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Cinema

Tre conflitti, tre film

Full metal jacket, No man’s land e Osama

Premessa

Immagine articolo Fucine MuteNel confrontare Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, No Man’s Land di Danis Tanovic e Osama di Siddiq Barmak, ritengo indispensabile una premessa. L’accostamento che propongo tra questi tre film si riferisce esclusivamente ai contenuti di cui si fanno portatori. Non voglio nemmeno tentare un confronto dal punto di vista della tecnica o della qualità strutturale e formale. Sarebbe illogico avanzare un paragone sotto tale prospettiva, perché si tratta di tre registi provenienti da culture differenti, con esperienze professionali diverse e, soprattutto, dotati di mezzi economici e di risorse del tutto sproporzionati.
Proprio queste differenze, d’altra parte, rendono ancor più saliente la scoperta di punti in comune, di visioni condivise della realtà della guerra.

Si tratta di tre conflitti lontani tra loro, con radici ideologiche diverse e scaturiti da problematiche nazionali e internazionali che, sebbene a un’attenta analisi geopolitica mostrino notevoli zone di contatto, non sono immediatamente riconducibili a una visione comune.
Kubrick mostra un Vietnam cinematograficamente inusuale, un Vietnam descritto attraverso ambientazioni urbane invece che attraverso giungle selvagge, rendendolo in questo modo metafora della realtà della guerra in generale.
Tanovic a sua volta presenta una situazione che non vuole essere archetipica della guerra civile jugoslava, ma che, al contrario, potrebbe verificarsi in qualsiasi conflitto: lo stallo di due nemici che si trovano a dover affrontare insieme la medesima difficoltà.
Osama, più che un film bellico, è un film di condanna a un regime e, in tal modo, un film sulla libertà, ma mostra anche un Paese completamente distrutto e piegato da una guerra civile decennale. Si vedrà come, tuttavia, il punto di contatto finale dei tre film sia proprio l’idea dell’essere umano come deprivato della propria libertà.

Al di là di questo discorso, si tratta di tre film belli, girati complessivamente bene. Certamente No Man’s Land presenta, a livello di sceneggiatura, delle ingenuità o delle forzature sulla sospensione della realtà richiesta allo spettatore (per esempio nel finale, quando il soldato sdraiato sulla mina viene lasciato lì, senza neanche una parola, e nessuno se ne accorge), mentre Osama può risultare ellittico in alcuni passaggi (forse per provocazione?), ma queste debolezze nulla tolgono alla pertinenza del paragone con Kubrick, perché tutti e tre i film riescono nel proprio intento, e soprattutto perché in tutti e tre i film l’effetto di drammaticità e lo sdegno della condanna, variamente ottenuti, sono fortissimi.

Incontro/scontro con il diverso

Immagine articolo Fucine MuteUna prima, banale constatazione è che i tre film parlano del diverso, inteso come diversità culturale, come incontro tra portatori di valori o di culture differenti.
In Full Metal Jacket, a una rappresentazione inizialmente manichea (volutamente paradossale) del nemico, si sostituisce la rappresentazione del nemico come simile (o quanto meno come similmente disperato: si pensi al cecchino che si rivela essere una bambina) e anzi come simile desiderabile (le prostitute vietnamite di Saigon).
Il diverso, però, è soprattutto il soldato “Palla di lardo” (più facile ricordarlo così). Egli rappresenta infatti il milite debole in un plotone che deve invece essere omogeneo, uniforme: è l’emblema dell’individualità che soccombe al gruppo. Tutti i camerati, infatti, entrano uomini, con le loro peculiarità, i loro sogni e i loro bisogni, e ne escono soldati, inevitabilmente uguali e ugualmente assassini. Palla di lardo muore in questo sforzo, nello sforzo di uniformarsi allo standard richiesto, nello sforzo di diventare un elemento (non necessario ma numericamente utile, ricordiamolo sempre) del gruppo. Terribile in questo senso la scena in cui viene immobilizzato e picchiato da tutti i compagni, come punizione a una trasgressione (l’aver mangiato una ciambella di troppo) che aveva minato la sicurezza dell’intero plotone.

In No Man’s Land la rappresentazione dell’incontro tra realtà culturali diverse è trattata in modo quasi documentaristico. Conosciamo i due soldati prima dell’azione, vediamo come sono prima che un destino beffardo li costringa all’incontro, ne osserviamo le paure, il cinismo, l’amarezza di chi viene da una terra bruciata ed è spinto avanti solo dalla rabbia e dall’impossibilità di fare altrimenti.
Poi li vediamo insieme, e ci rendiamo conto con loro che l’unica ragione dello scontro rimane l’odio. Non quello suscitato dalla diversità, quanto quello che deriva dalla vendetta, dalla necessità di sfogare la rabbia per la distruzione di cui entrambi sono stati testimoni e vittime. La rabbia, insomma, che cerca un colpevole. La scena in cui, bombardati dai loro stessi eserciti, Chiki e Nino si rifugiano vicini nella trincea è emblematica: scoprono di avere un background culturale comune, di avere radici nella stessa terra, di aver persino amato la stessa donna. In quel momento di comunanza si puntano il fucile addosso, ma al contempo lo spettatore sa che non potranno sparare, perché non c’è differenza tra loro, perché sono uguali e si riconoscono tali: la spirale dell’odio si è spezzata e la situazione li obbliga a rispettarsi. Si minacciano a vicenda con il fucile come in un gioco di bambini: non possono sparare perché hanno perso la protezione dell’anonimato e della mancata consapevolezza dell’identità altrui. L’uno per l’altro non sono più solo bersagli in lontananza: sono diventati persone, individui portatori di una storia comune.

Il film, tuttavia, si esaurisce in un climax di tensione mortale. L’elemento scatenante di questo climax è il tradimento del rapporto di parità e di mutuo aiuto che si era creato tra i protagonisti: quando le forze dell’ONU offrono ai due la possibilità di salvarsi, lasciando l’altro bosniaco, Cera, sulla mina, Chiki si rifiuta di abbandonare l’amico, mentre Nino accetta l’offerta. In questo modo Nino si erge da prigioniero a liberato, ed è pronto a voltare le spalle agli altri due prigionieri — una possibilità che ovviamente non può essere tollerata da Chiki, il quale lo ferisce.
A questo punto non si tratta più di un problema culturale, ma di semplice vendetta. I due prendono a odiarsi non perché rappresentino valori differenti, ma semplicemente perché si accusano reciprocamente del dolore che provano. In questo modo Tanovic riesce a mostrare, su piccola scala, lo sviluppo di un conflitto come quello che ha segnato l’ex-Jugoslavia.

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In Osama viene rappresentato uno scontro ideologico e culturale: quella dei talebani sui civili è infatti una prevaricazione volta a imporre un modello di comportamento. Come in Full Metal Jacket, anche in Osama viene rappresentata una “scuola dell’uniformità”: non si tratta più della caserma, ma della scuola coranica. Qui il pensiero individuale viene stroncato e rimpiazzato da un modello che deve essere comune a tutti, qui viene eliminata la diversità.
Il conflitto, però, si spinge oltre: non si tratta solo di uno scontro culturale, bensì di uno scontro per il potere. Come nella caserma il potere è rappresentato dal rigido sistema gerarchico, così l’imposizione al popolo della liturgia integralista islamica non è altro che la manifestazione del potere del vinto sul vincitore.
Impossibile non pensare a “1984” di George Orwell, in cui il potere ha esattamente le stesse caratteristiche del regime taliban o della gerarchia militare: fedeltà cieca e assoluta, disciplina ferrea, ogni deviazione punita severamente; uniformità di comportamento e di credenza, controllo sociale elevatissimo, creazione di un “altro” da considerare come nemico ideologico.

I tre film denunciano dunque l’incapacità degli uomini di integrarsi mantenendo la propria cifra personale, di creare gerarchie basate sul rispetto dell’individualità e sul riconoscimento dell’altro in quanto essere unico, di risolvere i conflitti in modo civile e pacifico. Per estensione, i tre film mostrano quanto ancora siamo lontani dalla democrazia, visto che una qualsiasi società democratica può trasformarsi nell’arco di pochi mesi in una fucina del terrore (l’ex-Jugoslavia) e che permettiamo l’esistenza, nel seno della società democratica, di strutture assolutamente anti-democratiche come l’esercito.

Il problema dell’istituzione

Immagine articolo Fucine MuteQuanto appena rilevato porta a riflettere sulle rappresentazioni date delle istituzioni. In Full Metal Jacket e in Osama risulta totalmente evidente: l’istituzione si contrappone all’individuo. In No Man’s Land la medesima conclusione è meno lapalissiana, ma comunque facilmente deducibile: sia il raggruppamento dei singoli in eserciti sia la lentezza burocratica dei sistemi politici fanno sì che il conflitto si protragga nel tempo, sviluppando conseguenze che sarà sempre più difficile risanare.
Ancora una volta è allora calzante il paragone con l’opera di Orwell: l’istituzione plagia e inganna l’individuo, e non può fare altrimenti. Se “Animal factory” è la metafora perfetta della degenerazione del comunismo prima in culto della personalità, quindi in partitocrazia, e mostra quanto i sistemi umani siano imperfetti anche se animati dai più nobili ideali, così i film in esame dipingono il sistema già marcio, già infettato dall’interno, già deteriorato. Come in “1984”, non solo i sistemi umani consentono al diverso una sola scelta, quella tra morire o lasciarsi plagiare, ma addirittura il potere dell’istituzione è tale da assorbire gli effetti di qualsiasi deviazione. Sono gli stessi membri dell’istituzione a schiacciare l’insubordinazione: lo si vede in Full Metal Jacket, con l’episodio già richiamato del pestaggio collettivo ai danni di Palla di lardo; lo si vede in Osama, quando i ragazzini della scuola coranica rincorrono tutti insieme Maria per infilarle il burka; e lo si vede anche in No Man’s Land, dove l’iniziativa pacificatrice del tenente dell’UNPROFOR viene immediatamente condannata e schiacciata dai superiori.

Il buffo

È possibile giungere al problema dell’istituzione prendendo le mosse da un altro punto di vista: quello del buffo.
In questo caso il confronto va ristretto a Full Metal Jacket e No Man’s Land, perché in  Osama questa dimensione è assente. Anche la scena del bagno, in cui il pudore dei bambini potrebbe indurci a sorridere, non riesce a farlo. In primo luogo perché non c’è un autentico candore sui loro volti: essi sono solo un territorio da fertilizzare, menti vergini da plasmare, e lo spettatore lo sa bene. In secondo luogo perché incombe sempre la certezza che Maria non potrà non essere scoperta e, come durante il resto del film, si è attraversati da una tensione paragonabile a quella dei film dell’orrore, in cui si resta in attesa che la lama dell’assassino cali sulla vittima, e in cui ci si chiede tutto il tempo con il fiato sospeso quando accadrà.
(Osama è peggio di un film dell’orrore, perché è reale e molto più spietato: non viene concessa una morte, neppure cruenta e dolorosa, ma una vita dettagliatamente ed esplicitamente descritta come un eterno soffrire, fin dall’infanzia, e senza alcuna possibilità di scelta).

Kubrick e Tanovic, al contrario di Barmak, si concedono al ridicolo e fanno del dramma provocando il riso; in Full Metal Jacket specialmente nella prima parte, al campo di addestramento, in No Man’s Land soprattutto attraverso alcuni spunti all’inizio.
Nel caso di No Man’s Land, alcuni critici cinematografici condannarono tali concessioni al buffo e a volte quasi all’inverosimile. In realtà il buffo è solo un modo per evidenziare quanto la realtà, anche nei suoi aspetti più drammatici, sia davvero ridicola. Il momento in cui i due soldati si tolgono le divise e si mettono a sventolare bandiera bianca in mutande fa ridere, ma allo stesso tempo si riferisce a una situazione che non è affatto risibile: tale contrasto esprime la drammaticità vissuta dai due soldati che nudi, senza divisa, rimangono soltanto uomini disperati. Una volta di più “il riso è lo spazio del rimosso”.

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In Full Metal Jacket i trattamenti riservati al povero Palla di lardo possono far sorridere, ma anche in questo caso il riso è lo spazio del rimosso: ridiamo per non piangere, per allontanare da noi la consapevolezza che la disgrazia di uno è anche la nostra disgrazia, ridiamo per non sentire l’angoscia profonda di questi uomini che hanno già perso la loro battaglia personale.
Si pensi al modo in cui, nella seconda parte del film, il cecchino colpisce un soldato alla testa attraverso un buco tra le macerie: in un certo senso è pazzesco, è folle, e proprio per questo è ancor più vero, è l’allucinazione della realtà, è ciò che non vorremmo accadesse mai e invece accade. È una sineddoche, è la morte che si prende gioco di noi.

L’assurdità delle gerarchie

Il buffo si rivela, stavolta anche in Osama, pure nella presa in giro, amara e ironica, delle gerarchie, le quali in ogni caso incarnano l’integralismo e l’ottusità. La differenza tra integralismo militare e integralismo religioso sotto questo punto di vista cade completamente. Si tratta in ogni caso di manifestazioni di potere in cui l’ordine può avere luogo solo se imposto e imposto dall’alto, da autorità superiori. Questo dato è particolarmente evidente: in Full Metal Jacket, nella fase dell’addestramento come in battaglia (da notare che quando i soldati in azione perdono l’ufficiale superiore si sentono in principio come sbandati, e faticano a riorganizzarsi); in Osama, dove i militari, che si ergono a vessilliferi e protettori dell’autorità religiosa, durante la prima metà del film addirittura non si vedono, non hanno volto, rimangono soltanto voce; in No Man’s Land nella rappresentazione fornita dell’ONU, vista come organizzazione burocratica incapace di interventi concreti (sintomatico il fatto che il soldato del genio alla fine non riesca a disinnescare la mina).

Il buffo si manifesta allora nella descrizione della follia eretta a sistema, nella super-imposizione che annulla la natura stessa degli individui, per renderli fondamentalmente degli automi. Nella negazione, insomma, del libero arbitrio.

L’autorità sbugiardata

Il buffo si annida anche nel contrasto tra come l’autorità si mostra e quello che è nei fatti. L’autorità, sia militare sia religiosa, si presenta infatti come guida paterna e illuminata: in Full Metal Jacket è impersonata dal sergente HHartman; in No Man’s Land dai vertici dell’ONU (che invece di punire il povero tenente francese, gli accordano dall’alto un premio e con tono bonario lo redarguiscono: te l’avevo detto di non fare di testa tua, bricconcello!, ma non ti preoccupare, adesso ci sono qui io e metterò tutto a posto); in Osama dal maestro alla scuola coranica, che con un misto di severità e gentilezza insegna ai bambini la lettura del Corano e l’espletamento delle abluzioni.
Nei tre film l’autorità viene alla fine smascherata e rimane semplicemente una manifestazione di prepotenza assolutistica. Si tratta di prepotenza perché non obbliga a uno sforzo di comprensione, ma soltanto di partecipazione. Né i militari né i religiosi pretendono un’adesione e una fede sincere e sentite. Vogliono prima di tutto l’ubbidienza. Perché sanno che con il tempo e con il dominio dell’istruzione otterranno anche l’adesione spirituale. È uno dei modi in cui si manifesta l’assenza di ogni possibilità di cambiamento, di ogni speranza: il sergente Hartman sa che se i suoi uomini durante l’addestramento si limitano a temerlo, al fronte diventeranno come lui; i superiori dell’UNPROFOR hanno piena consapevolezza di quanto il loro cinismo sia contagioso; e i Talebani sanno che i vecchi vanno dominati con la paura, mentre i giovani vanno rieducati. Icastica l’affermazione del bambino Endendi, l’amico di Maria, all’ingresso nella scuola coranica: “adesso ci fanno diventare tutti Talebani”.

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Infanzia e adolescenza

All’autorità paternalista fa da controparte una dimensione infantile dei soggetti da educare o rieducare, trattata però in diverse maniere nei tre film.
In Osama viene mostrata un’infanzia che non è violata: è negata a priori. Già il fatto che Maria debba farsi carico della famiglia, accompagnando la madre nelle uscite pubbliche e lavorando per mantenere la madre e la nonna, indica una negazione del tempo del gioco, della spensieratezza, dell’apprendimento graduale, in un ritorno al Medioevo, a un’epoca in cui i bambini non erano altro che uomini piccoli. Questa negazione è resa ancor più evidente dalle scene in cui Maria gioca a saltare la corda. In particolare quando è rinchiusa in prigione, il contrasto tra la bambina senza pensieri e la vittima rea di chissà quali peccati è aberrante. In quest’ottica le scene in cui Maria viene prima giudicata, quindi schiavizzata sono semplicemente scioccanti.

Lo stesso contrasto è reso con paragonabile intensità in Full Metal Jacket: il temibile cecchino nemico che falcidia senza pietà i prodi soldati americani, il maciullatore di corpi che si accanisce sui vinti continuando a infliggere ferite strazianti ma non mortali, l’incarnazione del male assoluto si rivela essere una bambina che implora un po’ d’acqua e un gesto di pietà, il privilegio di essere uccisa. (Per contro la potente macchina bellica americana ne esce come l’assassina di bambine).

Alla negazione dell’infanzia si contrappone il recupero dell’infanzia da parte dei soldati al campo di addestramento. Si direbbe infatti che il sergente Hartman insegni loro a essere uomini, ma è pura apparenza. Di fatto ai ragazzi viene insegnato a non crescere, nella misura in cui vengono convinti che non devono pensare (devono solo sparare), che non c’è bisogno che pensino, che in ogni situazione troveranno chi penserà per loro e si prenderà cura di loro. Allo stesso tempo vengono iniziati a una responsabilizzazione primaria, attraverso l’insegnamento del gioco della guerra. Non si può neppure parlare di adolescenza, a questo punto: si tratta di un blocco all’infanzia, in cui Hartman è il padre di bambini asessuati, che rubano le ciambelle, che fanno gli scherzi, cantano con gusto le canzoncine sporche e vengono elogiati quando fanno quel che dice papà, puniti quando non lo fanno.

Se i marines sono tutti uguali e incolonnati nelle loro divise, i giovani islamici sono tutti con il capo coperto e schierati mentre leggono il Corano. Non importa la loro età: sono e rimarranno bambini, e dei bambini conserveranno la crudeltà, l’incoscienza del dolore suscitato dalle loro azioni e il gusto per la sopraffazione. I ragazzini della scuola coranica sono i talebani del futuro, e i talebani sono i marines poveri e con pochi mezzi.

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In No Man’s Land la dimensione infantile ha un carattere più adolescenziale: si pensi alla complicità che nasce tra Chiki e Nino quando ricordano i loro anni pre-guerra e scoprono di essere stati infatuati della stessa ragazza; ai loro piccoli giochi di prevaricazione (quando, prima l’uno e poi l’altro, si puntano il fucile addosso e si obbligano a incolparsi dell’inizio del conflitto); alla spirale di rancore vendicativo che si innesca più tardi, e che sembra propria più a dei ragazzi senza senso della misura che a degli adulti capaci di comprendere e di perdonare.

La guerra come gioco

La guerra è un gioco nello stesso modo in cui i soldati sono dei bambini. Lo avevano ben capito “I ragazzi della via Paal”, ma le conclusioni cui giungono Kubrick e Molnàr sono in parte diverse. Tanto nel romanzo quanto nel film la storia si conclude con la morte (solo in parte simbolica) di un (rappresentante del) nemico. Nel romanzo questo evento porta i ragazzi a comprendere la differenza tra il gioco e il reale, e viene vissuto drammaticamente, portando a due conseguenze: la prima, il rifiuto della dicotomia manichea tra amico e nemico; la seconda, il passaggio all’età adulta. In Full Metal Jacket, invece, l’uccisione del nemico (una bambina, appunto, come bambini sono, per accostamento, i marines) è vissuta in modo goliardico, come semplice vittoria. È vero che viene meno la paura di esistere, la paura di vivere (così conclude Joker: dicendo che non ha più paura), ma non nel senso di una maturità conquistata, quanto di un’incoscienza elevata a sistema di vita. La conferma che nessuna maturazione è avvenuta, che i bambini avanzano (sul campo come nella vita) vittoriosi e sereni nella propria incoscienza, è data dalla scena finale, in cui i soldati cantano Mickey Mouse: la canzoncina non è un inno per farsi coraggio fra le tenebre (anche ideologiche), ma un ritornello appreso alla scuola della violenza e ora ritrovato — un ritornello che occupa la mente e allontana le domande cui faticherebbe a trovar risposta.
Kubrick è in questo più pessimista, o forse più realista, di William Golding: nel suo “Il signore delle mosche”, infatti, almeno un elemento del gruppo rifiuta di uniformarsi alla logica guerresca che anima i compagni. In Full Metal Jacket, invece, gli unici due elementi devianti vengono eliminati: Palla di lardo fin dal principio e in modo fisico, Joker alla fine e attraverso l’adesione al gruppo. Il gioco non ammette che qualcuno ne contesti le regole.

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In No Man’s Land la guerra è rappresentata come il gioco di sopravvivere. Ora il fucile ce l’ha lui, ora ce l’ho io, ora sparo, ora mi sparano, etc. C’è poi l’intervento del paciere, il tenente Marchand, e poi ecco che scoppia una gran litigata. Se non fosse per le conseguenze, lo si potrebbe davvero definire soltanto un gioco.
Mentre Full Metal Jacket e No Man’s Land pongono in ridicolo la guerra, in tutti e tre i film troneggia un’altra idea: che la vita sia guerra e la guerra vita, e in generale che è meglio essere vivi che morti. Ne deriva che si vive per sopravvivere, che la vita diventa lotta del branco per la sopravvivenza, che tutto il resto sono sovrastrutture, pretesti. D’altra parte, come ne “I ragazzi della via Paal”, non è forse vero che i giochi sono simulazioni della realtà, sono prove generali della vita e al contempo sono la vita stessa?
È solo un problema di tipi logici: a un primo livello di complessità il gioco è una mappa che totalizza la realtà, ma non è reale. Al livello superiore, tuttavia, il gioco diviene il territorio, è esso stesso realtà, senza riduzioni, senza perdite di significato. La guerra è un gioco a entrambi questi livelli di complessità.
In No Man’s Land, per esempio, si mantiene per un po’ una situazione di parità, ma poi il conflitto si fa dimensione assoluta dell’esistenza e domina sui sentimenti, sul riconoscimento  dell’altro e sull’identificazione nell’altro: ne rimane una lotta fra due esseri che in comune hanno solo il dovere di lottare. Una lotta esistenziale.
In Osama l’idea della sopravvivenza è portata fino alle estreme conseguenze: Maria finisce incarcerata nella casa dell’uomo che le salva la vita e che, con lo stesso gesto e allo stesso tempo, gliela toglie per sempre. Si passa così dal gioco della finzione (di essere maschio) alla finzione del gioco (da parte del mullah Omar di avere salvato Maria e di tenerla come una bambolina nella propria casetta).
In Full Metal Jacket i livelli del gioco corrispondono alle due macrosequenze del film: al campo i futuri marines giocano a simulare la guerra, al fronte giocano a viverla e a combatterla. Il punto di passaggio è costituito dalla morte violenta di Palla di lardo: da quel momento ognuno è cristallizzato nel proprio ruolo, perché è obbligato, forse per la prima volta, a prenderne coscienza. Il Fatto che Palla di lardo, dopo aver colpito Hartman, si uccida, può simboleggiare l’idea che in guerra non ci sono mai vincitori, ma solo vinti. È il preludio alla tragedia e l’espressione di Joker sembra testimoniarne il presagio.

I due livelli di complessità del gioco presentano delle differenze. Full Metal Jacket mostra come una di queste consista nel fatto che quando il gioco è simulazione è sempre possibile scambiarsi le parti, coprire ruoli fino a quel momento impersonati da altri, mentre quando il gioco è realtà gli individui sono cristallizzati nei propri ruoli, e non possono uscirne (ogni ribaltamento è sancito dalla fine di un gioco e dall’inizio di un altro). Questa negazione del cambiamento si manifesta in tutti e tre i film, in vari modi che di seguito vado ad analizzare.

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Immobilità e limitazione spaziale

I tre film sono esempi di negazione di una normale dimensione esistenziale. Essi mostrano dei soggetti incarcerati, privati della libertà.
In Full Metal Jacket avviene in due casi: al centro di addestramento, dove la rigida disciplina militare non solo scoraggia e distrugge la libera espressione individuale, ma allinea i soldati secondo precisi schemi fisici e mentali; e durante l’avanzata tra le macerie della città, quando il cecchino blocca il plotone in una posizione di stallo.
In No Man’s Land l’impossibilità a muoversi è rappresentata attraverso la trincea e l’incapacità ad uscirne, che si spinge quasi fino alle conseguenze paradossali de “L’isola di cemento”, romanzo poco conosciuto dell’autore di culto J.G. Ballard (in cui un uomo ha un incidente automobilistico e rimane ferito e bloccato in un’isola spartitraffico; alla fine impazzisce e decide di rifiutare il soccorso e di soccombere lì).
In Osama l’immobilità corrisponde all’impotenza, all’impotenza che deriva dal semplice essere donna, e dunque vittima di leggi arcaiche e restrittive, frutto dell’ignoranza e mascherate da precetti religiosi (peraltro disattesi alla prima occasione di allentamento della sorveglianza).

Nei tre film vengono mostrati spazi che non sono più dei luoghi, spazi che sono dei non-luoghi. Le macerie della città vietnamita e quelle di Kabul sono un agglomerato informe di cemento, sono qualcosa definibile solo come negazione di oggetti compiuti: non sono più città, sono non-città, sono delle furono-città. Le macerie urbane sono la rappresentazione della precarietà umana, sono la deformazione della vita a favore della morte, sono l’emblema dell’inferno: un luogo fatto di detriti fumanti e probabilmente di cadaveri, di resti di civiltà, un luogo in cui animali disperati si uccidono senza scopo apparente, soltanto per “andare avanti”, e l’andare avanti si fa concetto, diviene fine ultimo, non si sa perché si avanza, ma si avanza.
Allo stesso modo la trincea non è un luogo, ma un confine, è la linea separatrice su una mappa, è una terra di nessuno (appunto) che si qualifica abitabile solo come spazio di transizione. La trincea è uno spazio che politicamente non è contemplato, che sulle cartine geografiche non può essere misurato e la cui dimensione si nasconde nelle insidie aporistiche dei numeri razionali; è un’altra rappresentazione dell’inferno o, se se si vuole, del momento tra la vita e la morte, del passaggio imponderabile senza andata e senza ritorno, senza uscita. È la rappresentazione immanente del processo, o meglio dell’idea che la vita sia solamente un processo tra due dimensioni metafisiche inintelleggibili.

In Osama la vita stessa è negazione della libertà. Non solo i luoghi fisici, nei quali c’è un controllo costante dei diavoli (che non a caso a volte nemmeno si vedono, in quanto sono pura voce, puro potere assoluto), ma nell’intero spazio, in quanta è negata la possibilità stessa di una fuga, di un’alternativa. Attraverso il personaggio della madre istruita si fa capire come le cose possano solo peggiorare, come Maria sia in un certo senso fortunata, perché conosce solo la disgrazia presente, ma non può valutarne l’immensità perché non possiede termini di paragone. La madre, invece, ha conosciuto il regime illuminato che vigeva in Afghanistan prima della rivoluzione islamica, e non le rimane che rimpiangere il passato e i propri morti.

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La limitazione spaziale e la reclusione del corpo simboleggiano allora l’annullamento della persona e del libero arbitrio, diventando metafora della prigionia dello spirito. Questo è il senso dell’incarcerazione di Maria in Osama: non si allude solo al carcere in quanto edificio con sbarre, ma alla prigionia dell’anima. Non a caso Barmak mostra Maria che salta la corda proprio all’interno del carcere: sono la libertà stessa e il diritto di esistere di Maria a essere incarcerati.

Negazione del cambiamento

Le tre storie si concludono in modo negativo, segnalando una radicale impossibilità di cambiare le cose. L’immobilità spaziale si fa immobilità ontologica: non si può essere altrimenti, esiste un solo modo di essere.
Con Kubrick Joker diventa killer, come tutti gli altri e fiero di esserlo, portando a compimento il progetto di Hartman, il tentativo di fare degli uomini dei soldati, cioè degli assassini. In Full Metal Jacket abbiamo dunque la trasfigurazione della morte in soldato.
Con Tanovic ogni tentativo di soluzione pacifica abortisce, ogni speranza cessa con la morte effettiva dei protagonisti. Si tratta di un’idea di morte differente da quella giapponese: non una morte onorevole che riporta l’ordine e il normale status quo, bensì una morte che è sconfitta, che è termine dell’esistenza e del gioco dell’esistenza. È la morte che non accetta vincitori.
Con Barmak la conclusione, già rilevata, è ancora più atroce: la morte equivale alla vita, mentre la vita diviene un lento, agonizzante morire, senza speranza.


L’idea della sconfitta e il fallimento delle istituzioni

L’impossibilità di cambiare implica una sconfitta totale, sofferta da tutte le parti, sia che si consideri il gioco come simulazione, sia che lo si consideri al livello della realtà.
Full Metal Jacket mostra la sconfitta, non la vittoria degli americani. Non è epico, non è eroico. La sconfitta è mostrata sul piano militare (e dunque istituzionale): un gruppo di soldati ben equipaggiati, appoggiati dall’artiglieria pesante, si fanno fermare da un solo cecchino, che per giunta non si rivela essere un soldato addestrato, ma una bambina. Soprattutto, però, è mostrata su quello umano: si può combattere in nome della libertà un nemico che è rappresentato come una forza militarmente ridicola (si pensi all’attacco al campo base, immediatamente respinto) e la cui massima manifestazione distruttiva si rivela essere una ragazzina che implora la morte?

No Man’s Land è la condanna/sconfitta della società di fronte all’assurdità del conflitto. Nel momento in cui quest’ultimo è innestato, tutto diventa stupido e inutile, e si apre lo spazio della vendetta, ovvero quello che Pennac ha definito lo spazio delle conseguenze indesiderate (la vendetta vista come radice e conseguenza di tutti i mali). È la sconfitta non solo degli eserciti, ma anche della diplomazia (di cui è data una rappresentazione agghiacciante) e dell’interventismo (impersonato dal tenente Marchand, la cui azione finisce quasi per peggiorare le cose), del giornalismo nobile e di quello degli sciacalli, dei cattivi propositi, ma anche di quelli buoni.

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In Osama la sconfitta è generale e si respira nelle sue conseguenze: tocca tutti, è definitiva e irrecuperabile. All’interno di questa sconfitta dell’essere umano di fronte alla barbarie e all’oscurantismo, seguiamo il tragitto disperato di un singolo destino, di una singola voce la cui iniziativa non potrà che essere fallimentare.
In questo modo, però, Barmak mostra anche l’assurdità della religione, o meglio del precetto religioso accettato acriticamente.

La sconfitta si manifesta poi nella mancanza di una ragione, nell’incapacità dei soggetti a trovare una spiegazione che giustifichi la propria situazione. Se in No Man’s Land Chiki e Nino quasi si sparano soltanto per costringersi a vicenda ad ammettere le proprie responsabilità nell’inizio della guerra civile, in Full Metal Jacket e in Osama si parte da uno stato di cose già acquisito e mai messo in discussione. Maria non può che chiedersi perché, perché tanta ipocrisia (per esempio nella scena della festa, in cui tutte le donne si velano e si fingono in lutto all’avvicinarsi dei talebani), mentre i soldati di Full Metal Jacket si addestrano e combattono senza mai nemmeno porsi il problema del perché. Lo stesso Hartman non dice nulla sulla ragione per cui i comunisti sono nemici: è così e basta, amen, cioè: insciallah. Né gli interessa che i suoi soldati credano in Dio: Joker è ateo, ma ha il coraggio di sostenere questa sua posizione, quindi ad Hartman va bene. Nemmeno il fatto che poi quegli stessi soldati addestratissimi si ritrovino davanti a una bambina come nemico fa loro sorgere alcun dubbio. I dubbi vengono a noi che guardiamo, a noi che sappiamo come quella guerra è terminata e quali devastanti conseguenze ha portato: a noi, insomma, che conosciamo la pietà.

Si tratta dunque della sconfitta delle ideologie, portate a pretesto per compiere le peggiori nefandezze. Che si tratti di ideologie politiche o religiose, esse dividono comunque il mondo in buoni templari e in cattivi infedeli, e i primi devono lottare affinché i secondi soccombano. L’ideologia è il pretesto per la prevaricazione.

L’uomo prevaricatore e la visione della storia

Si è visto come dai tre film emerga, a conseguenza dell’annullamento dell’umanità degli individui in nome dell’ideologia, l’immagine di un uomo prevaricatore, dominato da pulsioni distruttive, incapace di fondare un ordine basato sul rispetto della diversità e in generale dell’altro. Un uomo, cioè, sostanzialmente incivile, o addirittura a-civile.
Ne consegue una visione della storia come forza collettiva superiore a quella degli individui. In principio avevo scritto “volontà collettiva”, ma mi sono dovuto correggere: l’assenza di una ragione, di una giustificazione che non sia pura ideologia impedisce di parlare di volontà, nella misura in cui il termine implica una coscienza nell’agire. Si tratta piuttosto di una forza, di una spinta che trova la propria matrice nello spirito di sopravvivenza e nel cieco desiderio di sopraffazione.
La storia, intesa come azione del genere umano, della collettività, del gruppo o meglio ancora del branco, spazza via i destini individuali, e riqualifica gli eventi come scontri tra moltitudini. Ecco allora che un gruppo religioso deve assoggettare l’altro, che un esercito deve spazzarne via un altro, e a nulla serve che due individui si incontrino e si ritrovino uomini (No Man’s Land, ma anche il finale di Full Metal Jacket, quando Joker e il cecchino/bambina si trovano faccia a faccia, separati soltanto dal dolore di lei e dalla pistola di lui: ecco che Joker si fa esercito, si fa branco nel momento in cui preme il grilletto — non è propriamente un atto di clemenza, ma la definitiva accondiscendenza, il definitivo asservimento a un sistema, tanto più grave quanto inevitabile).

Immagine articolo Fucine Mute

L’aspetto più drammatico e scioccante è che alla fine non si produce alcun cambiamento. L’immobilità spaziale è anche immobilità temporale. In tutti e tre i film, infatti, nulla cambia, e si ritorna alla situazione iniziale: in Full Metal Jacket un esercito trova il modo di continuare ad avanzare, ma sappiamo che alla fine sarà sconfitto e abbandonerà il Vietnam. In No Man’s Land due uomini si uccidono, il che riporta le cose allo stato iniziale (Chiki sarebbe dovuto morire prima, Nino non aveva comunque speranza perché era un debole e un soldato inetto); in Osama l’assenza di cambiamento è addirittura fisiologica.

Chi sono allora i protagonisti e gli artefici della Storia? Sono ancora gli individui. Perché i tre film non danno scusanti, ma mostrano tutta la responsabilità individuale negli eventi che si verificano. Le conclusioni, purtroppo, sono pessimistiche: gli individui non possono fare a meno di farsi travolgere dalla storia, di cui sono assoluti responsabili, sebbene più o meno consapevoli (Full Metal Jacket e No Man’s Land, in cui i soldati addirittura godono a uccidere) o di cui sono vittime (Osama, nel quale non solo la bambina, ma tutta la società civile è vittima). L’unico che oppone una resistenza e che non viene immediatamente sconfitto, l’unico che abbandona il campo della storia è l’amico di Maria in Osama, Endendi, che si allontana dalla scuola coranica dopo l’umiliazione dell’amica: viene da chiedersi, quale sarà il suo destino?


Conclusioni

La guerra è guerra. Raramente una tautologia è così pregna di significato, è così candidamente veritiera, è così espressivamente efficace. Allo stesso tempo, raramente una tautologia è così smaccatamente falsa. La guerra è guerra, è vero: è dolore, è morte, è distruzione; è prevaricazione, è sopraffazione dell’avversario, è prima costruzione e poi annientamento del nemico; è espressione ideologica. Allo stesso tempo la guerra è l’oblio di tutte le ideologie, è lo svilimento di tutti i valori, anche di quell’eroismo tanto celebrato e tanto mistificato, travisato, eretto a menzogna. Perché quale eroismo si può trovare in un uomo che si fa uccidere o che uccide altri uomini per la volontà politica di una élite, per l’incapacità civile dei governanti, per l’impossibilità comunicativa e la xenofobia tra popoli che si riconoscono diversi? Allo stesso modo, quale nobiltà, quale senso di civiltà si possono riscontrare in un’attività che si realizza nell’annientamento dell’altro, nella creazione di una spirale di odio e di vendetta, nel lascito di un’eredità di povertà e ignoranza?

Immagine articolo Fucine Mute

Per Kubrick Joker si trasforma in un assassino che pensa di essere cresciuto perché ha ucciso, anche i due soldati di No Man’s Land diventano assassini: Nino, che era un ragazzo sprovveduto, viene travolto dal dolore fisico che si muta in odio, Chiki, a sua volta, trasforma la morte, l’uccisione dell’avversario, nella sua ultima ragione di vita. Lo stesso finale per Osama, in cui alla ragazza è negata la dignità di essere umano, la sua più basilare dimensione esistenziale. E i suoi aguzzini? Che mondo creano, anche per se stessi, i talebani? Conosciamo tutti la risposta.
Così, pèrdono tutti, perdono gli americani in Vietnam, perdono le guerre gli eserciti, perdono la vita gli individui e in generale gli uomini perdono i loro residui di umanità.
Si tratta allora di tre film di denuncia, di accusa, ma che nella loro assenza di speranza sono incapaci di mostrare una via alternativa. E chissà che non sia troppo chiedere a un film di non limitarsi a denunciare, ma di mostrare una possibilità diversa, un altro modo di essere.

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