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Omnia

La nuova religione del secolo

undefinedDa Zeus a Cupido all’elica del Dna. La gloriosa storia della Grecia raccontata lo scorso venerdì in quasi quattro ore di spettacolo, in una splendida cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Atene2004, conclusasi con la tradizionale accensione della fiaccola per mano del velista Nikos Kaklamanakis, oro alle Olimpiadi di Atlanta del 1996. Il fuoco di Olimpia acceso dalla fiaccola del tedoforo nella cornice di Atene, la città-simbolo, culla d’una civiltà fiorita tremila anni fa, quando ebbe inizio la storia della civiltà occidentale, quella che ha scandito il nostro tempo, segnandone l’inizio e contenendo in nuce il senso tutto del nostro vivere, le tensioni che l’hanno segnato, la forma della cultura che ci è stata trasmessa e che a nostra volta abbiamo la responsabilità di trasmettere ai nostri figli.
Lo show, visto da quattro miliardi di telespettatori (200 le televisioni collegate in tutto il mondo in diretta), tra bandiere, divise multicolori, baci in tribuna, videocamere e telefonini a immortalare il momento storico (quello che, come ha voluto sottolineare la madrina di casa Gianna Angelopoulos-Daskalaki, ha riportato le Olimpiadi “a casa”, da dove sono venute, “da Atene”), ha lasciato poi campo, con una suggestiva ritirata delle acque dallo stadio, agli atleti e alle loro rispettive delegazioni.

Anche tremila anni fa, nella grande pianura dell’Elide, arrivavano gli atleti. Ogni quattro anni, da tutte le regioni della Grecia e dalle sue più lontane colonie che punteggiavano le coste mediterranee si riunivano ad Atene, dopo aver attraversato le terre rigogliose della Sicilia, le pianure della Colchide e le valli dell’Ellesponto. Accompagnati dai loro dèi che scendevano dalle vette dell’Olimpo per giocare con i mortali,  per gareggiare e vincere con loro. Corpi perfetti che ci sono stati tramandati dai poeti che li hanno cantati, così come ce li hanno raffigurati nel marmo Fidia e Prassitele, così come ce li hanno raccontati Pindaro, Bacchilide, Simonide, Erodoto.
I giochi olimpici erano sacri, per definizione. Nei giorni della loro celebrazione tutte le guerre venivano sospese affinché la competizione ludica potesse svolgersi e il migliore potesse vincere al riparo dalla morte. La gara come festa di vita. L’avversario come rivale nella corsa, nella lotta, nel lancio del disco, ma nel rispetto dell’altro. I perdenti ammiravano i vincitori e ne traevano esempio e stimolo per  prepararsi a poterli superare nel prossimo confronto.

undefinedDov’è finita, oggi, la sacralità di quei giochi? Oggi che non esistono più poeti capaci di narrarci le gesta di un Ulisse che si misura con i giovani principi alla corte di Alcinoo, ma che al più esistono giornalisti che riportano (chi-cosa-come-dove-quando-e-perché, altroché poesia) le informazioni su un ben più modesto ed assai meno mitico Costas Kenteris?
Da una parte l’eroe narrato nei primi libri dell’Odissea che giunge in quell’isola dei Feaci dopo esser sopravvissuto alla tempesta suscitatagli contro da Poseidon. Che si misura con i più giovani, partendo quindi svantaggiato, e che e li vince nonostante l’età suscitando in essi ammirazione e rispetto. Dall’altra l’eroe nazional-popolare della Grecia (ognuno ha i propri: quelli nostrani prediligono sputi e scaracchi) che se proprio vuol gareggiare, senza prendersi la pena di sopravvivere all’ira degli dèi o di recarsi al luogo delle competizioni – casomai prendendosi l’ira di mortali suoi simili cui sfugge, chiamati a verificare la conformità bio-chimica del suo corpo troppo perfetto) -, lo fa contro chi magari gioca pulito, e che egli sa di poter sconfiggere sulla base dell’assunto che risulterà migliore colui che sarà stato capace, meglio degli altri e con insana mens, di nascondere anabolizzate glicemie in corporis altrettanto insani. La gara come festa di morte, ed il migliore che fugge il riparo dalla morte per (con)vincere vanagloria. L’avversario come rivale nella corsa, nella lotta, nel lancio del disco, ma nel pieno spregio del rispetto verso il prossimo e verso lo stesso spirito dello sport. Che significa innanzitutto lealtà. Prima ancora di amicizia, sacrificio, dedizione, orgoglio, passione e dolore.

undefinedCe lo ricorda il Papa, lui che della passione, dolore e sacrificio di Cristo ha fatto una ragione di vita – la sua, quella della gerarchia ecclesiastica e di milioni di credenti in tutto il mondo – che la pratica sportiva, nonostante essa non abbia mai in passato suscitato chissà quale interessamento da parte della Chiesa ufficiale, è pratica di vita. Ed è stato proprio Giovanni Paolo II a far maturare una nuova mentalità, creando una sezione di un dicastero appositamente dedicato allo sport e spiegando che lo sport occupa al giorno d’oggi un ruolo molto rilevante, sia a livello personale, sia a livello globale.
Ce lo ricorda lui – chiamato “l’atleta di Dio” per la sua pratica sportiva portata avanti da sempre – quando sembra voler restituire la sacralità ai giochi di oggi con la “materna protezione della Vergine santissima”, nel suo messaggio prima dell’Angelus letto dalla residenza estiva di Castel Gandolfo, allorché invia il suo “cordiale saluto alle delegazioni ufficiali, ai rappresentanti delle nazioni, agli atleti e ai quanti prenderanno parte alle olimpiadi”.

Volano sul cielo di Atene, sorretti dalla tecnologia, i miti, a ricordarci che qui con Pindaro nacque la possibilità di fare volteggi con la poesia e con l’esistenza. La Grecia si affida ai kouros, al respiro della storia, all’iscrizione sul tempio di Apollo “Uomo, conosci te stesso”, ai suoi tamburi che mimano il battito di un cuore che batte rumorosamente, al fuoco che sull’acqua accende i cinque cerchi, ai fregi contesi del Partenone che non sono tornati a casa, ma sono sempre prigionieri al British Museum, alla magia di luci che sanno tenere lontana l’amarezza, ad un’idea del corpo che è identità antica, ma che ha i volti dell’umanità di oggi. Dei bambini africani, di quelli asiatici: bianchi, neri, gialli, rossi, la nostra radice è unica.

Immagine editoriale Fucine MuteAbbiamo tutti parlato greco un giorno. E sognato di essere uomini che chiedevano agli dèi di scendere a giocare. Ulisse torna a casa. Gli tocca salire un’ultima interminabile scalinata. Per accendere le Olimpiadi nella loro culla. Dopo 108 anni. Siamo tutti naufraghi nella notte, oggi come ieri. Alla ricerca della civiltà, di un approdo sicuro, di un futuro. Sul mar Mediterraneo, sulle onde del destino. Su una piccola barca di carta, quella dei bambini che giocano a navigare l’infinito.
Itaca è Atene. Il nuovo Partenone è questo stadio allagato, questa chiesa moderna, dove da qualche giorno si sta celebrando lo sport, nuova religione del secolo.

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