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Fumetto

L’identità di Batman (I)

Chi è Batman

Immagine articolo Fucine MuteUn ultimo paragrafo introduttivo per i neofiti. Sebbene siano molti gli autori e i disegnatori che si sono cimentati nel riproporre la nascita del supereroe, le cosiddette “origini” ufficiali sono due: la classica, di Bob Kane, e quella che definirò moderna, di Frank Miller. Esse presentano più somiglianze che differenze.
Batman fa la sua prima apparizione nel numero 27 di Detective Comics, del Maggio 1939. L’albo costava dieci centesimi di dollaro e la copertina titolava: Starting this issue: the amazing and unique adventures of THE BATMAN!.Per inciso, è interessante notare come anche l’edizione italiana si riferisca al personaggio con l’articolo determinativo: Il Batman. È evidente che “Batman” ancora non si è affermato come nome proprio, e rimane nella mente degli autori come nome comune, qualcosa che potremmo tradurre “L’uomo-pipistrello” (e infatti in Spagna, dove è d’uso tradurre ogni stranierismo, Batman è conosciuto come “El hombre-murcielago”).
L’episodio si intitola Il caso del sindacato chimico, e si apre con un Bruce Wayne molto signorile in rilassata conversazione con il commissario Gordon, per chiudersi con un Batman durissimo, deciso e determinato. Al momento della cattura del criminale, quest’ultimo reagisce estraendo una pistola; Batman lo colpisce, facendolo cadere in un serbatoio pieno d’acido e causandone la morte. Allo sgomento di un astante Batman commenta: “La fine che si merita uno come lui”.
Il primo Batman, dunque, è violento, spietato e mortale, forse anche un po’ cinico, in linea con i tempi — gli anni ’30, non lo si dimentichi, erano gli anni del gangsterismo.
Credo sia soltanto nel numero 29 di Detective Comics, tuttavia, che viene tracciata la storia di Bruce Wayne: da bambino, assiste all’assassinio dei suoi (ricchissimi) genitori durante uno scippo (il ladro spara con facilità: un altro indizio che riporta all’atmosfera di violenza degli anni ’30); il piccolo Bruce si ripromette di vendicare la loro morte “spendendo il resto della mia vita a combattere contro tutti i criminali”, e cresce preparandosi per il compito che si è assegnato, diventando uno scienziato acuto e un atleta poderoso; una volta adulto, Bruce medita su un travestimento che possa terrorizzare i criminali, notoriamente superstiziosi, quando un pipistrello entra dalla finestra — è l’inizio di Batman.

Negli anni ’50 e ’60 le avventure di Batman perdono di mordente e diventano esagerate e iperboliche. Negli anni ’70 e ’80 il successo del supereroe rimane altalenante, ed è per risollevarne le sorti che la DC Comics affida a Frank Miller una riproposizione delle origini, all’interno di un processo di rinnovamento di tutti i suoi personaggi. Corre l’anno domini 1988. Bruce Wayne torna a Gotham, venticinquenne, dopo più di un decennio di assenza. La città gli risulta sconosciuta, ma è deciso a compiere la propria missione. L’esordio come giustiziere avviene senza travestimento: appena un po’ di trucco e una cicatrice posticcia per mascherare il viso del più noto ereditiero dei dintorni. Cerca di salvare una prostituta da un protettore troppo violento, ma viene scambiato per un attaccabrighe e si ritrova a lottare contro la ragazza stessa. Alla lotta si unisce un’altra prostituta esperta in giochi sadomaso: si tratta di Selina Kyle, futura Catwoman. Il bilancio è disastroso: Bruce finisce ferito in un’auto della polizia, dalla quale scappa in modo rocambolesco.
La rappresentazione della metropoli e dei suoi abitanti è iperrealista: un fatiscente quartiere a luci rosse, dei poliziotti che si rifiutano di portare all’ospedale il prigioniero ferito, un mondo integralmente ostile.
Bruce riesce a raggiungere Villa Wayne. È lì che, in pieno delirio, ricorda la tragedia che lo colpì da bambino. Una splendida tavola in bianco e nero, i personaggi non parlano, nessuna onomatopea a indicare gli spari che spezzano l’innocenza di un bambino. Sono riprese le cinque vignette degli originali di Bob Kane: l’assalto da parte del ladro, l’uccisione del padre, poi quella della madre, il ragazzo di fronte ai cadaveri, il primissimo piano sul viso sconvolto e raggelato. I disegni sono di David Mazzucchelli, i colori di Richmond Lewis, e sono pienamente all’altezza del lavoro di Kane, sebbene personalmente trovo che non ne superino l’operato né in crudezza né in tensione drammatica.
In quel momento un pipistrello rompe il vetro della finestra e Bruce Wayne coglie l’idea migliore della sua vita.

Bob KaneLa differenza fondamentale tra il Batman di Bob Kane e quello di Frank Miller sta nel livello di umanità del personaggio, o meglio, nel livello di (in)fallibilità. Entrambi sono supereroi che compiono imprese straordinarie, per non dire in-credibili, ed entrambi godono di una sorta di immortalità (in Anno Uno, nei primi cinque mesi di attività Batman viene picchiato, accoltellato e colpito da due pallottole) senza praticamente risentirne. Nonostante ciò, il nuovo Batman può sbagliare, anzi: fallisce. È privo di esperienza, certo, ma soprattutto è privo di identità. Ha contro di sé tanto i criminali che la polizia, la gente impiega mesi per fare di lui un eroe. Il vero protagonista di Anno Uno è Gordon, perché, in quanto commissario di polizia, è una figura istituzionale riconoscibile. Batman ancora non è nessuno.

Un Cavaliere Oscuro

Si è visto che Bruce Wayne si ammanta da pipistrello per spaventare i criminali, notoriamente superstiziosi. Non credo che dietro alla scelta di Bob Kane ci siano state riflessioni psicologiche. Probabilmente era affascinato dall’idea del suo personaggio, e non si rendeva conto delle potenzialità simboliche che avrebbe aperto ai suoi successori. In effetti persino la paternità del personaggio è dubbia: non è certo quanto Batman sia di Bob Kane e quanto di Bill Finger. Kane, infatti, era appena un giovane disegnatore: lo sceneggiatore era Finger. Il dubbio rimane aperto, ma non influisce sul mio argomento: l’ideatore di Batman non si rendeva conto che stava fondando un mito.
È ipotizzabile che l’idea di un gigantesco pipistrello che incute terrore abbia le proprie radici nella tradizione dei racconti gotici, popolati da creature mostruose che immancabilmente spaventavano (a volte letteralmente a morte) coloro che disgraziatamente vi si imbattevano. Si può pensare che il costume sia costruito su quello di Superman, che aveva visto la luce qualche anno prima, e che vi fosse la necessità di differenziarsi da questi. Si tratta di ipotesi che possono divertire gli appassionati, ma che non portano lontano.
Può essere invece interessante analizzare la psicologia del personaggio, e a questo scopo la Batman Saga si rivela particolarmente utile.

La Saga inizia con la “caduta del pipistrello”: per tre giorni Batman lotta senza riposo, per arginare i danni provocati da tutti i cattivi storici, evasi in massa dall’Arkham asylum. Egli combatte senza pensare a se stesso, ignorando il dolore delle ferite, orientato verso un unico scopo, per quanto grande, per quanto folle. Nell’attualità dei nostri giorni esiste una figura che agisce allo stesso modo: quella del terrorista kamikaze. Solo il fine è differente, non il modus operandi: Batman, come il kamikaze, è un fanatico.
È d’obbligo ricordare che questa dimensione psicologica non è sottolineata da tutti gli autori, ma impregna a tal punto l’azione dell’eroe da trasparire praticamente in ogni sua avventura. Persino l’epiteto di “Cavaliere” è indicativo di una precisa mentalità: si pensi per esempio all’immagine più classica del cavaliere, quella trasmessa dal ciclo mitologico del Graal: i cavalieri della tavola rotonda si disperdono nella ricerca del sacro calice; quasi tutti periscono nell’impresa, ma la morte fisica è solo una metafora per la morte dell’anima. Essi si consacrano a un’impresa e scompaiono nel tentativo di portarla a termine. Per ognuno di essi non vi è altro destino che la ricerca. Storicamente i crociati e i templari adottavano una forma mentis simile: imbevuti di fanatismo religioso al pari dei mori, avanzavano seguendo un unico scopo, la presa di Gerusalemme e l’eliminazione dei nemici infedeli (e sebbene usualmente non si studi sui libri di scuola, quando i crociati presero la città santa liberarono la propria ferocia in una carneficina che, secondo i cronisti dell’epoca, provocò fiumi di sangue lungo le strade).

Immagine articolo Fucine MuteBatman, dunque, è un fanatico, ma questa definizione ancora non ne spiega lo slancio emotivo. Per comprendere appieno il personaggio di Batman è necessario analizzarlo dal punto di vista psicologico. Ne vale la pena, visto che, fra i comics americani, sembra essere l’unico con una psicologia profonda e tortuosa (oltre al nostro eroe, il solo personaggio cui io riesca ad attribuire un certo spessore è… Hulk! Lo si legga e forse mi si darà ragione).
Si immagini di assistere all’omicidio brutale dei propri genitori. È un evento che scuoterebbe profondamente un adulto, facile immaginare quale possa essere lo shock su un bambino: l’intero suo sviluppo emotivo ne sarà compromesso. Si immagini che quel bambino operi un transfert dal criminale alla criminalità, che proietti cioè il male che si è manifestato attraverso un’azione individuale (quella del ladro) su un’intera collettività di individui: è evidente che, ad ogni scontro contro un criminale, egli rivivrà l’omicidio dei genitori e lo supererà momentaneamente. Quel bambino, infatti, si sarà sentito impotente davanti al ladro-omicida, e questo senso di impotenza gli avrà provocato un profondo, incurabile senso di colpa: se solo fosse stato forte e grande — se solo fosse stato Batman — avrebbe potuto salvare i genitori, ma non lo era. Per questo trascorre l’intera propria giovinezza cercando di diventare quel che, nella propria mente, avrebbe già dovuto essere. È significativo che in Batman Anno Uno il Bruce Wayne ferito dopo la sua prima, sfortunata impresa notturna si rivolge al padre, dicendo: “Preferirei morire… che aspettare ancora. Ho aspettato… diciott’anni…”.
Usando la terminologia dell’analisi transazionale, il piccolo Bruce prende una decisione di vita e su di essa costruisce il proprio copione di vita. Si tratta di uno schema che governerà, consciamente o inconsciamente, ogni sua decisione, e che di fatto costituirà un modello comportamentale che si ripeterà potenzialmente all’infinito.
Bruce Wayne rimane abbastanza lucido da distinguere sempre, secondo una logica piuttosto manichea, tra innocenti e colpevoli, tra vittime e carnefici (altri giustizieri contro cui è costretto a scontrarsi, come per esempio il Mietitore di Anno Due, non sono capaci di questa distinzione, e lo stesso Azrael, nei panni di Batman, finisce per colpire senza discriminazioni chiunque si interponga alla sua missione purificatrice). Non riesce, tuttavia, a dare un senso alla propria vita se non negando infinitamente la possibilità stessa di quell’omicidio: combattere il crimine, infatti, significa per lui impedire che quanto gli è accaduto possa accadere ad altri e, in ultima analisi, impedire che un fatto del genere possa definitivamente accadere. Se d’altra parte esso non può accadere, è plausibile che non potesse accadere neppure in passato, che non sia mai accaduto: se Batman riuscisse a eliminare il male, il male non esisterebbe più, e poiché egli esiste solo in quanto antitesi del male, smetterebbe di esistere a propria volta. Ecco dunque che la missione di Batman non può avere una fine: è un compito pantagruelico, sisifico, è il destino di chi tenta di rimediare a una realtà irrimediabile.

Immagine articolo Fucine MuteUn altro aspetto perverso della psicologia della maschera è la presenza di due personalità, divise da una maschera. Si tratta di una questione rilevante: la approfondirò in uno dei prossimi articoli. Essa conduce nel frattempo a ulteriori riflessioni. Bruce Wayne è una personalità in fase di scomparsa, viene fagocitata sempre più da Batman, tanto che finisce per rivelarsi solo quando è necessaria la sua influenza: quando Bruce si candida a sindaco di Gotham, per esempio, o quando, dopo il terremoto che distrugge Gotham, egli tenta la via diplomatica per veicolare l’attenzione dei politici sulla metropoli. Di fatto ciò che tiene in vita Bruce Wayne è il suo dovere — è lo spirito di Batman.

Si è visto però come l’anima di Batman sia dominata da un tormento cronico: ecco allora che l’oscurità si rivela come l’espressione concreta della psiche del personaggio, del suo mondo interiore. Egli vi si muove con agio, con familiarità; ne conosce i segreti, sa trasformare le trappole in vantaggi, come quando sfrutta le ombre per mimetizzarsi. La notte è il suo universo, tanto interiore che esteriore, è il mondo che ha scelto.
Finché Batman agisce di notte, è un mostro, uno spettro, un alieno. Chi lo sfida sa che è un uomo, ma non riesce a pensarlo come tale. L’oscurità gli conferisce tutto il potere che deriva dal mistero, dall’ignoto, dall’indefinibile. Se invece egli agisce di giorno, è solo un forzuto con una tutina aderente. Certo la sua fama, la sua reputazione lo precede e spaventa gli avversari, ma spesso questa paura si trasforma in aggressività invece che in un istinto alla fuga. Da un punto di vista psicologico lo stesso Bane vuole misurarsi con lui per vincere la propria paura. Nel fumetto non è mai esplicitato, ed è un peccato, ma la dinamica è chiara e chiunque può sperimentarla nella vita di tutti i giorni: affrontare le proprie paure è l’unico modo per sconfiggerle.
Sembra dunque che l’oscurità di Batman inneschi un duplice meccanismo. Da un lato essa si rivela un’alleata indispensabile nella quotidiana lotta alla criminalità, da quella micro a quella super. Dall’altro essa costituisce una sfida per i villains pazzi e genialoidi, che reificano in Batman le proprie paure. Ne è testimonianza il fatto che in anni recenti si è cercato di dare un certo spessore a un personaggio che per la propria natura ne è completamente privo, il Joker, e che questa operazione ha comportato proprio la caratterizzazione delle sue paure. A un Joker che ride anche mentre viene colpito, si è contrapposto un Joker che strabuzza gli occhi angosciato alla semplice apparizione del suo eterno avversario (come avviene nella Saga, nel primo scontro tra i due dopo l’evasione).

Tutti questi elementi sembrano portare a una conclusione: Batman è vittima di un processo autogenerantesi, è intrappolato in un circolo vizioso che egli stesso ha scatenato. Da un lato egli è Batman per superare la morte dei genitori, dall’altro proprio il suo essere Batman lo spinge a rivivere quell’evento ancora e ancora, in una reiterazione che non ne costituisce mai, né potrebbe farlo, un superamento (non a caso nei momenti difficili Batman rievoca sempre la notte maledetta). Inoltre per vincere il nemico e dare a se stesso una nuova pelle egli ha scelto un’identità che ontologicamente produce nemici, nel senso che incentiva i vari cattivi a scontrarsi con lui.
Batman è prigioniero di se stesso, è prigioniero della propria follia, e in questo senso la differenza tra lui e i supercriminali che affronta rimane solo nella direzione morale del suo agire: Batman tende al bene attraverso metodi machiavellici, i suoi nemici tendono generalmente al male. Per quanto gli sceneggiatori moderni tentino di giustificare l’operato dei supercriminali con storie di vita strappalacrime (si pensi che a Bane è stato dedicato un intero album speciale per raccontarne l’infanzia e la giovinezza in una prigione, sic!), nessun alibi impedirebbe al fumetto nel suo insieme di assumere una visione prettamente manichea. Quel che lo salva, e che traccia la differenza (abissale) tra Batman e le altre testate, è che il personaggio stesso di Batman non coincide con una logica manichea.
L’identità di Batman (come quella di Hulk) è costituita da una natura positiva in costante contrapposizione a una tendenza distruttiva, vendicativa. Il detective brillante e razionale, che agisce nella piena osservanza di un proprio sentitissimo senso della giustizia, si bilancia con il guerriero feroce, con il cavaliere nero tentato a più riprese di usare ogni metodo per spazzare via il nemico. E in questa perenne, sofferta ricerca dell’equilibrio è contenuto tutto il fascino di Batman.

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