mente: la prima dice: “Noi siamo ciò che ricordiamo e ciò che dimentichiamo”, e siccome noi italiani dimentichiamo tanto in generale, penso che c’è un grande bisogno di memoria, proprio come il pane quotidiano; la seconda è una frase del quaderno 34 del Centro di Formazione sindacale della Camera del Lavoro di Torino, e dice che lavorare sulla memoria non ha senso quando si scoprono cose antiche che sono belle ma che si mettono in biblioteca, ha senso invece quando si contribuisce a creare uomini e fatti nuovi.
Il nostro lavoro finisce con un’immagine che è un po’ forzata, ma è volutamente forzata, ed è la fotografia di un bracciante marocchino che adesso raccoglie i pomodori, e che segue quelle di tanti braccianti italiani. È questo lavorare sulla memoria.

Immagine articolo Fucine Mute

Braccianti viaggia nel passato, nella fatica di quando si lavorava “da sole a sole”… fino a squarci odierni, a quei nuovi braccianti “a colori”, venuti dalla miseria di altre parti del mondo.

Nello spazio vuoto del palcoscenico poche sedie e, sul fondo, un grande velo bianco dove sono proiettate immagini che prendono vita dai gesti degli interpreti: volti, mani, stalle, strade, campi, vigne, povere stanze dove il ritratto di Giuseppe Di Vittorio, l’uomo che fece della lotta contadina il proprio credo, affianca una grande icona di Cristo. E la terra, quella terra che inghiotte e prosciuga le forze, torna nelle voci, nei racconti, nelle parole dei testimoni di allora.

Un paesaggio umano dal quale emergono gli attori, che da narratori si trasformano in dettagli, in elementi che evocano l’emozione di un mondo, ad aprire la porta della riflessione su quello che siamo, sul passato che ci portiamo denso o negato dentro.


Braccianti. La memoria che resta
liberamente ispirato a “La memoria che resta. Vissuto quotidiano, mito e storia dei braccianti del basso Tavoliere” a cura di G. Rinaldi e P. Sobrero.


Di e con:
Enrico Messina, Micaela Sapienza

Disegno/Luci:
Francesco Collinelli

Progetto e coordinamento:
Enrico Messina, Federico Toni, Giovanni Rinaldi

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