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Cinema

Non sono il Messia, lo giuro su Dio! (III)

II.2 Le figure

Immagine articolo Fucine MuteAbbiamo visto come Brian sia ricco di svariati filoni attraverso e lungo i quali si dipana la narrazione, che intrecciandosi formano un fitto tessuto di rimandi e citazioni. Il problema che ci accingiamo ora ad affrontare di petto è, a dispetto del nome, serissimo: la comicità. I Monty Python sono un gruppo di comici, vengono dal teatro e dal mondo dell’illustrazione (Gilliam), la loro missione e le linee-guida nella stesura dei loro sketch sono una sola: far ridere. Durante la fase di preparazione e stesura, se si notava che un passaggio, o uno sketch intero del Flying Circus non riusciva a suscitare il riso, questo veniva modificato o tagliato. Ovviamente i tempi brevi richiesti dal loro show televisivo imponevano queste regole, che ad ogni modo erano state osservate nei due precedenti film (E…ora qualcosa di completamente diverso e Monty Python e il Sacro Graal), i quali denotano una struttura piuttosto frammentaria e caratterizzata da fitti interventi comici che alla lunga finiscono per appesantire la visione; specialmente il primo, in quanto “collezione” dei migliori sketch della trasmissione televisiva fino a quel momento (tratti dalla prima e seconda serie, fino al 1971). C’è da aggiungere che anche il quarto film (e ultimo, in ordine di tempo) della troupe, Il senso della vita, è una serie di episodi o “parti”, come vengono titolate nel film: perfino la “metà del film” e la “fine del film” costituiscono parti dello stesso, con tanto di presentatrice-intrattenitrice (Michael Palin) che avvisa cortesemente la prosecuzione del film entro breve, e invita nel frattempo a sgranchirsi le gambe ed a fare uno spuntino. Ma, come abbiamo già spiegato in I.3 Dalla televisione al cinema: i film dei Monty Python, a pag. 24, il fatto che i Monty Python siano tornati a fare un film ad episodi dopo lungo tempo, e soprattutto dopo Brian, era subordinato al fatto di avere a disposizione un tessuto logico dove cucirli, una colonna vertebrale che tenesse assieme tutti gli episodi mediante un’attinenza comune (il senso della vita, appunto).

Brian ha avuto natali diversi: è stato concepito dai sei durante una lieta vacanza lavorativa presso le spiagge delle Barbados, dove il soggetto, da vari abbozzi precedenti, è stato deciso, e il copione stilato e poi riesaminato e limato approfonditamente, fino alla stesura definitiva in un’atmosfera di pace e concordia. L’occasione rappresentava la riunione del gruppo dopo qualche anno di lavoro separato e successi personali (i più evidenti, quelli di John Cleese con la sit-com Fawlty Towers, scritta ed interpretata assieme all’ex moglie Connie Booth), e il rinnovato entusiasmo ha influenzato molto la sceneggiatura, uscita rafforzata nell’intreccio e più “cinematografica” in senso classico. Ha avuto modo di prendere il corpo di una vera e propria storia (come ho già spiegato in I.4.1 Un film completamente diverso, pag. 31). Nonostante ciò, rimane sempre alla base del film la volontà di strappare delle risate o dei sorrisi, o almeno di illustrare delle assurdità, le quali subito dopo ci si accorge amaramente che sono vere. Dico amaramente perché, secondo me, il particolare modo di operare della comicità, che esiste in una forma più diluita, se confrontata ai graffi del Flying Circus, in questo film fa emergere amare considerazioni sulla vita umana, rappresentando le sfortune di un singolo individuo. Il metodo di evocazione del riso che ho visto all’opera nella maggior parte delle scene, consiste nel raccordare ogni inizio di episodio ad un immaginario collettivo al quale appartengono tutte le immagini tradizionali della rappresentazione della vita di Gesù, raccordo eseguito mediante una breve citazione, testuale o pittorica, la quale è poi subitamente sovvertita, a volte proprio rovesciata od abbassata, a smentire ogni possibile connessione con la vita del Cristo, fino alla “punchline” (battuta finale), od allo scioglimento della situazione mediante intersezione con l’avvenimento successivo.

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La mia analisi vorrebbe ora proseguire nel campo delle figure e dei generi, addentrandosi fra le pericolose differenze di terminologie che sono state utilizzate negli studi già compiuti, dall’antichità ad oggi. La citazione, la parodia e gli altri metodi intertestuali usati, saranno il nostro oggetto particolare di studio. Su riso, ironia, comicità, umorismo, parodia e quant’altro attiene ancora a questa sfera, hanno cominciato a scrivere per primi i filosofi ed hanno finito per ultimi i giornalisti. Passando attraverso una miriade di studiosi, e di secoli, intermedi, sembra che tutti abbiano voluto dire la loro su questi argomenti, ritenendo opportuno far sapere al mondo come si distinguano i vari tipi di riso, o se la parodia sia un genere o una figura retorica.

È quasi futile precisare che non intendo aumentare il numero di coloro che si sono avventurati in un’analisi od in una classificazione delle categorie dello spirito o della letteratura: sarebbe farlo una volta di troppo, ed in ogni caso non è l’oggetto del mio studio; pertanto in mezzo a questo mare di lavori, ho deciso di scegliere soltanto i più recenti e di consolidata autorità come guida per il mio studio.

Quando riterrò di servirmi dell’identificazione di un particolare tipo di riso, a volte utile per farsi capire, utilizzerò le categorie proposte da Propp nel suo libro Comicità e riso [1], chiaro e sintetico, soprattutto molto pratico e riccamente esemplificato; per quanto riguarda l’analisi ipertestuale, mi avvalgo dei certosini lavori di Genette[2] e Compagnon[3], rispettivamente sulle varietà dell’ipertesto e sulle forme di ripetizione letterarie (citazioni), mentre il corposo lavoro di Bachtin[4] sulle tradizioni popolari e sulle forme di divertimento carnevalesco, fungerà da riferimento sempre presente per la sua completezza di analisi. Per la parte che ho voluto dedicare alla traduzione italiana del film, come ho già spiegato, mi riferirò quando necessario agli interventi pubblicati in Tradurre il cinema: atti del convegno [5], nonché ancora a Genette; per il copione, agli scripts che si trovano in www.montypython.net e in www.stone-dead.asn.au e alla trascrizione dell’edizione italiana che ho compiuto io stesso.

II.2.1 Il genere del film e le figure dominanti

Vediamo dunque, per cominciare e per orientarci, a che genere appartenga Brian. Come vedremo più in là, anche quest’operazione ha la sua importanza. Nella “vulgata” quotidiana, separare le cose — qualsiasi cosa nella nostra vita — oppure raggrupparle secondo categorie e generi è prassi comune, tutt’altro che aborrita e, ammettiamolo, pure molto comoda. In un libro c’è più spazio per fare distinzioni sulla lana caprina, ma appellarsi al buon senso comune può far comodo, come nel nostro caso. Certamente nessuna definizione si attaglierà mai alla perfezione al suo oggetto, ma almeno saprò, grosso modo, che cosa potrò trovare in un film, andando al cinema a vederlo. Trovo giustificazione e conforto a questo mio proposito soprattutto nel fatto che le stesse case di produzione cinematografica accompagnino l’uscita di un film con una serie di dati (regista, attori, durata, paese di produzione, ecc.), fra i quali, e nemmeno fra gli ultimi, è compreso il genere. Questo perché i film sono fatti per essere visti, nel grande meccanismo che comprende produttori, consumatori e mercato: bisogna necessariamente fornire degli indizi che suscitino la curiosità. Richiamarsi alla categoria “horror”, oppure “sentimentale”, opera già una selezione nel potenziale pubblico, e chi ama vedere cadaveri scarnificati, leggendo la prima etichetta, quasi sicuramente andrà a vedersi quel film, mentre gli amanti della seconda categoria lo eviteranno come la peste (e comunque non è escluso che a qualcuno piacciano tutti e due…).

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Per fare un confronto letterario, sulla copertina di un romanzo solitamente c’è scritto solo “romanzo”, e bisogna affidarsi al cosiddetto paratesto (sempre per usare un termine di Genette [6]) per scoprire se si tratta di un romanzo rosa, oppure di un giallo, o ancora di un romanzo erotico; se non ci fossero sufficienti elementi per il giudizio, ci affideremmo ad una recensione di un critico o di un esperto, prima dell’acquisto, non diversamente da come faremmo al momento di decidere quale film andare a vedere.

Dico quindi, senza timore, che il nostro film è una commedia, un film concepito per far divertire il pubblico. La definizione è un po’ lasca, ma per il momento va bene così. Il fatto che porti alla luce riflessioni serie o semi-serie in vari punti è un effetto derivato dal modo d’espressione tipico della comicità pythoniana, e non è mai separato dall’elemento comico-ludico, principale conduttore dell’azione. Stabilire l’ambito comico ci serve soprattutto per inquadrare il testo nello schema generale delle relazioni ipertestuali proposto da Genette, il quale si propone di esaurire le relazioni possibili fra testi originari (ipotesti) e testi in qualche maniera derivati da questi (ipertesti), parzialmente o interamente. La sostanza del lavoro di Genette è riassunta da lui stesso in una tabella come questa (la riporto con gli stessi esempi dell’autore): [7]

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Vediamo bene che egli distingue le relazioni ipertestuali di imitazione da quelle di trasformazione in maniera netta (linea continua), mentre i regimi di queste relazioni non hanno dei confini ben precisi, ed esistono delle zone intermedie dove questi si mescolano, rendendo difficile una collocazione chiara [8]. E quanto abbiamo detto poco sopra, è una presa di posizione dello stesso studioso francese, a proposito della relatività di queste distinzioni: ”Il seguito del mio studio non sarà altro, in un certo senso, che un lungo commento di questa tabella, e avrà come effetto principale, spero, non quello di confermarla ma quello di scompaginarla, di disgregarla e infine di cancellarla.” [9] Questo vale tanto per la letteratura, per lo studio della quale è stata compilata la tabella, quanto per il cinema: vedremo più avanti come la settima arte, in cui l’elemento verbale — recitazione di un copione scritto, e quindi letterario — è indissolubilmente legato all’elemento visivo, riesca ad utilizzare in maniera visiva le tecniche di citazione e trasformazione/imitazione ipertestuale.

Allo stesso modo di Genette, ho voluto all’inizio di questo capitoletto inquadrare per forza Brian in un “genere” (o architesto): non era la fine dell’indagine o un punto di sosta, ma il punto di partenza del mio discorso, la bozza; così come per scrivere un libro bisogna modificare molte volte il proprio progetto, ma, come ricorda Eco, bisogna pur avere un progetto da modificare: “[…] stendere subito l’indice come ipotesi di lavoro serve a definire subito l’ambito della tesi. Si obbietterà che, man mano che il lavoro va avanti, questo indice ipotetico sarà costretto a ristrutturarsi più volte e magari ad assumere una forma del tutto diversa. Certamente. Ma lo ristrutturerete meglio se avrete un punto di partenza da ristrutturare.” [10] Assumiamo perciò che l’equivalenza Brian=commedia sia il nostro indice da scompaginare, disgregare, cancellare.

Senza perdere tempo in discorsi troppo vuoti, proviamo a cercare un appoggio un po’ più solido dal quale cominciare. Possiamo dire che Brian è una parodia? Se parlassimo al bar, o volessimo consigliare a qualcuno un libro, non avendo né voglia né tempo di dilungarci in sottili distinzioni, certamente sì. Ma qui siamo in un libro, e possiamo anche permetterci questo lusso. La parodia, ci ricorda Genette, non è un genere, o almeno non avrebbe senso considerarlo tale. Per sua natura, la parodia è necessariamente breve. Cercare di parodiare un testo molto ampio è possibile, ma nessuno l’ha fatto, o almeno nulla è stato tramandato, e per un motivo molto semplice: come per tutto quello che attiene alla sfera del comico-ludico, alla parodia la ripetizione nuoce, un andamento troppo prolungato rischierebbe l’effetto boomerang, annoiare invece che dilettare.

Per parodia [11] s’intende una trasformazione (per aggiunta od eliminazione) minimale di un testo con conferimento di nuovo senso, o anche soltanto la trasposizione letterale di un testo in un altro testo (metatesto), tale che però si riesca ad intravedere il testo originale. La caratteristica fondamentale è dunque il cambio di significato, che deve essere percepito da chi legge o ascolta, e pertanto la modifica non può essere radicale, bensì minima: vanno lasciati tutti gli indizi utili al richiamo dell’ipotesto, pena il fallimento della parodia, ovvero il mancato divertimento nel lettore-spettatore. Immaginate come potrebbe essere pesante scrivere, ma soprattutto leggere una parodia (in questo senso) di un romanzo cavalleresco, ad esempio. Penso che il concetto sia sufficientemente chiaro.

Allora pastiche? Bel termine esterofilo, elegante. Ma anche qui non va bene, almeno non nel senso che si dà di solito a questa parolina francese (tra parentesi, nasce dall’italiano pasticcio, termine importato in Francia nel XVIII secolo nel campo della pittura). Diamo a pastiche il senso, più ristretto, di imitazione di uno stile, non necessariamente a fini satirici, ed a caricatura il senso di pastiche satirico (=imitazione di uno stile particolare a fini satirici), poiché sono proprio questi due termini, pastiche e caricatura, che spesso nella lingua parlata finiscono per avere significati simili e sovrapposti. Forgerie è un termine ripreso dal francese antico, introdotto da Genette per definire un’imitazione di uno stile con intento serio, cioè quello che comunemente si chiama apocrifo, quando ci si rivolge a testi antichi, o scritti dei quali si può almeno sospettare un quarto di nobiltà, oppure plagio, etichetta con connotazione molto più cattiva ed infamante, specie nei tempi più vicini ai nostri.

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Il travestimento è qui di conseguenza inteso come trasformazione stilistica (e non imitazione), con particolare funzione degradante, e si distingue dalla parodia per ciò che viene trasformato: mentre la parodia agisce sul soggetto, senza modificare lo stile, il travestimento si preoccupa di trasformare proprio lo stile, lasciando intatto il soggetto [12]. Resta fuori dal nostro discorso la trasposizione, ovvero il tipo di trasformazione seria di un ipotesto.

Quest’ultima, che Genette considera il più importante dei procedimenti ipertestuali, per il risultato che si può ottenere con la sua applicazione [13], molto più articolato e prolungato degli altri, è fondamentalmente un procedimento serio di generazione ipertestuale, anche se le sue sotto-categorie comprendono metodi che possono essere utilizzati in mescolanza con altri procedimenti, anche ludici o satirici (ricordiamoci delle linee tratteggiate): tra gli innumerevoli che Genette propone, vale la pena di ricordare la traduzione, la transtilizzazione (passaggio ad un altro stile), tutte le forme di riassunto (concisione, escissione, espurgazione, condensazione e digest) e le transmodalizzazioni (passaggi di modo, nella fattispecie dal narrativo al drammatico e viceversa, o cambiamenti all’interno degli stessi modi).

È inutile in ogni caso insistere oltre, si è già capito: non esiste un’etichetta, nella tabella che abbiamo adottato, che possa rendere ragione della totalità di un’opera; in qualsiasi scritto, o film, possiamo ritrovare, e in quantità, esempi per ciascuna delle categorie proposte. Certamente i casi limite ci sono sempre, e probabilmente esiste, o è esistito, perfino qualcuno che ha voluto perdere del tempo a scrivere un intero ipertesto di parodia, lungo almeno quanto il suo ipotesto. Ma sono, appunto, casi limite; la maggioranza assoluta delle ricorrenze ci dice che i confini non sono segnati nettamente, ed è giustamente questo il senso delle linee tratteggiate verticali. Brian non fa eccezione: in esso vi si possono ritrovare esempi per ogni categoria, estratti in cui, per scelta, è stata privilegiata una tecnica od un’altra ai fini del risultato che si voleva ottenere. Non interessandoci quelle appartenenti alla colonna “serio”, restano da esaminare le altre quattro: quelle cosiddette di trasformazione, parodia e travestimento, e quelle che invece operano per imitazione, pastiche e caricatura (o pastiche satirico).

Prima però di iniziare l’analisi ipertestuale, mi preme precisare come in un film del genere, sia importante porre l’accento sull’uso della citazione: qui, più che altrove, riprendere qualcosa di già detto da qualcun altro, o mostrare qualcosa di già mostrato altrove, ha un’importanza speciale, per una serie di motivi legati strettamente alla storia della Chiesa, padrona esclusiva, in un certo senso, per secoli dell’argomento che stiamo trattando ora, e delle sue interpretazioni. Compagnon ha scritto un lungo e gradevole libro sulla citazione, sul suo uso e sulla sua storia [14], e nel percorrere quest’ultima, ha contemplato, in una carrellata di esempi di concezioni e di usi della citazione nelle diverse epoche, il modo utilizzato nel Medioevo per riportare frasi o parti di scritti autorevoli, cioè sacri, fossero questi la Bibbia ovvero i Padri della Chiesa, arrivati ad acquistare, al tempo della scolastica, dignità pari a quella degli scritti “divinamente ispirati”. Le auctoritates, termine consueto per designare gli scritti della cui veridicità non era consentito dubitare, erano chiamate in causa sempre, e più volte nello stesso testo, tanto che si era giunti a compilare dei veri e propri cataloghi, o repertori, di brani d’autori sacri, pronti per l’uso. La tradizione, poi, che fu oggetto di dispute da parte dei più insigni Padri della Chiesa per stabilire cosa fosse di preciso, e cosa vi dovesse essere compreso, fu assimilata alle auctoritates, ed ancora oggi ha un peso non indifferente per la Chiesa. La tradizione, nel senso più comune del termine, è in parte anche ciò che rimane di quello che è stato trasmesso nei secoli dalla Chiesa, che riguarda noi ed il nostro modo di ricevere i comandamenti di una religione, e le rappresentazioni che ne diamo, pittoriche oppure nelle ripetizioni di formule consuete, fisse, tradizionali appunto. La tradizione è ciò che s’insinua nella rappresentazione di Brian, perché il richiamo a luoghi (topoi) noti serve appunto come citazione, ricollegandosi ad un intero mondo di tradizioni, e prelude al successivo sovvertimento della stessa dopo averla richiamata.

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II.2.2 Il mondo in una parola

Perché si cita? È una classica domanda dalle mille risposte, tutte ugualmente valide. È un po’ come chiedersi perché gli esseri viventi nascono e muoiono. Compagnon non ha ambizioni escatologiche per la sua spiegazione, ma deve comunque chiamare in causa memorie ancestrali dell’uomo, gesti antichi e un po’ di psicanalisi: “Découpage et collage sont le modèle du jeu d’enfant, une forme à peine plus élaborée que le jeu de la bobine où, dans l’alternance de la présence et de l’absence, Freud voyait l’origine du signe […]”[15] Tagliare ed incollare, operazioni del bambino che gioca con la carta e il barattolo di colla, che plasma la materia già presente mediante l’uso del suo intelletto. Citare è dunque dare nuova forma ad una materia preesistente, è un’operazione primitiva dell’uomo che, cercando di conoscere, crea a sua volta materia di conoscenza. Ciò che spesso sfugge nella facile etichetta di “citazione”, è che intendiamo con questa una sola operazione, mentre essa è anche il lavoro che “conjoint l’acte de lecture et celui de l’écriture.” [16]

Che cosa significa questo? Citare non è soltanto riportare una frase in un discorso; è anche leggere, e ancora leggere, e trovare fra le proprie letture un punto più illuminante di altri; soffermarvisi, rileggerlo, ed infine ricordarlo o annotarlo. È un procedimento lungo e laborioso che viene sfrondato per lasciare l’onore del primo piano al risultato della fatica, un po’ come avviene nel cinema, dove tutto il lavoro a tavolino, e poi tutte le apparecchiature, tutte le persone, ed anche il regista stesso, alla fine sono occultati per lasciare lo spazio soltanto agli attori ed alla scena.

Il senso è uno dei principali problemi della citazione. Delle parole in un certo ordine, nel loro testo originario hanno un significato, mentre nel testo in cui sono riportate, anche se il discorso è simile, acquistano un significato diverso, che viene conferito loro dal contesto, dalla forza che plasma la materia o, se vogliamo, dall’autore. Dice Compagnon: “Le sens de la citation, ce serait donc la relation instantanée de la chose à la force actuelle qui l’investit. Une fois levé le phénomène qui tombait sous le sens, il faut par conséquent […] rechercher le sens du phénomène dans les forces qui le produisent comme un travail.” [17]

Ne dovremmo concludere che, paradossalmente, citare parole altrui è un modo per affermare con più forza la propria identità ed il proprio Io unico e inimitabile. Servendosi di un appoggio solido come l’autorità su cui ci si basa citando, ognuno costruisce a poco a poco il proprio monumentum aere perennius, la scrittura che a lui ed a lui solo è propria. Constatando inoltre la limitatezza delle conoscenze che una persona singola può accogliere, si deve giungere alla conclusione che la scelta del “pezzo” da riportare, nella maggior parte dei casi è frutto di pura arbitrarietà.

La ripetizione, nel nostro discorso, è legata a filo doppio col segno, e giunti a questo punto è necessario dirne qualcosa. Una riflessione di Freud, come detto sopra, supponeva che la ripetizione fosse all’origine della creazione del segno. Benveniste, semiologo e studioso di linguistica, come riassume sempre Compagnon, ha negato che la frase fosse un segno in rapporto ad un livello d’analisi inferiore, quello della linguistica, e questo per evitare che si creasse un nuovo dominio di studio sulla semantica dell’enunciazione. Compagnon contesta questo, aiutandosi con l’esempio della sottile differenza che in inglese esiste fra statement e sentence, o meglio, propone una mediazione: in rapporto ad un livello d’analisi superiore, quello dei fenomeni interdiscorsivi, ci si potrebbe accordare che alcune frasi possano essere identificate come segni: quelle frasi ripetute in enunciazioni sempre uguali, cioè appunto le citazioni.[18]

Immagine articolo Fucine MutePeirce, altro studioso, ha proposto una definizione di segno che Compagnon ha ritenuto la più adatta al suo argomento, con le due motivazioni che sia supera la concezione tradizionale (medievale, risalente a Sant’Agostino), sia si accorda con quella dell’antica retorica di tradizione aristotelica. È la seguente: “Un signe, ou representamen, est un premier, qui entretient avec un second, appelé son objet, une telle véritable relation triadique qu’il est capable de déterminer un troisième, appelé son interprétant, pour que celui-ci assume la même relation triadique a l’égard dudit objet que celle entre le signe et l’objet.”[19] Dato ciò, si origina una triangolazione — e non più una relazione binaria — che si può sviluppare teoricamente all’infinito, e che suppone l’inafferrabilità del segno in sé, e la sua possibile approssimazione soltanto attraverso interpretanti (interpretazioni), molteplici e variabili, che intrattengano con l’oggetto la stessa relazione che esiste fra segno ed oggetto. È importante rilevare che l’interpretante, qui, non è altri che una persona, un qualcuno per il quale il segno è creato.

Seguendo sempre le osservazioni di Benveniste sulla natura del segno, Compagnon conclude che se il segno linguistico è contrattuale, ossia necessario e immotivato (cosa che aveva già puntualizzato Saussure), sarebbe di conseguenza arbitrario un segno motivato e non necessario. Ora, questo è proprio il caso della citazione, perché atto unilaterale di colui che cita, non necessario ma motivato da ciò che chiama incitazione, che non è altro che il gusto ed il piacere che spinge il citatore a scegliere quella citazione, e non un’altra.

La citazione si differenzia pertanto dal semplice enunciato, il quale non ha mai un senso proprio, ovvero un senso fissato una volta per tutte, bensì un senso contingente, un senso che viene conferito ad esso nel momento dell’enunciazione, potenzialmente sempre diverso. La citazione, al contrario, poiché segno, possiede un significato proprio, cristallizzato, fisso, all’interno del sistema d’origine e preesistente rispetto all’enunciazione. Per la citazione conta soltanto il contrasto fra il suo valore di significazione e il complesso dei valori di ripetizione (e non ognuna di queste due opponenti in se stessa). Ciò che interessa a noi di indagare, è cosa sia e cosa comporti questo complesso di valori di ripetizione. Tre operazioni portano alla conclusione dell’iter della citazione: 1) Riconoscimento: la citazione deve essere riconosciuta come tale all’interno dell’ipertesto. 2) Comprensione: la citazione è intesa come nuova enunciazione. 3) Interpretazione: l’aggancio con un testo esterno creato dalla citazione e riconosciuto dal lettore, ovvero il fatto dell’esistenza di una ripetizione, va interpretato.

Il lettore (o lo spettatore) si pone a questo punto nella posizione di terzo, negoziatore e non ermeneuta fra i due sistemi fra i quali ha riconosciuto una relazione, che senza il suo intervento non sarebbe mai esistita. Perché non ermeneuta? Perché svolgere questo lavoro, implicherebbe un’analisi esaustiva, un gesto totalizzante che non lascerebbe nulla al di fuori del suo raggio d’azione. Interpretare, invece, coglie meglio lo spirito della citazione: qualcosa resta sempre “al di fuori”, sconosciuto. Ed è appunto l’interpretazione che produce i valori di ripetizione, quelli che attualizzano la citazione nel discorso. Senza interpretazione, non esistono valori di ripetizione, ma soltanto ripetizioni. Infine, cosa sono allora questi valori di ripetizione? Nel caso della citazione, sono quelli che sostituiscono il senso di una parola. Ciò significa che quando si cita, invece di passare ad un giudizio di verità (cioè a quello che le parole denotano), si passa ad un giudizio di autenticità (cioè quello a cui le parole corrispondono, ovvero le parole originarie citate). Ne consegue che la verità di una citazione, si ritrova nella sua autenticità. Questa osservazione porta alla conclusione che le citazioni, così come le grammatiche o i dizionari, possiedono un potere generativo.

Il lavoro, partendo da questa base, diventa dunque un lavoro di amplificatio, la costruzione di un discorso partendo da elementi generativi, come potrebbe essere, ad esempio, la consultazione di un dizionario e l’individuazione di parole attorno alle quali edificare le frasi. La citazione, nel suo caso particolare, più che di costruire, ha più precisamente il potere di riprodurre dei discorsi, che è un potere un pochino più ristretto di quello dell’amplificatio, la quale si potrebbe paragonare ad una riproduzione allargata.

Compagnon, seguendo un lungo percorso dalla nascita della citazione ai giorni nostri, attraverso l’età antica, il medioevo e l’età del classicismo francese, spiega poi come si sia evoluto il concetto nel tempo. Si può dire con ragione che il momento culminante del processo, tralasciando le evoluzioni prima e le aberranze poi, sia da collocare attorno alla metà del secolo XVI, quando alla citazione fu riconosciuta l’autonomia tramite identificazione e diversificazione dal resto del testo, autonomia possibile grazie all’avvento della stampa a caratteri mobili ed all’invenzione delle “guillemets” [20], le virgolette, che ancora oggi si usano a questo scopo. L’immobilizzazione (cioè la messa al riparo da qualsiasi strumento di modificazione) della citazione è dunque una condizione necessaria al suo riconoscimento ed alla sua interpretazione, nella letteratura così come nel cinema.

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Riguardo a Brian, quello che c’interessa è l’uso della citazione (specialmente quella pittorica) come tecnica d’introduzione necessaria nella comicità pythoniana, all’inizio di quasi ogni scena. Utilizzata appieno nel suo potere generativo, richiamando storie ed avvenimenti delle Scritture, con tutto il corredo di tradizioni e luoghi comuni presenti nella coscienza collettiva degli spettatori di cinema che queste portano con sé, rende maggiore e più fragoroso l’abbassamento di se stessa che le pratiche ipertestuali compiranno immediatamente dopo. Come per l’illustrazione dei temi, porto alcuni esempi.

II.2.3 La citazione ed il suo abbassamento

Prima ancora di cominciare a parlare delle citazioni, vale la pena osservare che il set utilizzato a Monastir (Tunisia) dai Monty Python, è in gran parte lo stesso lasciato da Zeffirelli dopo la lavorazione del suo Gesù di Nazareth (1977), e la scena della lapidazione, quella dove alla fine l’ufficiale ebraico che doveva bandirla è lui stesso lapidato dalla folla, è stata girata nello stesso punto in cui il regista fiorentino girò la sua sequenza di lapidazione. Inoltre, molti degli stessi luoghi già apparsi nel Gesù fanno la loro comparsa come sfondo delle scene di Brian.Già questo semplice fatto, secondo me, spiega molte cose.

Scrivendo Life of Brian, i Pythons hanno avuto sempre ben presente l’iconografia dei classici kolossal biblici americani, in special modo quelli degli anni ’50 e ’60. Le pose da cartolina di The Greatest Story Ever Told (La più grande storia mai raccontata, G.Stevens, 1965) e King of Kings (Il re dei re, N.Ray, 1961), i film biblici che più hanno avuto successo ai loro tempi, sono da loro prima riportate fedelmente, poi snaturate ed infine dissacrate[21]. Ciò che comunque assume rilevanza in questo metodo, è la presenza di un immaginario cinematografico collettivo, che comprende i metodi più usati per la rappresentazione di certe scene, quelli oramai divenuti tanto banali da poter essere presi in giro.

Specifico che per ipertesto intendiamo, secondo l’autorevole suggerimento di Genette, e come già visto nella tabella di pag. 87, “qualsiasi testo derivato da un testo anteriore tramite una trasformazione semplice (d’ora in poi diremo solo trasformazione) o tramite una trasformazione indiretta, che diremo imitazione.”[22] Analizzeremo il film secondo le due direzioni, basandoci sulla netta divisione orizzontale fra trasformazione ed imitazione, stante una più labile divisione fra le colonne dei regimi ludico, satirico e serio, e vedremo il rapporto che instaurano ogni volta con la citazione, della quale rappresentano l’abbassamento, funzionale alla comicità nel film.

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Cominciando dall’inizio, l’arrivo nella notte dei three wise men presso il paesino arroccato sulla collina, indicato loro dalla stella cometa, è quanto di più stereotipato possa esistere, rispettando in ogni dettaglio la tradizionale messa in scena di una qualsiasi recita di Natale delle elementari; allo stesso modo il loro passaggio attraverso le strette calli della cittadina, sempre accompagnato da musica d’ambiente sacra, non si discosta per nulla dall’immaginario collettivo. Qui è difficile dire precisamente da dove i Pythons stiano attingendo, però sappiamo che il loro bersaglio preferito è una generica mistura di film biblici, specialmente americani, come abbiamo detto. Infatti, la sensazione che si prova guardando questo primo minuto di film, non conoscendo il seguito, è di perfetta normalità, tutto sembra al suo posto, e quando notiamo le tre sagome dei magi a dorso di cammello, sorge spontaneo un: ”ah, è un film su Gesù.” Ma l’abbassamento non tarda ad arrivare e a rompere il prosieguo della citazione, con una vera e propria caduta (per terra) di Mandy, la madre di Brian, sorpresa dall’arrivo dei tre nella stalla. Il contesto che si stabilisce quando incomincia ad intrattenersi un discorso fra i magi e la donna, è ciò che abbassa e fa terminare la citazione, mettendo in moto il meccanismo del travestimento (che sappiamo agire sullo stile senza determinare cambiamenti sul soggetto), per il quale noi crediamo che sia Maria la madre di Gesù a parlare (non sappiamo ancora infatti che i Magi hanno sbagliato stalla), nella condizione che le è propria, ma in un linguaggio da bassa popolana. Il contrasto con quello che ci aspetteremmo, ovvero un registro se non aulico, perlomeno un po’ più cortese, genera in noi il riso, aggravato poi dall’avidità della donna, che cambia atteggiamento con gli ospiti quando sente parlare di doni, e dalla sua ignoranza sul fatto che essere del Capricorno non significa automaticamente essere il Messia, Re dei Giudei:

MANDY: Vi ha guidato una bottiglia! Coraggio, fuori!

RE MAGO 1: Ma, ma noi dobbiamo vederlo. Gli abbiamo portato doni

MANDY: Fuori!

RE MAGO 2: Oro, incenso e mirra

MANDY: Ah, be’, ma perché non l’avete detto subito, entrate! Scusate, c’è un po’ di disordine. Ma la mirra che cosa sarebbe?

[…]

MANDY: E così siete astrologi, eh? Lui che cos’è?

RE MAGO 2: mmm?

MANDY: Dico, di che segno è?

RE MAGO 2: Ehm, Capricorno

MANDY: Ah, Capricorno, eh? E che tipi sono?

RE MAGO 2: Oh, ma lui è il figlio di Dio, il nostro Messia

RE MAGO 1: Il Re dei Giudei

MANDY: Lo sono tutti i Capricorni?

RE MAGO 2: Oh, no, no, no. Solo lui

MANDY: Ooh, mi pareva, se no sarebbero in troppi

Quando però si accorgono del loro, errore, i Magi assumono improvvisamente un atteggiamento brusco, si riprendono con la forza i doni strappandoli dalle avide braccia della donna, scaraventandola persino per terra con una manata, per porgerli devotamente in offerta alla stalla vicina, quella giusta:

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E qui ritorna in gioco la citazione, pittorica anche stavolta, che mostra una conformità impressionante con le figure del presepe, o delle più sdolcinate cartoline natalizie[23]; la quale citazione, però, assume in questo contesto già viziato dall’intervento della madre di Brian, un’impronta di esagerazione, specie nella luminosità delle aureole di divinità attorno alle teste della Sacra Famiglia, e quindi risulta esagerata, anche se non alterata rispetto a come le dette cartoline siano dipinte o stampate in realtà. Questa è già la prima influenza del contesto nel film, influenza che a mano a mano si accrescerà sempre di più. D’ora in poi sarà impossibile guardare le citazioni che il film propone, senza aspettarsi un immediato abbassamento, che infatti seguirà immancabilmente.

Dopo la Sacra Cartolina, partono i titoli animati di Gilliam, e ci si ritrova nuovamente avvolti da un’aura sacra, con musica di sottofondo, che introduce al religioso pellegrinaggio delle genti verso un luogo, che poi si intende essere la Montagna dove Gesù sta tenendo il suo famoso discorso. Lo vediamo infatti intento a pronunciare le beatitudini, nel più classico stile didascalico: egli sul sommo, ben visibile, e gli astanti più in basso e, a mano a mano, più in lontananza. Si arriva all’ultima fila, dove un’altra volta la madre di Brian interrompe quella che fino a quel momento era una citazione senza sbavature, per urlare il più classico dei richiami da comizio: ”Voce!” Secondo logica ne ha tutte le ragioni, perché l’inquadratura ci mostra che è veramente lontano per essere inteso a modo; ma l’atmosfera sacra, pur non venendo dissacrata, viene nondimeno abbassata: Gesù resta la figura che ci tramandano i vangeli, e l’abbassamento stavolta riguarda il suo seguito, che parla in tutt’altra maniera da come siamo abituati ad immaginare. Si realizza immediatamente che forse è più probabile che parlassero così i popolani del tempo, e comunque si deve tener presente che nei vangeli i discorsi riportati non sono mai quelli che la gente intratteneva fra di sé, bensì quelli che le persone rivolgevano a Gesù, presumibilmente nella loro forma più educata possibile, quella che è propria della prosa degli evangelisti. Con questo, siamo subito immersi nel clima popolare e nel modo di ragionare che contraddistinguerà anche i futuri seguaci di Brian.

La trasformazione più greve si avvera dopo, quando vengono storpiate le parole di Gesù sulle beatitudini:”Beati i panificatori” e “Beati i puri liquori”[24], che oltre a confermare ancora una volta quello che diceva Bachtin, a proposito dell’abbassamento fisico che cade sempre verso il ventre e gli appetiti materiali, circostanziati bene nella situazione anche con l’aiuto del tema del naso [25], che è il motivo scatenante della zuffa che si crea, è anche una procedura ipertestuale di trasformazione, con particolare intento satirico: una parodia, usando i termini di Genette[26].

Proseguendo nella loro strada, Brian e sua madre si dirigono verso la lapidazione che sta per aver luogo, alla quale però le donne non possono assistere, ed è perciò necessario l’acquisto di una barba per mascherare Mandy. Brian, educatamente domanda il perché del divieto, e la madre dice: “It’s written, that’s why”, che in italiano suona con un più brusco: “Perché è scritto e basta!” In ogni caso, la solennità della prescrizione biblica è infranta due volte: nella maniera della risposta (che anche nella lingua originale ha un certo che di colloquialità), e nel sottinteso della stessa, cioè che il divieto è trasgredito senza farsi troppi problemi, soltanto la seccatura di indossare una barba finta e l’ipocrisia di fingere di essere uomo quando tutti, ma proprio tutti, conoscono lo stratagemma della barba; tutti forse, tranne l’ufficiale ebraico che legge la condanna, e che sarà l’unico davvero lapidato. Persino le pietre per la lapidazione sono vendute ad un banchetto, come fossero spuntini da consumare ad uno spettacolo. Qui la citazione interviene all’inizio, con la fedele riproposizione di un processo sommario del tempo[27], con il condannato tenuto fermo da due guardie romane, e l’ufficiale che in tutta la sua pomposità lo accusa di avere nominato invano il nome del Signore Geova. Fin qui, tutto bene. Ma l’abbassamento avviene subito: Mattia, il condannato, dice che ha solo detto a sua moglie: ”Questo pezzo di baccalà è degno di Geova.” Il baccalà è un cibo prettamente popolare (anche se non so se i merluzzi arrivino assieme a qualche strana corrente fredda fino in Palestina…), e l’ingenuità del poveraccio è punita con la massima severità non solo da un’ottusa Legge religiosa, ma anche da feroci donne travestite da uomo, ben consapevoli di peccare anche loro. La strana situazione di ipocrisia che si crea, porta nondimeno alla giusta conclusione: l’ufficiale, a cui sfugge un paio di volte un “Geova”, è lapidato e il condannato è liberato. Nel rovesciamento del giudice che viene giudicato, mi pare di riconoscere un travestimento: il cerimoniere, pur conservando la sua carica ed il suo rango, provocato, comincia a perdere le staffe e subisce la stessa punizione che vorrebbe infliggere.

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La citazione che introduce la scena seguente è oltremodo rapida: carrellata classica di tre-quattro lebbrosi imploranti carità a dei passanti, e quinto che si distingue subito dicendo che è un “ex-”lebbroso[28]. Sapremo poi, nell’insistente preghiera che fa a Brian, che era stato guarito da Gesù, ma non gl’interessava affatto, poiché l’elemosina era il suo introito sicuro, che gli consentiva di campare senza affaticarsi troppo. Quando Brian, anche dopo avergli dato una monetina, lo rimprovera perché “certa gente non si accontenta mai”, egli ammette che gliel’aveva detto anche Gesù. Qui assistiamo già ad un rimescolamento della tassonomia che propone Genette, perché se isoliamo la storia della guarigione del lebbroso da parte di Gesù, vediamo che essa viene interamente riproposta, però da una prospettiva rovesciata: è un caso di trasposizione, e più precisamente si tratta di transvalorizzazione secondaria, dove il comprimario viene ad assumere un ruolo maggiore rispetto a quello che aveva nell’ipotesto; in questo caso, la storia evangelica in cui il lebbroso era quasi del tutto passivo e Gesù, come sempre d’altronde, l’eroe attivo. Ma non avevamo detto che la colonna “serio” non c’interessava? Questo è solo un esempio, e Genette stesso ne sarebbe contento, di come un’ipotesi formale viene nei fatti scompaginata, disgregata, cancellata. O perlomeno, mescolata assai abilmente alle altre.

Brian e Mandy, li avevamo lasciati che stavano per entrare in casa. Una volta entrati, c’è un sergente che attende la donna, presumibilmente per averne dei favori sessuali. Qui, in effetti, citazioni non ne vedo, e forse questa scena è funzionale soltanto al riconoscimento di Brian come Romano, onde evidenziare le sue future pusillanimità quando sarà catturato e protesterà la sua cittadinanza imperiale[29].

La scena del colosseo di Gerusalemme, invece, richiama subito alla memoria i combattimenti dei Cristiani contro i leoni in Quo Vadis? (1951), che pure non si vedono, ma dei quali abbiamo delle sontuose rappresentazioni delle gradinate, onorate dalla presenza dell’Imperatore Nerone. E poi, chi non ha mai visto la corsa delle bighe in Ben Hur (1959), in un Circo Massimo gremito in ogni ordine di posti (si dice ne tenesse circa trecentomila)? Ammettiamolo, quando mai, al cinema, si è rappresentata un’arena quasi vuota, con qualche sparuto e annoiato patrizio in tribuna, e cospiratori perdigiorno sugli spalti, ad assistere ad uno spettacolo di seconda categoria (gli spettacoli per le scuole si tengono infatti solitamente di mattina, perché la sera è riservata al gran pubblico)? Che io sappia, mai. Qui si passa direttamente dalla citazione all’abbassamento, alla ridicolizzazione dello spettacolo cruento, si potrebbe quasi parlare di un travestimento, poiché i soggetti rimangono gli stessi di quelli che conosciamo, mentre è lo stile della rappresentazione che cambia. Nel contempo, però, abbiamo anche una parodia: è quella che si realizza in Brian venditore di improponibili snack sugli spalti (milze di gattopardo, adenoidi numìdi in umido, ecc.), ed anche nei discorsi del Fronte Popolare di Giudea, che parla di rivoluzione e di diritti delle donne dandosi arie di importanza, mentre in realtà sono un gruppuscolo che non conta niente.

La latin lesson, il lavoro importantissimo affidato al nuovo compagno Brian, si presenta con tutte le caratteristiche dell’incursione notturna: oscurità[30], musica di suspense ed atteggiamento circospetto, il tutto nel più rigoroso cliché cinematografico, compreso l’arrivo di soppiatto del manipolo di guardie con sorpresa del malcapitato. Ma quando arriva l’inquadratura della scritta incriminata, ecco che crolla l’attesa e viene stimolato il riso: non solo la frase non ha nulla di particolarmente offensivo, ma è pure sgrammaticata. Al che, il solerte centurione provvede alla correzione, anche qui portando alle estreme conseguenze il luogo comune della rigidità delle regole romane, rigidità che non vale di meno per la sintassi. Ma è proprio questa rigidità che porta ciò che era un’azione meschina ad essere una minaccia severa, ovvero il far scrivere “cento volte” la frase errata, sulle mura del palazzo. Anche in questo caso mi pare prediletto il metodo del travestimento, poiché il centurione si occupa in maniera anomala di un caso che rientra nelle sue competenze.

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Come ho già scritto nel capitolo precedente, l’atteggiamento del Fronte Popolare di Giudea è quello dei dilettanti allo sbaraglio, ed effettivamente il modo di condurre l’assemblea per decidere il rapimento della moglie di Pilato (la quale resta senza un nome nel film) non ha davvero i crismi del complotto segreto, quanto piuttosto della riunione sindacale di piazza[31]. Anche qui ricorre il breve procedimento di citazione iniziale, con le indicazioni dettagliate delle mosse da seguire indicate al gruppo riunito su di una piantina con l’aiuto di un indicatore (un cucchiaio), tipico stereotipo del film giallo. Ma sono la sconclusionatezza e la confusione che la fanno da padrone nel dibattito che segue, venendo a galla la sostanziale pretestuosità dei motivi per i quali si vorrebbero cacciare i Romani dalla Palestina, avendo constatato che hanno portato soltanto benefici. Anche qui la parodia è ciò che si attaglia di più a descrivere l’inversione del cliché; così come la classica formula, tipica di civiltà e di tempi più remoti, di norma repertorio riservato ad autorità che conferivano onorificenze, con la quale dopo un’impresa memorabile un uomo illustre riceveva un nuovo nome o soprannome, qui è parodiata, grazie anche all’evidente incompatibilità del nome anglosassone con l’ebraico: “D’ora in poi ti chiamerai Brian, meglio conosciuto come Brian.”

L’incursione nel palazzo di Pilato serve soprattutto a renderci coscienti che il FPG non è che un manipolo di male organizzati sedicenti rivoluzionari, e che come loro lo sono anche gli altri gruppi “sovversivi”, come in questo caso la Campagna per la Galilea Libera. Nella stupida ripicca infantile su chi avesse avuto per primo l’idea del rapimento, s’inserisce ancora l’elemento estraneo moderno: la torcia elettrica, che fa assomigliare il tutto ad una caccia al tesoro condotta da due squadre avversarie di bambini. Ma anche qui, le intenzioni al momento dello stacco dalla scena precedente sembravano serie, come la calata nel pozzo, il passaggio attraverso le fogne ed i condotti di riscaldamento. Ma già la “fogna commemorativa di Cesare Augusto” è un evidente cazzotto grottesco, che provoca l’abbassamento massimo della figura massima, perché più in basso della fogna non si può proprio scendere. Quando poi si sale fino ad uscire nel punto “clou” del mosaico pavimentale che decora la sala delle udienze di Pilato, che è la citazione di un famoso mosaico erotico di Pompei, l’azione tutta subisce un altro complessivo abbassamento, venendo visivamente associata con la parte nascosta dal panno; tanto più che il primo cospiratore esce tenendo sulla testa proprio il pezzo di pavimento con lo straccio, quello che copriva le pudenda dell’uomo ritratto, creando un’ulteriore associazione implicita con una diffusa offesa che si rivolge a qualcuno che non amiamo particolarmente, o che riteniamo stupido. Non ci potremmo mai aspettare un esito positivo da un’azione che parte con queste premesse.

Brian, unico sopravvissuto, viene sbattuto in cella dopo essere stato trascinato giù per le scale delle prigioni romane da un carceriere che sembra il cugino di Quasimodo, il Gobbo di Notre-Dame de Paris (Terry Gilliam); questo scenario terribile assomiglia molto all’idea che tutti abbiamo delle carceri romane, oscure segrete nelle quali prigionieri marcivano dimenticati da tutti, guardati da carcerieri orribili e spietati. Il massimo della spietatezza di questo carceriere è uno sputacchio in faccia e le manette. Il compagno di cella di Brian ci dice che la sua prigionia è stata molto più dura, ma subito il ribaltamento interviene e scopriamo che egli ha abbracciato totalmente la causa romana[32]. È un chiaro caso di travestimento, perché il soggetto che parla non muta di condizione, ma cambiano completamente il registro e le formule, essendo quelle tipiche di un cittadino romano, mentre da un carcerato da tanti anni ci aspetteremmo molto astio verso i suoi aguzzini.

Proseguendo, Ponzio Pilato è a mio parere la figura meglio riuscita del film, stavolta proprio perché non è stravolta la realtà storica, che ci dice i Romani “borghesi” essere spesso di carattere effeminato e molto protettivi nei confronti delle loro amicizie maschili, nonché gelosi del loro potere; bensì perché è rivoltata la figura maschia e virile del cliché hollywoodiano per lo statista romano. Il difetto di pronuncia, più che una marca d’effeminatezza, serve ad introdurre vari giochi di parole ed equivoci, che comunque non inficiano il registro del parlato del governatore. Si verifica qui uno sdoppiamento che consente di adottare due punti di vista: proprio l’aderenza più alla verosimiglianza storica che allo stereotipo dei film che l’hanno preceduto, secondo me, fa di Ponzio una citazione più che un travestimento, che introduce una scena molto divertente che risulta, nei fatti, una parodia soltanto perché siamo abituati a vederlo rappresentato come un persona vile, meschina se vogliamo, ma mai effeminata e con difetti di pronuncia. Forse perché non si è mai accettato che una figura importante come Gesù potesse essere giudicato da un molle gerarca romano, ed è questo contrasto che procura il riso. O forse si è inteso abbassare di riflesso la figura di Brian, dandogli come giudice una caricatura del Pilato che esiste nell’immaginario collettivo. A dire il vero, tutte le ipotesi sono possibili e plausibili.

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La scena dell’astronave non risponde al metodo che abbiamo individuato, ed è infatti del tutto gratuita, l’unica animazione di Terry Gilliam (ad esclusione dei titoli di testa), che tra l’altro non ha nemmeno la funzione di raccordo che è solita espletare (nel Flying Circus le animazioni, pur avendo vita propria, sono sempre state considerate da Gilliam e dagli altri dei raccordi tra gli sketch). È un simpatico intermezzo.

Harry il trattatore, come abbiamo anticipato, è una creatura di Eric Idle. Vi si riconosce l’amore per la disputa su temi futili, il gioco di parole, la verbosità dilagante. Questa scena, come la precedente, ha una funzione limitata nell’economia del racconto. La sua utilità si realizza quasi di sfuggita, perché è qui che Brian si procura la zucca che poi causerà l’immediata divisione dei suoi seguaci in “partito della scarpa” e “partito della zucca”.

Il seguito, che si svolge all’interno della sede del Fronte, è una scena improntata all’assurdità, dove Brian è “rinnegato” dai suoi stessi compagni che hanno paura di un’incursione dei soldati, e dove una corposa pattuglia di Romani non riesce a scovare in uno spazio piccolissimo i membri nascosti grossolanamente dietro a tende o dentro a ceste, e l’unico elemento che esce da un’ispezione più approfondita è soltanto un cucchiaio di legno. Brian, in sospeso su un poggiolo di legno scricchiolante, cade in testa ad un profeta e lo spedisce di sotto del palco dove stava annoiando gli ascoltatori con discorsi sconclusionati, facendo centro perfetto in una giara. La gente applaude per il bel colpo, ma si aspetta subito che anche lui predichi qualcosa nello speaker’s corner dell’epoca. Qui è il raccordo semi-circense a fare da connessione con quello che precede, e ad abbassare del tutto la parabola dell’assurdo, prima del climax trionfale della consacrazione a Messia. Un attimo di silenzio e poi la citazione dal vangelo[33]: “Don’t pass judgement on other people, or else you might be judged, too.”, seguita da “Consider the lilies in the field.”, e poi, visto che i gigli non interessano, dagli uccelli[34]. Sono tutti pezzi che si ritrovano davvero nei vangeli, compreso il successivo accenno alla parabola dell’uomo che aveva tre servi ai quali diede dei talenti prima di partire. Brian, dopo aver riportato fedelmente le prime frasi, si confonde sul numero dei servi, attuando il lavoro ipertestuale della parodia e giocandosi nello stesso tempo la fiducia dell’uditorio, per arrivare a delle frasi totalmente sconclusionate al momento del passaggio della truppa di soldati romani, la quale però non lo riconosce e prosegue avanti. Il culmine del fraintendimento arriva quando appunto sembra che alla gente non importi più nulla di quanto sta dicendo Brian, che nell’incredulità per averla passata liscia sembra avere un’estasi da ispirazione divina, e pertanto suscita la curiosità. È doveroso rilevare che la gente comincia ad interessarsi solo quando Brian sta dicendo: “E soltanto a loro sarà dato…”, per sottolineare la bramosia eminentemente utilitaristica di queste persone, il vero bersaglio del film.

L’azione che segue, in soldoni, risulta comica grazie al fattore tempo: in realtà i Monty Python non dipingono altro che il naturale evolversi di una qualsiasi religione attorno alla sua figura carismatica, con contrasti interni, dissidi sull’ortodossia, interpretazioni esaltate e fuorvianti, dettate dalla foga. Il punto è che quello che normalmente avviene in un lasso di tempo molto ampio, a volte anche secoli, qui è riprodotto in tre minuti. Le citazioni verbali, e quelle pittoriche allo stesso modo, in sé non hanno nulla d’irriverente: vi ritroviamo il popolo che attornia Gesù e chiede il miracolo e lo provoca con domande sulla vita eterna; vi ritroviamo chi vuole comprare un oggetto appartenuto al Messia; c’è persino chi si pone da sé subito come guida del seguito, facendosi portavoce delle esigenze della folla e somministrando pene ai dissidenti; ci sono da subito le fazioni veneranti soltanto un aspetto particolare del Messia, od un oggetto da lui lasciato ed interpretato come segno; c’è chi annuncia già di essere stato miracolato; c’è infine il Messia scontroso, che vuole essere lasciato in pace, come accade a Gesù talvolta, irritato dalla troppa folla ipocrita che vuole solo i benefici che lui promette. Ribadisco che in tutta l’intera sequenza che segue, dall’inseguimento sino alla rimozione del miscredente eremita Simone, non vedo nessuna irriverenza nei confronti della religione, ma soltanto la rappresentazione più vivace è più veloce di quello che realmente accade ed accadde. L’unica cosa che viene messa in risalto con questo procedimento, è l’ottusità della folla, che non riesce a vedere che chi ha davanti non è nient’altro che un uomo normale, neanche quando li manda, senza mezzi termini, “a fanculo!”

Così come Gesù è raffigurato come un figlio devoto ai genitori, più di tutto alla madre, così Brian è ubbidiente e timoroso come un bimbetto agli imperiosi comandi della madre, sia quando gli ingiunge di andare a mettere a posto la sua stanza, sia quando chiede spiegazioni per la folla sotto la finestra: la figura che fa è sempre quella del cocco di mamma, anche se ormai è cresciuto. Anche qui la situazione iniziale sembra normale: Brian si sveglia con accanto Judith, evidentemente hanno passato la notte assieme, e va alla finestra ad aprire, ancora però senza vestiti. Ed ecco pronti ad osannarlo 750 fedeli (è il numero delle comparse ingaggiate per la scena). Altro abbassamento: quando mai un Messia o presunto tale, è apparso nudo al pubblico dei suoi fedeli? Mai, mi sembra…Comunque sia, per sbrogliare la situazione, Brian utilizza qui un campionario di citazioni, di luoghi comuni del pensiero contemporaneo, un collage di slogan, allo stesso modo in cui prima ha utilizzato delle frasi prese qua e là dai vangeli: “Non è necessario che seguiate nessuno al mondo”, “Siete tutti degli individui”, “Ognuno di voi è diverso”, “Dovete tutti imparare a cavarvela da soli”, “Non fatevi mai dire da nessuno che cosa fare.” Il punto è che, messi tutti così assieme in un’accozzaglia, pur conservando la loro carica originaria, acquisiscono anche un secondo significato comico, perché sembra (ed è il rischio di chi usa troppe citazioni nei suoi discorsi) che Brian ripeta a macchinetta cose sentite dire da altri e non possieda un pensiero proprio, usando frasi di sicuro effetto soltanto per liberarsi di una folla scomoda per lui. È da notare il ragazzino impertinente che chiede alla madre se lei sia vergine: probabilmente vuole sapere se questo Messia ha delle parentele con “quell’altro”.

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Le conseguenze di questo discorso, però, sono devastanti: il suo gruppo ora fa le veci di un apparato ecclesiastico e gli organizza persino un meeting su una montagna presa in affitto (da George Harrison), nonché curare i suoi “rapporti con il pubblico”, per dirla alla moderna, ovvero la creazione di file e liste di attesa per coloro che vogliono essere benedetti dal Messia, ed entro poco arriveranno di nuovo a pensare in grande, perfino alla supremazia mondiale nel giro di cinque anni. Lui non perde la sua dimensione, ma è tutto ciò che gli ruota attorno che si gonfia in maniera grottesca, e nessuno sembra accorgersi di stare prendendo un granchio credendolo il Messia. Di nuovo frainteso nel suo ruolo, si ritrova a giocare a fare la parodia del Messia. La logica conseguenza è un nuovo arresto.

Quello che segue nel palazzo di Pilato, è ancora una volta un parallelo ad un livello più basso: Brian è condannato sommariamente alla crocifissione assieme ad altri 139, visto che è l’occasione speciale della Pasqua ebraica. Ad un supposto Messia anche il Ponzio di Brian avrebbe riservato un trattamento migliore; invece chiede persino se ci siano altre crocifissioni già in programma per quel giorno, come se non intendesse allestirne una soltanto per lui.

Le scena che segue, dove il Fronte è in perenne discussione e votazione su temi futili, accentua sempre più il carattere vacuo di questa associazione e non aggiunge nulla di nuovo; allo stesso modo la presentazione del carceriere mite, a mio parere non influisce più di tanto sulla percezione del film, tranne il ribadire ancora una volta l’ostinazione di Brian a dichiararsi romano per evitare la condanna.

Il discorso di Pilato sulla liberazione del malfattore è un altro grande pezzo: come non ricordare la narrazione evangelica, con la folla che urla il nome di Barabba? Qui la folla, traviata dal difetto di pronuncia del governatore, comincia a prendersi gioco del medesimo urlando nomi (moderni) infarciti di “r”, dimenticandosi di indicare il prescelto per la liberazione. Se non fosse per l’imperfezione, il discorso non avrebbe proprio nulla di risibile, ma sarebbe anzi molto verosimile, come del resto tutto ciò che concerne il personaggio del governatore romano.

L’altra grande parodia è rappresentata dalla “via crucis” del gruppo crocifissi. In ogni chiesa si possono guardare le quattordici stazioni del calvario di Gesù, e abbiamo tutti sotto gli occhi le scene che vi sono dipinte, che sono riprodotte con fedeltà assoluta, pur nella loro brevità, tranne appunto per la massa di gente che sfila, e per il buon passante che sorregge la croce ad un poveretto, che somiglia spaventosamente, come ho già fatto notare [35], al Robert Powell di Zeffirelli, e che all’insperato generoso aiuto se la svigna come un ladro.

Ormai giunti verso la fine, le scene si susseguono con notevole rapidità, fino ad arrivare al grande dipinto finale, per filmare il quale sono occorsi ai Monty Python ben tre giorni. Una volta sedate le dispute etniche e issati tutti i condannati, Brian compreso, riprende la parodia, con la visita ai piedi della croce di svariati personaggi: il Fronte Popolare di Giudea, il centurione incaricato della liberazione di Brian, Judith, Mandy, il Fronte Popolare Giudaico. Tutti sono accomunati dall’assurdo assunto che i prigionieri possono venire facilmente liberati (sono infatti legati solo da corde, non inchiodati), e lo sappiamo grazie al vicino di croce di Brian, il burlone che si spaccerà per lui e verrà davvero liberato al posto suo. Nei fatti, però, sembra che il destino sia ineluttabile e che tutti non contemplino nemmeno la possibilità di tirarlo giù, forse preferendo lasciare a marcire per poi dimenticare un personaggio che loro non capiscono, troppo lontano dal modo ottuso di ragionare delle folle.

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II.3 La traduzione

Il lavoro che mi ha convinto a dedicare un a parte al tema della traduzione filmica, e che prima ancora mi aveva definitivamente persuaso della giusta coincidenza dell’argomento di questa tesi con i miei interessi, è la raccolta degli atti di un convegno svoltosi a Trieste il 29 e 30 novembre 1996, dal titolo Tradurre il cinema [36]. Gli interventi di illustri studiosi e rinomati professionisti del cinema, là riportati, gettano ampia luce su ciò che spesso viene trascurato tanto sembra naturale, o secondario rispetto alla, chiamiamola così, essenza del cinema.

In Italia siamo abituati male, oppure molto bene, dipende dai punti di vista. Possediamo flotte di adattatori e di attori/doppiatori fra i migliori al mondo, e sono forse loro coloro che ci hanno fatto piacere tanto cinema straniero che altrimenti, probabilmente, non ci avrebbe “catturato” come invece ha fatto. Proprio questo lavoro, che, come partecipe delle tecniche cinematografiche, ha come necessità quella di far “uscire dall’inquadratura” tutto il processo che c’è voluto per realizzarlo, lasciando solo il nettare, il discorso, le immagini, i gag doppiati, cercando di farli sembrare i più naturali possibili, come se il film fosse italiano a tutti gli effetti; proprio questo lavoro, dicevo, giustifica un discorso a parte. Nella misura in cui è successivo alla produzione del film, esso ne è come un corpo estraneo, anzi meglio: svolge la stessa funzione dell’operazione di chirurgia estetica, che vuole rimodellare una parte del corpo secondo il gusto o la moda del momento, invece di lasciarla invecchiare naturalmente.

Il paragone estetico mi sembra particolarmente pertinente: la traduzione ha, infatti, come primo impatto proprio la percezione estetica, primariamente sonora in questo caso, ma comunque legata indissolubilmente all’immagine filmica, parte integrante di essa. Dico primo impatto, poiché al contrario la prima funzione di una traduzione è notoriamente pratica, logica: eliminare un gradino nella comprensione del testo filmico da parte dello spettatore, riportando il testo in una lingua diversa da quella originaria [37]. Come si può facilmente immaginare, la funzione pratica rimane sempre presente, ma la funzione estetica, secondaria, è venuta ad assumere un carattere sempre più professionale, quasi alla pari della funzione primaria. Queste due facce della medaglia, logica ed estetica, lungi dall’essere in competizione, spesse volte si aiutano a vicenda, e là dove manca o è difettosa una delle due, spesso l’altra le viene in aiuto: quanti film di serie B o C abbiamo visto e continuiamo a vedere nelle seconde serate (a volte, ahimè, anche nelle prime o durante i pomeriggi) sulle reti televisive? Se fossero anche doppiati male, intendo, senz’arte da attori, ma soltanto con una piatta traduzione senza eccessiva interpretazione, meglio: se fossero soltanto sottotitolati, che ne sarebbe di loro? I dialoghi la maggior parte delle volte sono di una semplicità di linguaggio (leggi: piattezza) veramente elementare, pertanto l’unica cosa che li potrebbe salvare, e che in effetti tante volte li salva, è proprio l’interpretazione degli attori/doppiatori.

Il nostro caso, ancora una volta, è differente. In un film comico, così come è richiesto ad un cabarettista sul palcoscenico mentre esegue il suo spettacolo dal vivo, o dal comico tout court, dal quale ci si aspetta semplicemente che “faccia ridere”, ci vuole concorrenza e concomitanza di due cose: tecnica teatrale di interpretazione più battuta che faccia ridere. Qui non si scappa: se manca una delle due cose, la risata muore in gola o non arriva proprio, ed è il fallimento della comicità, come appunto sanno i cabarettisti e gli attori comici di mestiere. E quindi facile capire quanto sia delicato il compito degli adattatori di film comici, o di film-commedia: non basta interpretare bene, o tradurre comprensibilmente il testo, bisogna anche che “faccia ridere”, che stimoli il riso nel pubblico, o almeno il sorriso.

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Questa sfida mi è sempre parsa particolarmente stimolante, sin da quando ho avuto il primo impulso di fare un confronto fra la versione originale del lavoro dei Monty Python e la trascrizione del doppiaggio italiano; la curiosità di sapere “com’era in inglese” è stato il motore della mia curiosità, e a ben pensarci, se tanta curiosità c’è stata, può significare una sola cosa: che la traduzione aveva raggiunto il suo scopo.

Mi piacerebbe dunque cominciare questa rassegna di curiosità traduttive con il pezzo che ho scelto per titolo al mio lavoro:

BRIAN: I’m not the Messiah! Will you please listen? I am not the Messiah, do you understand?! Honestly!

BRIAN: Io non sono il Messia! Volete ascoltare, per favore? Non sono il Messia, avete capito? Lo giuro su Dio!

La battuta originale è molto divertente per un pubblico avvezzo alla comicità dei Monty Python e al modo inglese di divertirsi in generale, un po’ sottinteso e molto sottile. Quella italiana è molto più eclatante, da Commedia dell’Arte, col botto finale, si potrebbe dire, che esplicita l’insofferenza di Brian nei riguardi dei seguaci: fa molto ridere un pubblico italiano. Però la traduzione non è fedele. Qui è il nocciolo del problema: privilegiare la fedeltà, o adattare il gusto? Diciamolo chiaramente: se quell’”Honestly” fosse stato tradotto con, mettiamo, “sul serio” o “davvero”, nessuno avrebbe riso, in Italia. “Honestly”, invece, parola di registro abbastanza formale e molto edulcorata quanto a forza espressiva, avrebbe fatto ridere un inglese, perché alla fine di affermazioni forti e decise come quelle che la precedono (“I’m not!”, “do you understand?”), sa tanto d’impuntazione infantile, di un bambino che non sa più quello che dire per far valere le sue ragioni, e il contrasto, aiutato dall’irosa espressione di Chapman, genera il riso. A prova di questo, adduco anche i cinque, fra “go away” e “leave me alone” che il Prescelto indirizza alla folla che lo perseguita, non riuscendo a dire di meglio per convincerli, e che una volta ritrovatili sotto casa, non riesce a giustificare alla madre, balbettando scuse ridicole.

Certamente, nella traduzione il personaggio perde un passaggio che evidenzia uno dei suoi tratti caratteristici, ovvero l’essere succube dell’ala protettiva della madre per quanto riguarda l’emancipazione come uomo, ma ci guadagna immensamente quanto a battuta memorabile, stante il contrasto, di diversa natura ma pur sempre esilarante, fra la presunzione della folla che lui sia l’Eletto, e la bestemmia (per quei tempi era tale, sul nome di Dio non si poteva giurare), la negazione dell’ipotesi appellandosi al Massimo Garante, lo stesso che gli invasati credevano il Padre del Messia; è un cerchio che si chiude, grazie anche alla battuta successiva della donna seguace della zucca, che s’attaglia perfettamente:

GIRL: Only the true Messiah denies His divinity.

RAGAZZA: Soltanto il vero Messia nega la sua divinità!

Ricapitoliamo: si perde una diramazione della definizione del carattere del protagonista (non tutta la definizione, perché in altre scene, specie la successiva del risveglio, è ben evidenziata la soggiacenza alla madre), e si guadagna una battuta ad effetto, ben incastrata nel contesto, e molto esilarante per il pubblico di lingua destinataria. Il bilancio è positivo, mi pare di poter affermare che è una traduzione che si può ammettere.

Ritornando all’inizio del film, ci sono due divertenti giochi di parole che, basandosi su assonanze inglesi, non potevano proprio per loro natura essere tradotti, bensì adattati:

MAN #1: I think it was ‘Blessed are the cheesemakers.’

MRS. GREGORY: Ahh, what’s so special about the cheesemakers?

GREGORY: Well, obviously, this is not meant to be taken literally. It refers to any manufacturers of dairy products.

UOMO 1: Mi pare che ha detto “beati i panificatori”

SIG.RA GREGORY: Be’, e che hanno di speciale i panificatori?

GREGORY: Non va interpretato in senso letterale, si riferisce a tutti coloro che operano nel settore cereali

E successivamente:

MAN #2: You hear that? Blessed are the Greek.

GREGORY: The Greek?

MAN #2: Mmm. Well, apparently, he’s going to inherit the earth

UOMO 2: Sentito? Beati i puri liquori!

GREGORY: I puri liquori?

UOMO 2: Mmm, sì, perché si berranno Dio!

I malintesi, per chi non ha familiarità con le Scritture, sono questi: “cheesemakers” (“casari”, “fabbricatori di formaggio”) è la corruzione di “peacemakers” (“pacificatori”, o “costruttori di pace”); “Greek” (“Greco/a”, “abitante della Grecia”) è la storpiatura di “meek” (“mite”, “di buon cuore”, “puro di cuore”). La scena si svolge ai piedi del monte al sommo del quale Gesù sta tenendo la sua famosa orazione sulle beatitudini. La folla, immensa, è sparsa e gli ultimi, oltre ad essere beati, sono anche molto lontani, ed è questa lontananza, unita anche ad una certa vecchiezza, che obnubila un po’ le facoltà d’intendimento dei personaggi che diffondono l’erronea interpretazione delle parole alle persone più lontane. Qui dunque sono chiamati in causa dei passi del Vangelo, la traduzione non poteva essere fatta a caso, ma c’era bisogno di rispettare la lettera, le formule note a tutti. Questo è precisamente un caso di “parodia breve” come lo intende Genette[38]: uno spostamento semantico con cambiamento minimale, tipico dei proverbi parodiati o, come in questo caso, delle formule ecclesiastiche. “Beati i panificatori” è una traduzione che rispetta l’originale in tutti i sensi. Corrisponde alla stessa citazione (a volte si preferisce tagliare la testa al toro e metterne, tout court, un’altra, magari presa dallo stesso autore, ma in un passo o da un testo differente), la modifica è avvenuta con le stesse modalità (modifica minima: cambiamento di una lettera e di un suono ai quali corrisponde un cambiamento di significato) e lo scarto avviene contemplando anche un abbassamento verso il materiale-corporeo, sostituendo alla nobile missione dei pacificatori, quelle altrettanto nobili, ma nell’immaginario collettivo anche faticose e per gente non colta, dei casari e dei panettieri. Quello che non c’è nel fraintendimento “Greek/meek” invece, è proprio l’abbassamento, a meno che non si voglia intendere che dare del “Greco” a qualcuno, voglia dire insultarlo. A me non risulta questo senso, ed in ogni caso non ho nulla contro i Greci. ”Beati i puri liquori” è semplicemente strepitoso, non solo perché riporta sull’argomento mangereccio-pancia-appetiti primordiali, ma anche perché genera una risposta blasfemissima sullo stesso tono, di cui sarebbero andati orgogliosi Rabelais e Bachtin: “Perché si berranno Dio” (“Perch’essi vedranno Dio”). Il massimo del risultato col minimo cambiamento, non possiamo chiedere di più. La risposta originale, al confronto, scompare, anche perché il cuore del calembour era già passato, ad uno spettatore inglese bastava già.

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Non vorrei sembrare ora un partigiano della traduzione italiana, e propongo in contraccambio un divertentissimo equivoco generato da Ponzio Pilato, che nel film, in originale ed in traduzione, è caratterizzato da una forte “r” moscia. Tenendo conto che in inglese la “r” pronunciata male suona come una “w”, questo gioco di parole è però davvero intraducibile:

PILATE: Now, Jewish wapscallion.

BRIAN: I’m not Jewish. I’m a Roman.

PILATE: A Woman?

BRIAN: No, no. Roman. [slap] Aah!

PILATE: Your father was a Woman? Who was he?

PILATO: Allora, giudeo maVamaldo

BRIAN: Io non sono giudeo, sono un romano

PILATO: Un Vomano?

BRIAN: No, no, un Romano! (schiaffo) ahi!

PILATO: Tuo padVe eVa un Vomano? E chi eVa?

Ogni commento è puramente superfluo. Ma in un altro punto, sempre nella fantastica sequenza centrale del film, il copione originale non può essere sorpassato da una seppur ottima traduzione, semplicemente per mancanza di mezzi linguistici adatti a sostituire i due usi che vengono fatti del linguaggio scurrile da parte di Brian (violento) e da parte del capo dei seguaci (riverente citazione delle parole del suo Messia):

BRIAN: What?! Well, what sort of chance does that give me? All right! I am the Messiah!

FOLLOWERS: He is! He is the Messiah!

BRIAN: Now, fuck off!

[silence]

ARTHUR: How shall we fuck off, O Lord?

BRIAN: Oh, just go away! Leave me alone.

BRIAN: Che cosa? Ma così state cercando d’incastrarmi! E va bene, allora sono il Messia!

SEGUACI: è lui, è lui il Messia!

BRIAN: E adesso, andate a fanculo!

(silenzio)

ARTHUR: Quale via ci consigli, o Signore?

BRIAN: Oh, quella che vi pare, lasciatemi in pace

Un cambio meno percettibile viene operato in un discorso apparentemente secondario, quello dei membri del FPG seduti sugli spalti del Colosseo di Gerusalemme, mentre Stan (Eric Idle) dichiara al gruppo la sua volontà cambiare sesso. Judith gli si rivolge e dice in inglese una cosa a proposito dei Romani, che in italiano è stata capovolta:

JUDITH: Here! I– I’ve got an idea. Suppose you agree that he can’t actually have babies, not having a womb, which is nobody’s fault, not even the Romans’, but that he can have the right to have babies.

JUDITH: Sentite, guardiamo in faccia la realtà: supponiamo di stabilire che lui non possa avere bambini perché non ha l’utero, il che non è colpa di nessuno, semmai dei Romani, ma comunque il diritto di avere dei bambini ce l’ha

Quel “semmai” doveva essere un “nemmeno”: così tradotto, implica una volontà bellicosa e guerrafondaia anche laddove non ce ne sarebbe bisogno o ragione. Nell’originale, “nemmeno” i Romani possono avere la colpa per l’impossibilità di Stan di avere bambini.

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Un’altra traduzione irrispettosa, che in questo caso rende il testo più assurdo di quello che è già, avviene nel momento in cui Francis (Michael Palin) illustra al FPG i dettagli del piano per rapire la moglie di Pilato, e le richieste di riscatto:

MATTHIAS: Cut her head off?

FRANCIS: Cut all her bits off. Send ’em back on the hour every hour. Show them we’re not to be trifled with.

MATTIA: Le tagliamo la testa?

FRANCIS: Come inizio, la testa. E gli mandiamo un orecchio ogni ora e un quarto, così capisce che non scherziamo

In realtà, la moglie di Pilato sarebbe stata tagliata in “bits” (“pezzettini”), che poi sarebbero stati inviati ogni ora precisa. Tagliare qualcuno a pezzettini, per quanto crudele, non vuole dire automaticamente ammazzarlo, si potrebbe anche presumere il voler far subire una lenta agonia. Tagliare prima la testa, e poi spedire le orecchie ogni “ora e un quarto”, è una tipica azione da abbassamento materiale-corporeo, da inversione tipica del carnevale, come ci ricorda costantemente Bachtin: prima ammazzare, poi spedire come avvertimento un orecchio intero (invece che soltanto il lobo), l’intervallo inconsueto, dispari di tempo fra un avvertimento e l’altro. Questo ridicolizza molto più aspramente le velleità del Fronte, facendolo apparire come una banda di buontemponi, mentre nell’originale la ridicolaggine veniva data dall’illustrazione dell’assurdo piano di rapimento, dal dibattito che ne seguiva, dall’esito disastroso dell’azione, che anche se campata un po’ in aria, conservava una parvenza di intenzione seria: era un effetto d’insieme, mentre nella traduzione la battuta anticipava già una sconfitta in partenza.

Un passo simile a questo nelle intenzioni dei traduttori, è quello in cui il FPG discute su quali siano i benefici che i Romani abbiano mai portato nella terra di Palestina [39]:

COMMANDO: Public baths.

LORETTA: And it’s safe to walk in the streets at night now, Reg.

FRANCIS: Yeah, they certainly know how to keep order. Let’s face it. They’re the only ones who could in a place like this.

COMMANDOS: Hehh, heh. Heh heh heh heh heh heh heh.

REG: All right, but apart from the sanitation, the medicine, education, wine, public order, irrigation, roads, a fresh water system, and public health, what have the Romans ever done for us?

XERXES: Brought peace.

REG: Oh. Peace? Shut up!

COMMANDO: I bagni pubblici

LORETTA: E dirò di più: gli asini pubblici in orario, si circola meglio

FRANCIS: Be’, lo sanno mantenere l’ordine. Solo loro potevano riuscirci in un paese così

COMMANDOS (ridono)

REGGIE : Va bene, ma a parte le fognature, vino, medicina, istruzione, asini pubblici in orario, ordine pubblico, irrigazione, strade, spiagge libere non inquinate, bilancia dei pagamenti in attivo, che cosa hanno fatto i Romani per noi ?

XERXES: Hanno portato la pace

REGGIE: Ah, figurati! Chiudi il becco!

Anche qui la pecca, a mio modesto modo di vedere, è stato il voler mettere in ridicolo esplicitamente e prima degli eventi, ciò che alla fine comunque sarebbe stato reso evidente, e cioè l’assurda pretesa di un manipolo di fanatici di voler scardinare un Impero con poche mosse e pochi uomini, per giunta mal organizzati. “Asini pubblici in orario”, “spiagge libere non inquinate, bilancia dei pagamenti in attivo”, sono elementi spiazzanti, sia per il loro ovvio anacronismo, sia per la loro futilità; nell’originale, l’unico elemento che si discosti appena dai bisogni primari per la solidità di uno Stato, è il vino, gli altri sono evidenti e importantissimi, e servono ancora e sempre a dare al programma del Fronte quella parvenza di serietà necessaria ai fini della demolizione finale della loro immagine.

Un’altra spigolatura, questa volta indicativa dei differenti metodi d’educazione in vigore nei diversi paesi, e di conseguenza del modo di ragionare proprio di un popolo, è nella scena della “scritta”:

CENTURION: No, it doesn’t. What’s Latin for ‘Roman’? Come on!

BRIAN: Aah!

CENTURION: Come on!

BRIAN: ‘R– Romanus’?

CENTURION: Goes like…?

BRIAN: ‘Annus’?

CENTURION: Vocative plural of ‘annus’ is…?

BRIAN: Eh. ‘Anni’?

CENTURIONE: No, carino. Come si dice ‘Romano’?

BRIAN: Aaah!

CENTURIONE: Forza, in latino!

BRIAN: ‘Romanus’?

CENTURIONE: Della…?

BRIAN: Seconda!

CENTURIONE: La desinenza del vocativo plurale?

BRIAN: Eeh…’i’!

Nel mondo anglosassone si preferisce sempre unire strettamente la pratica all’insegnamento della teoria, e questo discorso è tanto più vero nell’insegnamento della grammatica di una lingua, specialmente straniera o antica. In un Liceo italiano, normalmente s’insegna che i nomi con desinenze del nominativo in -us, e genitivo in -i, appartengono alla seconda declinazione dei sostantivi, e segue sciorinamento delle desinenze dal nominativo all’ablativo, singolare e plurale. In una scuola inglese, ovviamente viene detto che esistono cinque declensions, ma le sole etichette, che in sé direbbero poco a uno studente anglofono, vengono presto rimpiazzati dai models, modelli di declinazione. Alla domanda “a che declinazione appartiene Romanus?”, si potrà rispondere: ”alla seconda”, ma poi sarà appena da ricordare quali desinenze siano proprie della “seconda”. Ricordando un modello, la domanda non è più la stessa, perché diventa:”goes like..?” (“va come..?”, “segue (l’esempio)..?”), e viene saltato un passaggio mentale, si passa da una classificazione un po’ astratta ad un’immediata ricaduta pratica. Tutto questo è quello che sta dietro la traduzione di “della…?”, una parolina, una domanda che svela la diversità fra due mondi.

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Un caso curioso e ben riuscito di traduzione, secondo me, è anche quello del condannato Ben, assieme al quale Brian si ritrova in cella dopo il fallito rapimento della moglie di Pilato, e del quale ho già detto qualcosa in II.1.3 Osservanza e disobbedienza, a pag. 67 e in II.2 Le figure, a pag. 82:

BEN: Now, take my case. They hung me up here five years ago. Every night, they take me down for twenty minutes, then they hang me up again, which I regard as very fair, in view of what I done, and, if nothing else, it’s taught me to respect the Romans, and it’s taught me… that you’ll never get anywhere in this life, unless you’re prepared to do a fair day’s work for a fair day’s pay!

BRIAN: Oh, shut up!

BEN: Tu prendi il mio caso: mi hanno appeso qui cinque anni fa. Tutte le sere mi tirano giù per venti minuti e poi mi riappendono, cosa che ritengo giustissima, visto quello che ho fatto. E se non altro, questo mi ha insegnato a rispettare i Romani, e mi ha insegnato anche che non si combina niente nella vita, se non si è pronti a credere, obbedire, combattere come ai vecchi tempi!

BRIAN: La fai finita?

Resta divertente, perché il significato complessivo della frase non si perde, il vedere come un condannato ad una pena crudele come poteva essere il solo risiedere nelle prigioni del tempo, non solo giustificare, ma persino glorificare i suoi aguzzini, come il primo degli invasati imperialisti (tra parentesi, non si riesce neppure a sapere quale sia stato l’errore che l’ha portato in prigione). Ma il particolare che c’interessa qui, è lo slogan finale. Durante il ventennio fascista ci fu una cospicua produzione e riproduzione di detti estratti dai discorsi pronunciati da Mussolini, e molti sono rimasti nella memoria collettiva per la loro forza retorica, o semplicemente perché suonavano bene (chi è che non dice ancora oggi: “me ne frego”? Sembra anzi che il motto sia piuttosto di moda, nonostante la sua età). Qui si è optato per “credere, obbedire, combattere”, che in sé è un incitamento adeguato al risollevamento del morale per chi, al fronte o in patria, poteva avere dei dubbi sulla giustezza del modello statale in vigore e da difendere. Ma qui è particolarmente adatto, giacché riecheggia quella brevità ed incisività che era propria delle sententiae romane: frasi brevi ed efficaci. Trasportata nel contesto del film, questa frase amata dal Duce è riportata nell’humus dal quale è nata, ossia l’ideologia imperiale romana, e si scrolla di dosso una patina ingombrante di significato passato, ma ancora abbastanza recente. Certamente i Pythons non potevano attingere a questo patrimonio culturale, o forse è meglio chiamarla solo memoria recente, e si sono affidati a quello che avevano in casa, e cioè le lotte sindacali nell’Inghilterra industrializzata della seconda metà dell’Ottocento, imperialista e colonialista come Roma lo fu a suo tempo. “A fair day’s work for a fair day’s pay”, obiettivamente, è troppo legata a memorie di lotta proletaria per il pane che non si arrivava a comprare neanche con le quotidiane 10-12 ore di lavoro giornaliere, in fabbriche che erano più simili a stalle di produzione intensiva, che a luoghi di lavoro umani. Un personaggio come Ben, ormai completamente dalla parte dei Romani, è supposto definitivamente assoggettato all’ideologia romana, al punto da assorbirne gli slogans e farli propri. Se quello che lui recita è un motto dell’Impero Romano, dobbiamo dedurne che è un Impero Proletario? O forse che nella fame patita in galera ha perso la lucidità?

Il gusto dei Pythons per l’assurdo ovviamente non ha lasciato questa battuta al caso, è volutamente provocatoria. Dovrebbe indurre il riso facendo scattare il contrasto fra quello che dice il vecchietto e lo slogan, facendoci pensare che sia completamente rimbecillito, o che l’Impero sia allo sfascio, idea che però sarebbe fornita soltanto da questo passaggio nel film, poiché nel resto della pellicola l’Impero ha indiscutibilmente un’immagine di forza e coerenza. Purtroppo però non fa ridere un italiano, e alla fine il problema è sempre lo stesso. Credo e giustifico, che in questo caso la traduzione vada più che bene, sebbene sposti su un piano diverso l’assurdo generato dal personaggio, invasato ma confusionario nell’originale, fanatico e militarista fino all’eccesso nella traduzione, ma in entrambi i casi molto divertente.

Ci sono un po’ di nomi dalla traduzione singolare da notare, prima di un pirotecnico finale. Il primo caso riguarda i nomi che la folla sghignazzante propone a Ponzio Pilato per la liberazione: sono delle ovvissime prese in giro del difetto di pronuncia del governatore romano, poiché sono infarciti di “r” più di quanto un babà sia zuppo di rum. Ma nella versione originale abbiamo dei nomi tipicamente inglesi e anche abbastanza moderni, mentre l’adattamento italiano spinge un po’ sull’aderenza storica, così “Roger” e “Roderick” diventano “Barnaba” e “Bruto”:

PILATE: To pwove our fwiendship, it is customawy at this time to welease a wongdoer fwom our pwisons.

CROWD and GUARD #3: [laughing]

PILATE: Whom would you have me welease?

BOB HOSKINS: Welease Woger!

CROWD: Yes! Welease Woger! Welease Woger!

PILATE: Vewy well. I shall welease Woger!

[…]

PILATE: Ah. We have no ‘Woger’!

CROWD: Ohhhhh!

BOB: Well, what about Wodewick, then?

CROWD: Yes! Welease Wodewick! Welease Wodewick!

[…]

PILATE: Who is the ‘Wodewick’ to whom you wefer?

BOB: He’s a wobber!

CROWD: [laughing]

MAN: And a wapist!

CROWD: [laughing]

WOMAN: And a pickpocket!

CROWD: Yeah! Ahh, no! No! Shh! Shh!…

PILATE: He sounds a notowious cwiminal.

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PILATO: PeV dimostVaVvi la nostVa amicizia, è uso di questi tempi libeVaVe un malfattoVe dalle nostVe pVigioni

FOLLA e GUARDIA 3 ridono

PILATO: AlloVa, chi volete che vi libeVi, alloVa?

BOB HOSKINS: LibeVa BaVnaba!

FOLLA: Sì, libeVa BaVnaba! LibeVa BaVnaba!

PILATO: Molto bene! AlloVa libeVeVò BaVnaba!

[…]

PILATO: Ah. Non abbiamo nessun BaVnaba!

FOLLA: Oooh!

BOB: AlloVa è BVuto che devi libeVaVe!

FOLLA: Sì, libeVa BVuto! LibeVa BVuto!

[…]

PIILATO: Chi è questo BVuto che volete libeVaVe?

BOB: è un VapinatoVe!

UOMO: E un aggVessoVe!

FOLLA ride

DONNA: E un violento evaso!

FOLLA: Sì, sì. Ah, no…

BOB: Non hai capito niente, scema!

UOMO: Bvigante devi dire!

PILATO: è un Vinomato cViminale

Il secondo, è un cambiamento minimo, quasi impercettibile, che però è segno anch’esso della volontà di adattamento al gusto italiano: i “Gallesi” diventano inspiegabilmente “Ceresi”, nome che identifica le genti che abitano in una zona nei pressi del lago di Como:

PHARISEE: Pharisees separate from Sadducees.

WELSH MAN: And Swedish separate from Welsh.

FARISEO: I Farisei separati dai Sadducei

CERESE: E gli Svedesi separati dai Ceresi

Il terzo lotto di nomi, che ha l’attenuante di essere intraducibile, avviene quando Pilato chiede del padre di Brian, tale “Minchius Maximus”. Il centurione presente ride istintivamente, perché è un noto nome di fantasia tipico dell’ambiente militare, come, dice, “Mutius Scevulus, o Marco Pisellonio”. Vediamo un po’ com’erano in origine:

PILATE: Weally? What was his name?

BRIAN: ‘Naughtius Maximus’.

CENTURION: Ahh, ha ha!

PILATE: Centuwion, do we have anyone of that name in the gawwison?

CENTURION: Well, no, sir.

PILATE: Well, you sound vewy sure. Have you checked?

CENTURION: Well, no, sir. Umm, I think it’s a joke, sir,… like, uh, ‘Sillius Soddus’ or… ‘Biggus Dickus’, sir.

GUARD #4: [chuckling]

PILATE: What’s so… funny about ‘Biggus Dickus’?

CENTURION: Well, it’s a joke name, sir.

PILATO: Sul seVio? E come si chiamava?

BRIAN: Minchius Maximus

CENTURIONE ride

PILATO: C’è nessuno che si chiama così nella guaVnigione?

CENTURIONE: Ma no, signore

PILATO: Mi sembVi molto sicuVo, hai contVollato?

CENTURIONE: Be’, no signore. È un soprannome, signore, come Mutius Scevulus o Marco Pisellonio

GUARDIA 4 ridacchia

PILATO: Che c’è da VideVe su MaVco Pisellonio?

CENTURIONE: è un nome inventato, signore

Vediamo bene che l’intraducibilità era data da una divertente mescolanza d’inglese volgare e latino: “Naughtius Maximus” letteralmente suonerebbe come “Cattivello Massimo” o “Birbante Massimo”. Non c’è dubbio che la traduzione apportata è molto più divertente, e tra l’altro s’inserisce perfettamente nel contesto del tema nasale (v. II.1.4 Il sesso e il naso, pag. 78). Con “Sillius Soddus” è stata invece fatta l’operazione inversa, portando fuori della situazione d’abbassamento proprio dei nomignoli, e proponendo un “Mutius Scevulus” assolutamente neutro, preferito al significato letterale di “Stupido Stronzo” o “Stupido Bastardo”, molto più rude e immediato. “Marco Pisellonio” rappresenta la sintesi fra i due estremi di traduzione che l’hanno preceduto: uno molto spinto, per così dire, e l’altro molto attenuato, e combina un comune nome romano con l’allusione al membro che è presente nell’originario “Biggus Dickus” (“Gran Cazzo”, o “Gran Verga” se si preferisce essere più raffinati).

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In fondo a questo viaggio panoramico e un po’ capriccioso negli interventi del cattivissimo traduttore, traditore, mi piacerebbe chiudere nella stessa maniera con cui, probabilmente in preda ad un breve delirio d’onnipotenza, il suddetto ha deciso di chiosare il film con una sua “perla” personale. Nell’originale non è presente nulla di corrispondente, se escludiamo tre o quattro battute di Eric Idle, la cui voce s’inserisce nella canzone finale a commentare la produzione del film, che però non c’entrano minimamente con quanto segue:

VOCE 1: Ma, tutto qui?

VOCE 2: E perché, c’è qualcosa che non va?

VOCE 1: Ma mica finirà così?

VOCE 2: Eh sì! Non ti piace?

VOCE 1: Veramente mi sembra un po’ moscio

VOCE 2: Ma non è la vera fine, questo è cinema. Poi ci sarà “Brian 2”!

VOCE 1: Ma se muore il protagonista!

VOCE 2: Ah, eh, sì, già, è vero. Allora vediamo, diciamo che…ecco: all’ultimo momento arriva in una biga dorata tirata da quattro cammelli, una stupenda ereditiera egizia, che lo scorge, s’innamora e lo tira giù dalla croce. Poi se lo porta al Cairo, lo fa diventare vice-faraone, e ritornare vincitor da una guerra che provoca il declino e la caduta dell’Impero Romano. Eh, be’? Che ne dici?

VOCE 1: Scusa, e se invece lo lasciamo morire, e poi qualche giorno dopo, lo facciamo resuscitare?

VOCE 2: No, no, ma chi vuoi che ci creda?

Il film è uscito in Italia nel 1991, dopo una gestazione tra le fitte maglie della censura (o dovremmo dire gramaglie?) durata ben 12 anni. Evidentemente, si pensava di compensare quest’attesa con un po’ d’acredine anticlericale, semplicemente esplosiva. La distinzione che andiamo a fare è certamente sottile, ma non ritengo artificiosa: fra i motivi che possono aver bloccato l’uscita del film in Italia, probabilmente c’era l’accusa, fin troppo scontata e trita ed usata già negli Stati Uniti ed in Inghilterra da parte di gruppi religiosi che nemmeno l’avevano visto, di blasfemia, di trasposizione irrispettosa della vita di Cristo. Abbiamo visto che così non è, e la polemica nei paesi anglosassoni si è sgonfiata molto presto, anche grazie al fatto che il gruppo godeva al tempo d’immensa popolarità, e di conseguenza di nutrite schiere di difensori che hanno perorato la causa dell’assoluzione, con successo. Qui da noi, in Italia, gli estimatori erano e sono pochi, troppo pochi per controbilanciare una lettura troppo superficiale in chiave blasfema (obiettivamente non vedrei quali altri possano essere stati, i motivi di un ritardo così lungo), e probabilmente è stata proprio questa che è prevalsa. Il film è tuttavia uscito, senza particolari problemi (ma anche senza particolare pubblicità), soltanto dodici anni dopo, come dicevamo, nel 1991.

L’accusa di blasfemia è superata, e nello stesso quadro va inserito il “commento” del traduttore in questa epigrafe finale: se Brian non è un Messia, come ha dimostrato il film raccontando la sua vicenda, non va presa sul serio nemmeno la sua fine, uguale a quella di altri centotrentanove sfortunati, svilita d’importanza dal solo fatto di essere una morte comune, e in comune con una folla che coprirebbe con la sua ingombrante massa l’esile figura del Messia. Se ci fosse davvero un Brian 2, sarebbe un sequel totalmente legittimo, poiché non ha nessuna pretesa di divinità (e quindi di serietà), è un eroe fittizio come, ad esempio, Rocky, Terminator o, perché no, Superman. Godrebbe di un’autonomia propria all’interno della finzione cinematografica. Ma questo seguito non esiste e non esisterà mai, proprio perché il personaggio Brian è troppo improbabile come eroe, non si potrebbe pensare nemmeno di salvarlo dalla morte sulla croce. Ma anche si volesse salvarlo, come si potrebbe fare, senza urtare la logica dello spettatore? Le due soluzioni proposte nel dialogo sono entrambe poco accettabili, tipiche se vogliamo dei film spettacolari all’americana, dove “arrivano i nostri” “all’ultimo momento”, oppure c’è un “superpotere” nascosto che viene utilizzato come Deus ex machina per risolvere una situazione ingarbugliata. Ma è proprio questo intervento soprannaturale, quello che venendo per ultimo, al confronto col salvataggio regale sembra più improbabile ancora, ridicolo quasi, tant’è che nessuno ci crederebbe. Ma il bello è, che un secondo dopo aver riso di questa battuta, ci si ricorda dei serissimi discorsi che ci hanno propinato fin da piccoli su di un fatto molto simile, reputato vero ed incontestabile, avvenimento fondante di un’intera religione. Ed è così che al ridere di Brian, Messia controvoglia, segue il ridere anche di noi stessi e delle nostre credenze, che sono di sicuro più assurde dei saggi precetti che il Prescelto ha indicato alla folla nel “discorso della finestra”.

Note


[1] Vladimir J. Propp, Comicità e riso, cit.


[2] Gérard Genette, Palinsesti, cit.  


[3] Antoine Compagnon, La seconde main ou le travail de la citation, Paris, Seuil, 1979.


[4] Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit.



[5] Tradurre il cinema: atti del convegno organizzato da G.Soria e C.Taylor, 29-30 novembre 1996, a cura di Christopher Taylor,Trieste, Dipartimento di Scienze del Linguaggio, Interpretazione e Traduzione, 2000.



[6] Cioè il titolo, il sottotitolo, le note, le prefazioni, le quarte di copertina, ecc. Cfr. Gérard Genette, Palinsesti, cit., pag. 5.



[7] Ibidem, pag. 33.



[8] Genette chiarisce che la posizione nella tabella della colonna del regime satirico, tra quello ludico e quello serio, non intende dare l’idea di una separazione netta, cioè senza possibilità di mescolanza, fra questi ultimi due.



[9] Ibidem, pag. 34.



[10] Umberto Eco, Come si fa una tesi di laurea, Milano, Bompiani, 12a ed. 2001 (1° ed. RCS Libri, 1977), pag. 120.



[11] Adotto la definizione di Genette: “Propongo quindi di (ri)battezzare parodia lo sviamento semantico di un testo realizzato attraverso una trasformazione minimale”, Gérard Genette, Palinsesti, cit., pag. 30.



[12] La storia di questa distinzione, in Francia, è riferita ampiamente da Genette in ibidem, pagg. 25-26.



[13] “La parodia può risolversi in una modificazione puntuale, addirittura minimale,[…]. Eccezion fatta, forse, per la continuazione, ciascuna di queste pratiche può inoltre dar luogo solo a testi brevi, per non correre il rischio di eccedere fastidiosamente la capacità di adesione del pubblico. La trasposizione può invece realizzarsi in opere di vaste dimensioni come Faust o Ulysses.” Ibidem, pag. 246.



[14] Antoine Compagnon, La seconde main ou le travail de la citation, cit.


[15] “Ritaglio e incollatura sono il modello del gioco infantile, una forma appena più elaborata del gioco del mulinello dove, nell’alternanza di presenza e assenza, Freud vedeva l’origine del segno.”  Ibidem, pag. 16 (trad. mia).



[16] “Unisce l’atto della lettura e quello della scrittura” Ibidem, pag. 34 (trad. mia).



[17] “Il senso della citazione sarebbe dunque la relazione istantanea della cosa alla forza attuale che la investe. Una volta tolto il fenomeno che ricadeva sotto i sensi, bisogna di conseguenza […] ricercare il senso del fenomeno nelle forze che lo producono come un lavoro.” Ibidem, pagg. 38-39 (trad. mia).



[18] Ibidem, pag. 58.



[19] “Un segno, o un representamen, è un primo, che intrattiene con un secondo, chiamato il suo oggetto, una vera relazione triadica tale che è capace di determinare un terzo, chiamato il suo interpretante, per il quale quest’ultimo assume la medesima relazione triadica nei confronti del suddetto oggetto, di quella tra il segno e l’oggetto.“ Ibidem, pag. 60 (trad. mia).



[20] Avvenuta secondo Compagnon nel 1555, nelle Dialecticae Partitiones di Pietro Ramo, pubblicato a Parigi; Secondo un altro studioso, Douglas C. Mac Murtrie, negli anni 1580-90, sempre in Francia.



[21] V. II.1.1 Gesù detto il Cristo e Brian detto Brian, pagg. 50-51, e in Introduzione, a pag. 7.



[22] Gérard Genette, Palinsesti, cit., pag. 10.



[23] V. in II.1.1 Gesù detto il Cristo e Brian detto Brian, nota 5, pag. 51.



[24] V. in II.3 La traduzione, pagg.116-117.



[25] V. in II.1.4 Il sesso e il naso, pagg. 79-80.



[26] È questo un procedimento tipico nei cambiamenti per sostituzione di slogan, proverbi, titoli, ecc. V. Genette, Palinsesti, cit., pag. 36-45.



[27] Negli stessi vangeli c’è il famoso episodio dell’adultera salvata da Gesù, che si frappone fra lei e la turba che la vuole lapidare, apostrofando quest’ultima con “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei.” (Giovanni VII, 1-11).



[28] Nella versione italiana si è scelto di distinguerlo con un accento piemontese, piuttosto che dall’”ex-“ iniziale, che verrà posposto di qualche battuta.



[29] V.in II.1.2 Giudei contro Romani, pagg. 63-65.



[30] A dire il vero, questa scena fu filmata a mezzogiorno, cosa che si può intuire se si guardano bene le ombre per terra. L’effetto “notte” viene dato da un particolare metodo di sviluppo della pellicola.



[31] V. in I.4.1 Un film completamente diverso, nota 10, pag. 31.



[32] V. in II.1.3 Osservanza e disobbedienza, pagg. 68-69 e in II.3 La traduzione, pag. 123.



[33] In realtà è lievemente modificata, ma l’alterazione non assume nessuna valenza ironica, perché all’abbassamento ci pensano i commenti degli ascoltatori.



[34] V. in II.1.1 Gesù detto il Cristo e Brian detto Brian, pag. 52.



[35] V. in II.1.1 Gesù detto il Cristo e Brian detto Brian, pagg. 51-53.



[36] Tradurre il cinema: atti del convegno organizzato da G.Soria e C.Taylor, 29-30 novembre 1996, a cura di Christopher Taylor, cit.



[37] Operazione che Genette classifica tra quelle di trasposizione, come ho ricordato nelle prime pagine del paragrafo II.2.1 Il genere del film e le figure dominanti, pagg. 85-91, e specialmente la nota 54, pag. 90.



[38] Gérard Genette, Palinsesti, cit., pag. 36.



[39] V. in II.1.2 Giudei contro Romani, pagg. 61-62.

Commenti

Un commento a “Non sono il Messia, lo giuro su Dio! (III)”

  1. Alè, l’ho letto tutto!
    Che dire, vista la mole l’ho letto in fretta e poco mi rimarrà, ma è sempre bello parlare di queste perle, come sentire un critico che loda un quadro classico.

    Di Gregorio | 7 Febbraio 2011, 10:49

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