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Cinema

Enzo Balestrieri

La verità di quella notte

Immagine articolo Fucine MuteIl sole nero di Hiroshima, la nube di Chernobyl, la pioggia del Vajont. Non è un caso che per indicare le grandi catastrofi “chimiche” dell’umanità si finisce con il ricorrere ai nomi degli elementi di per sé già presenti in natura. Che si tratti del presunto tentativo di azzerare il danno provocato, o più semplicemente di un’implicita promessa a non ripeterlo mai più poco importa. Il richiamo alla Madre-natura continua a risuonare imperterrito, com’è il caso del film Quella notte… le stelle videro le montagne camminare, racconto a più voci sulla catastrofe del Vajont per la regia di Enzo Balestrieri presentato al Teatro Miela di Trieste. Senza alcuna pretesa di restituire allo spettatore la “verità” del tragico accaduto, la narrazione di Balestrieri procede con un linguaggio cinematografico ridotto quasi all’osso, fatto di pochi piani fissi e ravvicinati dei testimoni scampati alla tragedia e qui intenti a rendere testimonianza. E dà invece maggior risalto al trascorrere del tempo così come ci si aspetta possa avvenire soltanto in una valle lontana da Dio: attraverso il silenzio dei boschi, l’inospitale rocciosità del paesaggio, il fluire dei corsi d’acqua.
Quella notte… trasmette la stessa sensazione di (apparente) semplicità delle parabole, alla quale si aggiunge la forza del riferimento politico: esplicito sì, ma mai sbandierato, mai “urlato”. Che percorre sottovoce, insieme al rispetto nei confronti dei sopravvissuti, tutto il film nel suo farsi.

Sarah Gherbitz (SG): Ha descritto Quella notte… come un racconto sociale, definizione che mi è piaciuta molto e che trovo particolarmente azzeccata. Potrebbe raccontarci qualcosa di più su quest’idea di racconto sociale?

Enzo BalestrieriEnzo Balestrieri (EB): In generale per il mio lavoro, ma soprattutto per quest’ultimo sul Vajont, ci era sembrato giusto — quando dico “noi” non è per usare il plurale majestatis, io faccio parte di un microscopico gruppo di lavoro che corrisponde al mio operatore, Matteo Rolla, a Giancarlo Carotenuto che è il mio fonico, e a Laurence Coquillot che si occupa della ricerca storica — far parlare chi per quarant’anni aveva subito il Vajont come una parola che diventa qualcos’altro, non è più un toponimo e diventa quasi un’imprecazione, un urlo. Per cui racconto sociale inteso come coro, come un insieme di voci a volte anche discordanti, non necessariamente accordate o musicali. Le voci di chi per quarant’anni ha solo subito violenze, deportazioni, ogni tipo di privazioni, e mai ha avuto la possibilità, il tempo di dire quello che provava, quello che aveva provato, che sentiva ormai a quarant’anni di distanza come fosse accaduto il giorno prima tutto quanto.

SG: Quali sono le difficoltà produttive e distributive dei racconti sociali, dei documentari?

EB: La mancanza di spazi. Noi abbiamo sette reti nazionali, tre Rai, tre Mediaset e La7. All’interno di queste reti non esiste uno spazio dedicato al documentario; che poi io non amo questa definizione, non la amo perché rimanda ai documentari di Folco Quilici sui fondali del Mar dei Caraibi o della Polinesia, o a Licia Colò con le scimmiette. Io parlo, a volte con un termine altrettanto orribile, di no-fiction. Il film dura un’ora e mezza, è un film a tutti gli effetti; anche se non c’è una scaletta, una sceneggiatura, anche se gli interpreti sono veri e raccontano le loro storie, poi alla fine la tecnica è sempre la stessa. E per questo tipo di produzione non c’è spazio, non c’è nessuno spazio; Rai Tre credo mandi una volta alla settimana dei documentari all’una di notte, a mezzanotte e mezza, a seconda del palinsesto. Io penso che una nazione che perde la propria memoria non ha grandi possibilità di crescita. Non è nemmeno un discorso politico inteso su questo o su quel partito che è al governo o non è al governo…

SG: Lei ha parlato di caos tra verità e immagini veritiere, e questo mi sembra un buon modo per definire la no-fiction. Che cosa ci può dire di questo caos?

Clown in KabulEB: Mi riferivo ad un convegno che si è tenuto a Venezia lo scorso giugno sull’etica della comunicazione e a cui sono stato, bontà loro, invitato. Il discorso delle immagini veritiere e della verità si riferisce al fatto che spesso noi pensiamo, soprattutto attraverso i telegiornali, ed in generale attraverso quell’elettrodomestico che è la televisione, di assistere ad una finestra sul mondo, e non è assolutamente vero. Noi vediamo delle cose che apparentemente sono vere ma che in realtà sono solamente verosimili, o che accadono in realtà ma non sono la realtà. Mi spiego meglio! Se in Afghanistan (Balestrieri è anche l’autore del documentario “Clown in Kabul”, ndr) c’è stata e c’è una guerra e la televisione ci fa vedere i piloti di qualunque forza aerea delle varie coalizioni nelle loro belle divise, con i loro aerei, con le etichette colorate e tutto quanto, non è che quegli aerei non esistono; esistono e sono veri, le immagini sono state riprese, ma non è la verità. La verità della guerra in Afghanistan, non parlo dell’Iraq perché è un altro discorso, ma in Afghanistan le guerre sono le mine, i bambini senza piedi, i vecchi senza occhi, la gente senza più un albero perché è stato bruciato. Ci sono 80 km di strada asfaltata in tutto l’Afghanistan! Questa è la realtà, non le portaerei, non i missili, non i marines, non i nostri bravi carabinieri: quelli sono verosimili, ma la realtà, la verità è un’altra.

SG: C’è un legame tra il montaggio nei suoi lavori e la verità?

EB: Questa sì che è una domanda cattiva! Io faccio il cinema, quindi sono contrario alla verità, dico bugie e la mia verità sta solo nel tentare in tutti i modi di non raccontare falsità. Poi la forma che io utilizzo, quindi lei parla di montaggio ma potrei parlarle anche di angolazione, delle riprese, quella è falsità, il cinema è finzione, tutto. è un peccato originale, non esiste il “cinema-realtà”, il “cinema-verità”… il mio è un punto di vista personale, per me che utilizzo le tecniche del cinema, cerco di utilizzare meno possibile il mezzo ma il più possibile il linguaggio. Spero di essere bravo, spero che i miei film siano belli, prima che veri, spero che siano piacevoli, spero che la gente sia contenta quando esce dalla sala cinematografica dopo averli visti.

immagini da

SG: A proposito dello scorrere del tempo in Quella notte…, lei prima ha giustamente citato due registi importanti come Ozu e Von Stroheim. Io mi permetto di aggiungerne un altro che dà ampio risalto allo scorrimento del tempo, il regista russo Aleksandr Sokurov. Non so se lei ha visto Arca Russa…

EB: No, purtroppo non l’ho visto, ne ho sentito molto parlare ma non l’ho visto… Io avrei una provocazione: questo film sul Vajont mi sarebbe piaciuto potesse durare dieci ore, dodici, e non per una forma di masochismo nei confronti del mondo, oppure di sadismo nei confronti degli spettatori. è una forma di rispetto per il tempo; ho anche citato prima il racconto di Borges (si tratta di un passo contenuto nella raccolta di Jorge Luis Borges”L’artefice” edita da Adelphi, ndr) in cui il grande imperatore dà ordine ai propri cartografi di fare una carta geografica più possibilmente fedele al suo impero e alla fine i bravi cartografi gli fanno una carta geografica grande come l’impero e quindi inutilizzabile perché “è” l’impero. Tra questo ed il nulla del servizio giornalistico, dell’apertura del Tg5 che dice: “A distanza di quarant’anni dal crollo della diga nel Vajont”… La diga è ancora lì! La diga non è mai crollata, se un telegiornale dice “A quarant’anni dal crollo della diga” significa che nessuno è stato lì, o se c’è stato era cieco, non ha visto, non voleva vedere, non ha chiesto, è arrivato in treno, in auto, in aereo, è rimasto dieci minuti e ha fatto il servizio. Noi siamo stati dieci mesi in quelle valli che come dico spesso non sono Disneyland, non c’è divertimento, tenere insieme una troupe in montagna per dieci mesi non è una cosa divertente, significa che amano me, il mio lavoro, loro stessi, il loro lavoro. Ma noi sappiamo che la diga del Vajont sta ancora lì a testimoniare la rapacità, la voglia di dominio del denaro. In questo senso credo che più che raccontare la realtà bisogna rispettarla; ed allora si crea il modo di dire qualcosa di “vero”.

“Vorrei parlare della verità delle immagini: spesso confondiamo le immagini veritiere con la verità. Nel lontano 1982, credo, durante la guerra delle Malvinas, è cominciato il black out delle immagini di guerra. Noi pensiamo che l’ultima guerra dell’Iraq sia quella senza immagini ma le guerre, dal Vietnam in poi, sono tutte senza immagini; quelle che vediamo sono immagini false e non perché non rappresentino elicotteri veri, ma non sono gli elicotteri nei posti giusti, non dicono la verità.
Ero in vacanza in Francia nell’82, quando è scoppiata la guerra delle Falkland e la televisione francese mandava in onda delle immagini che avevo girato io l’anno prima nel golfo di Lebice: era una pubblicità dei sistemi d’arma della Fiat e della Augusta.
Le stesse immagini che abbiamo visto della guerra del 1991, pare (dico pare perché nessuno ce l’ha raccontato) siano state girate nel deserto del Nevada, in un poligono della Lockheed o di qualche altro fabbricante di bombe.”


“Quando sono stato in Afghanistan nel gennaio e febbraio del 2002, al seguito di una missione umanitaria, mi sono accorto che tutte le immagini che avevamo visto, a cominciare da quelle tanto sbandierate dei burka gettati al vento, non erano vere, perché le donne afghane continuano a portare il burka. E in un certo senso anch’io portavo il burka, perché Giulietto che sta qui davanti a me, e che è stato negli altipiani a oltre 2000 metri, sa che è difficilissimo vivere con l’aria rarefatta e la polvere, senza protezioni per il viso, per le narici. E se ci ricordiamo anche le nostre nonne, portavano una specie di burka, quando andavano a messa, e  in alcune zone un po’ più periferiche, tipo le zone centrali della Sicilia o della Sardegna, fino a pochissimi anni fa, si portava ancora il velo. Quindi le immagini intese come verità sono la cosa più menzognera.


Per quanto riguarda il Vajont, invece, il discorso è leggermente diverso. L’anno scorso abbiamo fatto un film che si chiamava Clown in Kabul che ha avuto un successo planetario, credo sia stato l’unico film italiano ad essere proiettato in tutti e 5 i continenti. Mi sono trovato nella difficoltà di scegliere un argomento per eccessivo lavoro, e sono venuto a conoscenza, per caso, che erano i quarant’anni del Vajont. Con pigrizia mentale, e vedo anche con poca etica, mi sono messo subito nell’ottica di dire: “ok, quarant’anni dal Vajont, la Merlin, Paolini… facciamo una bella inchiesta, un’inchiesta di quelle di una volta, battagliere, facciamo nomi e cognomi”. E poi sono andato lì e ho cominciato a parlare con la gente, e mi sono accorto che la vera inchiesta che si poteva fare, l’etica del mio lavoro, poteva essere quella di fare parlare loro, e di quello che volevano dire, non di quello che io volevo che loro dicessero.”


“Io non sono un giornalista, sono un cineasta, come diciamo noi a Roma, sono un cinematografaro, che non è un termine dispregiativo, è un  modo di guardare le cose. Ho dovuto un po’ dimenticare anche questo, nel senso che noi siamo stati nelle valli (parlo di noi perché siamo io e una giornalista francese che lavora con me, il mio operatore, il mio fonico) siamo stati lì da settembre dell’anno scorso, e domani sarò lì. Non tutti i giorni; stavamo su dieci giorni, una settimana, una volta al mese; perché lo scorrere del tempo non può essere quello della televisione. Quando vediamo film che, nell’arco di un minuto, montano 50, 60, a volte 150 inquadrature, (pensate al film sul soldato Ryan), quella è menzogna; il tempo scorre, non possiamo parlare sempre con questi ritmi. Questi sono menzogne, anzi sono imbrogli. Ci stanno imbrogliando. Ci stanno togliendo la capacità di pensare. E quindi non vi aspettate, quando il film uscirà, di vedere un’inchiesta su chi ha provocato cosa, o su cosa è accaduto dopo, sui soldi, sulle leggi sbagliate, perché la gente mi diceva: “voi siete venuti qui per speculare sul Vajont, anche voi”. Ed era vero.


Così il corso dello spazio e del tempo che vengono cancellati da questa meravigliosa etica televisiva per cui se non c’è ritmo, se non c’è velocità, la gente cambia canale, non è vero: la gente non cambia canale, la gente cambia canale quando dietro non c’è niente.”


“In tutti i continenti in cui sono stato per seguire Clown in Kabul,  e non in tutti i festival dove il film è stato presentato, la domanda era sempre la stessa, sia in Brasile che in Olanda o a Tokio o a Hong Kong: “perché questo film non passa in televisione, perché non lo vede Bush?” La risposta è sempre la stessa: perché certe cose sono vere. Non che sia vera perché l’ho fatta io, è vera perché non c’è l’imbroglio del campo e del controcampo o del primo piano del dettaglio; uno si ferma a guardare con gli occhi, e tra quegli occhi e l’oggetto c’è una piccola telecamera digitale, non un apparato tecnologico fatto di carrelli, luci e altre cose di questo tipo. Facciamo scorrere il tempo, diamo alla gente la possibilità di fermarsi e di guardare, questa è l’etica che dobbiamo ricercare.”


Fonte: www.megachip.info

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