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Cinema

Ricky Tognazzi

“Io no”: tradurre e tradire

Immagine articolo Fucine MuteCorrado Premuda (CP): Fucine Mute incontra Ricky Tognazzi a Trieste. Nel corso della manifestazione Maremetraggio è stato presentato il film Io no girato a quattro mani da Ricky Tognazzi e da Simona Izzo.
Per prima cosa vorrei sapere com’è stato il passaggio dalla lettura del romanzo da cui è tratta la sceneggiatura alla realizzazione del film. Quanto avete lavorato per cambiare o quanto avete cercato di mantenere lo spirito del libro?

Ricky Tognazzi (RT): Mah sai, tradurre è un po’ tradire, forse le due parole hanno anche la stessa etimologia. Quando ti ritrovi di fronte ad un’opera già compiuta, sei davanti all’imbarazzo creato dal fatto che se da un lato il linguaggio di un film e quello di un romanzo hanno forme ed esigenze diverse, dall’altro il rispetto per quel libro — che ti è piaciuto perché vuoi farci un film — t’impedisce di cambiarlo…
Poi, il dibattito tra gli sceneggiatori e il produttore fa sì che questa contraddizione venga in qualche modo risolta: mano a mano nella discussione, nella scrittura, nella riscrittura stessa, nella riscoperta del romanzo, ne vedi i risultati di nuovo su carta, ma questa volta nella forma della sceneggiatura, e a quel punto capisci se certi meccanismi funzionano nella sua traduzione. Nel caso del film Canone inverso, per esempio, ci sono stati cambiamenti sostanziali rispetto al libro, che poi sono stati persino apprezzati dal suo autore, Paolo Maurensig, che ci disse che il film gli era piaciuto tantissimo e che per certi versi era persino migliore del libro. Nel caso del romanzo Io no di Licalzi i cambiamenti sono stati minori: abbiamo rispettato di più il libro nella trama, nei personaggi e, anche in questo caso, Licalzi era contento. Però il film, stavolta, ha avuto un esito minore, ha avuto meno successo… perciò chissà, forse avremmo dovuto tradire di più.

CP: Nel momento di girare questo film, non avete considerato l’idea di farne uno sceneggiato televisivo? Perché per la complessità e per la lunghezza della storia forse poteva prestarsi a divenire uno sceneggiato in più puntate…

RT: No, non c’è mai venuto in mente, in quanto il film è nato fin da subito come progetto cinematografico e così lo abbiamo affrontato. È vero che poi sono cose che si dicono durante la lavorazione di un film, però quasi sempre un romanzo ha una dimensione narrativa più complessa e a volte un film non può essere esaustivo fino in fondo di tutto ciò che invece è riuscito a raccontare l’autore. Infatti, si dice che probabilmente i film nascono più dalle novelle che dai romanzi…
La novella è la forma migliore per passare da una storia scritta ad un film; il romanzo che invece è più complesso, ha dinamiche interne che rendono più difficile riraccontare la storia nell’arco di due ore.

Immagine articolo Fucine Mute

CP: Nel girare questo film a quattro mani con Simona Izzo c’è stata una divisione dei ruoli, dei lavori tra di voi? Come funziona la lavorazione in coppia nella direzione di un film?

RT: Non c’è un contratto tra di noi. C’è una divisione naturale: ci conosciamo e conviviamo da diciotto anni, abbiamo fatto tanti film insieme. Lei m’ha sempre affiancato nella lavorazione dei film che ho firmato io come regista e viceversa io ho sempre affiancato lei nei suoi, per cui ci palleggiamo le problematiche, le dinamiche interne di una lavorazione con abbastanza naturalezza. In linea di massima io mi occupo di più, per lo meno nella parte iniziale della messa in scena, del movimento con la macchina da presa e del movimento degli attori, invece lei si occupa di più del rapporto col personaggio e della vera e propria direzione degli attori. Poi, però, il lavoro che abbiamo fatto ognuno per conto proprio, nel momento della messa in scena ci avvicina l’uno all’altra. Ad esempio mi capita di chiedere a Simona: “Ma ti piace quella battuta, com’è stata detta? Mi sembra che non funzioni… Mi sembra che manchi l’intenzione giusta…” e, viceversa, lei interviene e dice: “Mah, secondo me quel movimento era così e così. Secondo me bisognava scavare, stringere di più, o allargare, far vedere altre cose…”. È come dividere il caffè dal latte… alla fine, è un cappuccino! È una miscela che a volte funziona, altre volte, invece, se il latte non è buono o il caffè è stato bruciato, può fare anche schifo.

CP: Quanto l’aiuta nel momento in cui gira un film e quanto, invece, la mette in crisi il suo doppio percorso artistico di attore e di regista?

RT: In linea di massima, m’ha sempre aiutato, perché per un regista è utile conoscere le dinamiche interne, la psicologia di un attore. Viceversa anche da attore non mi permetto di intralciare i lavori del regista, perché so che il regista ha momenti che può dedicare naturalmente all’attore e altri momenti in cui ha più difficoltà e si deve occupare di altro. Però è vero anche che, qualche volta, questo può metterti persino in imbarazzo: molte volte da attore limito il mio dialogo con il regista perché non voglio passare da rompicoglioni facendo il regista con l’altro regista! Invece poi un attore dovrebbe essere libero di interpretare il proprio ruolo, di intervenire scambiando opinioni con il regista e di esprimere tutte le proprie perplessità, anche perché un attore ha solitamente una visione diversa del film, vede il film dal suo punto di vista.
Quando si è registi e sceneggiatori di una storia può sfuggire qualche elemento e allora non va ignorato il punto di vista privilegiato di un attore o di uno scenografo. Il primo può sentire che magari una battuta non gira e il secondo, che rilegge la sceneggiatura dal suo punto di vista e si pone delle domande, può sentire delle contraddizioni o capire che certe cose possono anche essere ambientate in un altro luogo.
Quindi, quando faccio l’attore dovrei ricordarmi che sono un attore e in quanto tale ho diritto di parlare. Mi devo dimenticare di essere un regista nel senso che non devo avere paura di rompere i coglioni!

Immagine articolo Fucine Mute

CP: Lei recentemente ha girato un cortometraggio insieme ad Ariella Reggio a Trieste, proprio sul ritorno di Trieste all’Italia di cinquant’anni fa. Com’è stata questa esperienza? Che cosa ricorda della lavorazione di questo corto? Se dovesse parlarne, descriverlo, che cosa direbbe?

RT: Intanto è stata un’esperienza bella. Ho scoperto Trieste, nel senso che non la conoscevo, era la prima volta che ci lavoravo e ho scoperto una città molto bella con l’accesso ad un mare vivibile che non è solo un porto, ma è un mare proprio da godersi. E poi ho conosciuto una bravissima attrice, Ariella Reggio, con cui poi ho avuto modo di lavorare in seguito, perché abbiamo realizzato insieme degli spot sociali per un’associazione che si chiama “Aiuto”, un’associazione di volontariato. L’ho conosciuta da attore, da compagno di lavoro, e invece da regista le ho chiesto di collaborare con me. E poi la storia è una storia interessante come spesso accade quando la Storia con la S maiuscola è raccontata dalle vicende di piccoli personaggi: la protagonista è una vecchietta che ha un nodo da sciogliere perché deve ancora mandare giù il fatto di essere stata abbandonata da sua sorella che l’ha lasciata a Trieste per cercare fortuna in Nuova Zelanda. Il ritorno del mio personaggio, il figlio di questa sorella, la aiuta a scoprire e a rafforzare una propria identità. Scoprono entrambi chi sono. L’incontro fra queste due solitudini, il contrasto fra due mondi, ma poi anche il riuscire a trovare insieme un comun denominatore, un qualcosa che ha legato i due personaggi e che forse li legherà anche nel futuro, ne fa una storia molto poetica, semplice, lineare, quasi minimalista che però riesce a dare grandi emozioni. Ne ho tratto anche un insegnamento come regista perché, io che spesso mi affido ai colori, alle tinte forti, ho scoperto che si può essere emozionanti anche attraverso la delicatezza, i tempi lenti… Questa è stata una bella lezione.

CP: Un’ultima domanda: un’impresa cinematografica che non ha ancora realizzato e che magari vorrebbe realizzare in futuro, o un sogno nel cassetto…

RT: Sogni nel cassetto ce ne sono tanti, nel senso che ogni persona nell’arco della propria vita s’interessa di tante cose e affronta tanti argomenti… Ci sono tanti film che non siamo riusciti a fare, film che stanno ancora lì e ogni tanto riaffiorano nei nostri dibattiti e pensiamo: “Certo, quella storia, ti ricordi com’era?” e forse la si potrebbe raccontare ancora. Per cui i sogni sono lì, stanno lì per essere realizzati oppure per essere dimenticati. E il prossimo film… il prossimo film è sempre un’incognita fino a quando non lo stai facendo, nel senso che più volte abbiamo coccolato dei sogni che poi sono stati scalzati da progetti che si sono imposti per la loro urgenza, perché erano più belli, perché erano più forti. Può capitare che ci si dedichi tanto ad un progetto e poi, ad un certo punto, “bum!” ne arriva un altro che dice: “No, ci sono io adesso! Dovete girare me! Dovete fare questo film perché è più giusto farlo!”. E quindi si cambia direzione e credo sia per questo motivo che si dice che parlare del proprio futuro artistico sia scaramanticamente un po’ pericoloso… Forse perché non si sa mai, non si è mai veramente sicuri di che cosa si andrà realmente a fare. Montare un’impresa filmica è sempre difficile: tanti soldi, tanti equilibri politici da mettere insieme, tanti dubbi artistici che non sai se riuscirai a risolvere, insomma bisogna aspettare almeno il primo giro di manovella.

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