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Scrittura

Armando Gnisci

Popoli in cammino

Immagine articolo Fucine MuteTiziana Carpinelli (TC): Nell’ambito di Sguardo Meticcio, Fucine incontra Armando Gnisci, docente di Letteratura comparata alla Sapienza di Roma e direttore della rivista Kuma, specializzata nel settore della letteratura di migrazione. Essendone uno dei più attenti ed originali osservatori, come legge il fenomeno “migrazione”?

Armando Gnisci (AG): Tutti noi siamo “migranti”. La pulsione a trascendere, cioè ad andare oltre e ad avventurarsi verso l’ignoto, è insita nel DNA umano. Tutti noi, quindi, siamo migranti “per specie”, essendo l’impulso ad andare oltre la propria consistenza umana una necessità primordiale. Siamo popoli che abitano le strade, popoli in cammino.
E poiché siamo un popolo in cammino, la nuova umanità va sempre più configurandosi attraverso la creolizzazione del mondo: tocca ai letterati, ai musicisti e agli artisti costruire per la gente un inedito immaginario.
Per questo motivo, trovarci oggi qui, assume un significato fondamentale.
Al di là delle problematiche normative e sociali, la letteratura di migrazione acquisisce un senso soprattutto se viene considerata un patrimonio collettivo e una fonte di arricchimento individuale.

TC: Come è possibile ottenere questo risultato?

AG: Ciò può avvenire solo attraverso l’educazione scolastica. La scuola pubblica, luogo deputato da sempre alla formazione e all’integrazione dell’individuo, ha sì reagito bene, ma lo ha fatto attraverso la forza spontanea degli insegnanti e dell’associazionismo; è mancato, invece, l’atto istituzionale di adottare un programma interculturale standard.
C’è da dire che, in Italia, l’unica istituzione statale che abbia reagito immediatamente al fenomeno della migrazione è stata proprio la scuola, perché in essa gli immigrati ci sono per davvero e ne fanno parte con gli stessi diritti dei bambini italiani: nelle scuole non si parla della migrazione come di un fenomeno che sta fuori dalle aule parlamentari, dalle aule dei partiti o dei sindacati, e quindi non è rappresentata come un problema politico da risolvere attraverso leggi, ordinamenti e azioni “per contrastare” — come dicono i nostri politici — l’immigrazione clandestina.
Al fianco dei nostri figli o dei nostri nipoti siede realmente accanto una bambina argentina o una bambina cinese e ciò avviene da anni: fa parte ormai della nostra realtà.

Tengo a sottolineare nuovamente che, se c’è stata una pronta reazione scolastica, ciò è stato possibile solo attraverso le forze spontanee dell’istituzione stessa, poiché le politiche culturali della nostra classe dirigente, sia quella di sinistra che quella dell’attuale destra, non sono state all’altezza della situazione se non per gli atteggiamenti punitivi o addirittura militari: si parlò tempo fa — certamente lei se ne ricorderà — di mandare i caccia marini e gli incrociatori a respingere questi popoli che arrivavano.
Nelle nostre aule mancano programmi interculturali standard, non ci sono aiuti perché la scuola sviluppi questo tipo di attività didattica ed extra-didattica. Sono le nostre maestre, i nostri insegnanti che s’assumono questo compito.

Sono appena uscito da una mostra presso la scuola elementare “Duca D’Aosta”, dedicata al lavoro interculturale che le ultime classi, specialmente le quinte, hanno fatto recentemente: sono veramente delle opere straordinarie e testimoniano oltre all’impegno dei bambini, anche il dispendio di energie degli insegnanti.
Inoltre, in ognuna di quelle classi che ho visitato c’è un bambino russo, un bambino bosniaco o comunque un bambino di nazionalità “straniera”: proprio a partire da loro si ricostruisce la cultura diversa d’appartenenza, prendendo come strumenti la lingua, il racconto della favola, la rielaborazione teatrale, la ricostruzione visiva e via dicendo.
Ripeto: la scuola è fondamentale assieme all’associazionismo e al volontariato. Questi strumenti sono il migliore incontro che la nostra società ha saputo realizzare nei confronti della popolazione migrante. Tutte le altre cose, al di fuori di queste vie, sono aiuto, carità, interesse momentaneo di dare un pasto o un tetto a chi non ce l’ha, oppure, in casi peggiori, addirittura provvedimenti di polizia per contrastare i cosiddetti “clandestini”.

Immagine articolo Fucine Mute

TC: E per quanto riguarda invece l’inserimento dell’adulto?

AG: C’è innanzitutto una considerazione molto importante da fare, una considerazione che spesso risulta tralasciata o non considerata affatto: nessuno vuole lasciare la propria casa. Questi popoli che si muovono lo fanno perché da loro, nelle loro abitazioni, non c’è da mangiare, non si può sopravvivere.
In Africa, addirittura, non c’è da bere. L’acqua, che da noi è un bene di consumo direi quasi “irresponsabile” — teniamo il rubinetto aperto senza renderci conto di quanta ricchezza stiamo sprecando -,  è per tanti posti in Africa (e in altre parti del mondo) un bene che si sogna.

Detto questo, si comprende facilmente che è la necessità di trovare un lavoro dignitoso, di avere una vita come tutti gli altri esseri umani — non tanto di arricchirsi, quanto di avere semplicemente una vita decente — il movente fondamentale della migrazione.
Questi popoli vengono da noi per trovare lavoro perché l’unico modo che l’uomo ha trovato per guadagnarsi una vita dignitosa è il lavoro. Ma, lo sappiamo tutti, l’inserimento nel mondo del lavoro, è abbastanza difficile.
Ormai si è stabilizzata la conoscenza del mondo lavorativo degli immigrati: il flusso migratorio, da tempo, è andato a riempire quei vuoti che appartengono alla fascia più bassa del settore industriale o agricolo, svolgendo così quei mestieri che il cittadino italiano non vuole più esercitare, perché scarsamente remunerativi, troppo faticosi o poco soddisfacenti.

Data consolidata questa situazione, mi sembra più importante e interessante sottolineare (soprattutto in Italia, ma anche in altri Paesi europei) che la venuta di questi stranieri ha avuto, come conseguenza positiva, un nuovo aspetto: la cura dell’anziano e del disabile.
Perché è accaduto? Perché evidentemente la nostra società non ha sviluppato ancora — e speriamo che prima o poi lo faccia — una vera e propria politica sociale, intesa come assistenza concreta alle persone anziane. Gli anziani sono abbandonati; ma non solo, gli anziani sono diventati, purtroppo, la parte più importante della società, dato che in Italia e nell’Europa occidentale non si fanno più figli. Ci sono sempre meno bambini e sempre più anziani: le persone hanno una vita più longeva per l’attuale benessere fisico, proveniente da un lato dalla nostra ricchezza e dall’altro dalla tecnologia medico-farmaceutica o dalla dieta (non siamo più paesi poveri dove la carne si mangiava una volta al mese: noi la carne la buttiamo).
Inoltre, ci sono meno bambini perché questi sono diventati un problema da accudire, visto che oggi è impensabile che entrambi i genitori non lavorino: come si fa a decidere di non mettere al mondo dei figli propri e curare invece gli anziani? Perciò, gli anziani sono diventati un problema. Ricorda il verso della canzone Il nonnetto dove lo metto?. Paradossale, sì, ma quanto mai attuale.

TC: Come spiega il fatto che oggi noi lasciamo quella che è la nostra tradizione, la nostra cultura e i nostri valori sociali — perché in definitiva rappresenta questo l’anziano — nelle mani di persone che appartengono a civiltà che sono completamente diverse dalla nostra? In questo senso, l’integrazione culturale come può essere indirizzata?

AG: Questa è una risposta difficile da dare, anche perché io non sono un politico; comunque, non credo si tratti di un problema da risolvere o rappresenti un dissidio all’interno della nostra collettività, reputo piuttosto questa situazione come la chiave indispensabile, all’interno della  nostra società, per raggiungere un maggiore equilibrio nel rapporto con gli anziani.
Ribadisco, se le attuali giovani famiglie non vogliono avere figli, tanto meno desiderano un anziano da accudire: questo ormai è assodato; infatti, se le famiglie giovani non vogliono o non possono avere un figlio per tutta una serie di considerazioni (inconciliabilità di carriera e maternità, costo della vita, sacrificio professionale e via discorrendo) perché mai dovrebbero volere in casa un anziano? Secondo quest’ottica non ha molto senso, vero?
Quindi gli anziani sono tagliati fuori, lasciati ai margini della società e, di fatto, vivono meglio soltanto in base a quello che anche il Papa ha definito “Dio Denaro”; è il “Dio Denaro” che regola i nostri rapporti, la nostra affettività, la nostra percezione del mondo esterno o perfino l’avere a che fare con la nostra medesima vita e morte.

Immagine articolo Fucine Mute

Se c’hai i soldi, affronti tutto questo meglio — non dico bene, meglio -, ma se i soldi sono pochi sei abbandonato a te stesso.
Perciò, queste persone che vengono a prendersi cura dei nostri anziani sviluppano una vera e nuova cultura dell’amore, cultura dell’affettività perché è proprio affetto quello che danno: lo stare insieme ad un anziano, che cosa significa? Significa prendersi cura di lui. E chi si prende cura di qualcuno in tutte le ore del giorno e della notte? Nemmeno la mamma nei confronti del suo bambino, perché la mamma, oggi, non ha tempo, lavora, non può continuamente pensare alla propria prole. Giusto?
Queste persone sono venute e vengono a dare affetto e a profondere una cura totale ad un’altra persona umana: è su questo che dobbiamo riflettere.
È una nuova forma di affettività, comprata, perché si paga; non è gratuita poiché è una forma di lavoro. Però, è una forma di lavoro completamente nuova e diversa da quella che potrebbe essere l’assistenza di volontariato, laico o della Caritas, che si interessa al problema di dare un pasto o un tetto al giorno a persone che non ce l’hanno: questa si configura come una qualità in più dell’amore tra esseri umani.

TC: Certo, ma al di là dell’amore, avendo queste persone a che fare con anziani che soffrono (nella maggior parte dei casi) di patologie, dovrebbero avere una specializzazione o quanto meno delle qualifiche: come fare in questo caso, dal momento che spesso lo Stato non gli riconosce nemmeno i titoli di studio?

 AG: Si può rispondere, sempre dal mio modesto punto di vista, con un migliore stato del welfare: costruendo uno Stato migliore, uno Stato che si prenda sempre più cura — e non meno, come può invece sembrare — dei bisogni di tutte le persone che fanno parte della collettività.

Agli italiani non serve pagare qualche euro di tasse in meno, serve più sicurezza sociale, più attenzione nei confronti dell’anziano, e questo anche se l’affetto non glielo potrà mai dare lo Stato: l’amore continuo o il prendersi cura notte e giorno, glielo può dare soltanto una persona che dedica una parte della sua vita — spesso la giovinezza — agli altri.

TC: Qual è invece, concludendo, la prima “cura” che possiamo dare noi ai popoli migranti?

AG: Una prima cura è rappresentata anche da questo tipo di manifestazioni che fungono da stimolo e da riflessione per un agire. Vorrei sottolineare il grande impegno degli operatori nell’istituire eventi come Sguardo meticcio, che è promosso dall’associazione Alce.
Per il resto, è indispensabile tener ben presente nella mente — sempre e prima di qualsiasi cosa — una considerazione fondamentale.
I popoli umani che abbiamo sterminato tornano a noi e, per la logica dell’homo homini lupus, dovrebbero venire con intenti sanguinari e vendicativi. Non è così. L’arabo non viene a convincerci — come spesso viene millantato — che Allah è meglio di Jahvè. Queste sono frottole.
È un gesto doveroso riflettere che queste persone non vengono qui per spodestarci o danneggiarci, come qualche politico vorrebbe dare ad intendere. Arrivano da noi per trovare ciò che non hanno, vale a dire le stesse cose che noi europei, nei secoli scorsi, gli abbiamo tolto. Vengono per trovare dignità. Noi li accogliamo con la Bossi-Fini.

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