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Palcoscenico

Mariangela Gualtieri

Non – splendore rock

Concerto per funamboli poetici

Immagine articolo Fucine MuteSulle pareti della chiesa dell’ex-convento una serie industriale di sagome umane nere su sfondo giallo di Luigi Sacilotto, acide, che nel dettaglio non sono altro che segmenti ondulati a formare una figura come tessuta. Al posto dell’altare il palco, le casse e gli strumenti musicali. Quindi il pubblico, soprattutto giovani e… Non — splendore rock.                                       

Ci si trova di fronte uno spettacolo cangiante come potrebbe definirlo e “non” la drammaturga e poeta, testo e voce, Mariangela Gualtieri: una contaminazione tra diversi ambiti di ricerca, il cui successo diviene dalla semplicità delle soluzioni adottate dal regista Cesare Ronconi.
In principio c’è del rock — gli Aidoru: Mirko Abbondanza, basso e canto; Michele Bertoni, chitarra; Diego Sapignoli, batteria; Dario Giovannini, chitarra, fisarmonica e canto — usciti fuori da sonorità progressive, che evocherebbero i Radiohead se non fosse per delle sfumature tribali.
Quasi adattando la musica ai costumi del Parsifal (Teatro Valdoca, 1999), vestiti dunque da pazzi e armati di strumenti musicali decisamente metallici, gli Aidoru si accompagnano a Mariangela Gualtieri, che per il trucco e per i gesti sottili di un dolcissimo mimo ricorda la dea indù di Nirvana di Salvatores, l’atmosfera dorata e rituale di qualche chiesa d’oriente e per l’uso del megafono un meraviglioso essere mediatico disturbatore delle nostre illusioni quotidiane: già da questi dettagli nasce l’impressione di stare in un medioevo, ma senza perdere la ragione del nostro tempo.
Dietro il palco nell’abside, proiettate, immagini di un celeste affumicato tratte dalla pellicola in bianco e nero “Lampi sul Messico” (1933, apocrifo montato da Sol Lesser sul materiale di İQue viva Mexico!) di Sergej M. Ejzenštejn, film che avrebbe dovuto narrare l’infelice vicenda di un giovane peone e in parallelo indagare la storia del Messico, alla scoperta della sua “antropologia” e “sociologia” dalle tradizioni precolombiane sopravissute.

È evidente che Cesare Ronconi abbia diretto questo spettacolo a partire da elementi frutto di un’astrazione dal reale, seguendo magistralmente la propria istintuale visionarietà: i quattro Aidoru al centro del palco, la figura incarnata dalla Gualtieri — osservando dal pubblico — sulla destra, il film di Ejzenštejn a dare sfondo, sono elementi che hanno la propria indipendenza nel non mimetizzare alcuna realtà.
E, una volta partita la musica, da subito si avvertono sbilanciamenti, perdite di equilibrio, improvvisa visione di forme, come se ci ritrovassimo di fronte un sogno e la logica fosse asimmetrica, come se questi elementi avessero la possibilità, da un momento all’altro, di acquisire significati diversi…
Questa è peraltro anche una delle caratteristiche della formatività della Gualtieri, che in poesia approfondisce l’attimo nel senso, donando alle parole fluidità, vita propria, come se si potesse tessere un fiume nella nascita e nella scomparsa di un’onda sola.

Una caratteristica del gruppo romagnolo è, inoltre, quel passare da un sound ad un altro, dal suono punk all’acustico, con estrema rapidità; eppure i movimenti di questi musici, ad esempio quando costretti a cambiare strumento, sono di un’armonia quasi a simulare lentezza, aspetto che si ritrova in tutta la gestualità della Gualtieri e che sottolinea il lavoro di approfondimento dell’attore.
E il film di Ejzenštejn?
Cesare Ronconi, vagando prima dello spettacolo nel convento come se fosse la presenza/assenza di uno spirito indigeno, potrebbe ben affermare di rispondere solo a “domande che non hanno risposta”.

Christian Sinicco (CS): Nel 1983 nasce a Cesena il Teatro Valdoca ad opera di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri. Più di vent’anni di attività e innumerevoli spettacoli, e un’attenzione particolare alla parola poetica — il Teatro ha lavorato con autori quali Mario Luzi, Franco Loi, Franco Fortini, Milo De Angelis, Maurizio Cucchi. Quali relazioni il fare poesia dona al fare teatro? Quali relazioni nella trasmissione della poesia intervengono nella cornice predisposta per il teatro?

Mariangela Gualtieri (MG): Vorrei innanzitutto precisare che i poeti che lei ha nominato hanno partecipato ad un laboratorio che abbiamo fatto: questo è stato il rapporto che abbiamo avuto con loro.
Poesia e teatro: credo che la poesia abbia bisogno di essere detta, di uscire dalla pagina scritta; di essere detta di fronte ad una comunità, una coralità di persone, che la ascoltano. In un certo modo è come dentro un rito, mentre tutti noi la leggiamo silenziosamente. Il teatro poi ha bisogno di parole vive, vertiginose, come sono quelle della poesia. Questo perché il cinema ed altri mezzi raccontano meglio del teatro, e quindi a lui spetta questa forza della parola poetica.

Immagine articolo Fucine Mute

CS: Loi, in un’intervista, afferma che il teatro si trova in difficoltà per l’assenza di libertà: più che assenza di libertà espressiva definirei l’attuale situazione come “tentata omologazione a prodotti di intrattenimento” che non ripensano il teatro e quindi non fanno teatro. Come il Teatro Valdoca ha ripensato il teatro?

MG: Partiamo sempre da un’urgenza, da una necessità nostra, che è la garanzia che non andrai a confezionare un prodotto che si aggiunge a tutti gli altri. Le caratteristiche di questa urgenza sono anche presenti in tutti i nostri attori: il dire, la bellezza, la forza, il contagio, sono aspetti che non centrano con la civiltà dello spettacolo e del consumo.

CS: La riflessione sulla società entra nel lavoro del Teatro Valdoca? Come?

MG: Ci entra sicuramente, ma il nostro non è un teatro che si occupa del sociale, dei problemi del sociale; ci entra come pietà per l’uomo contemporaneo e come desiderio di dire una parola benefica, che sia esortativa, che possa chiarificare.

CS: Non — splendore rock è il titolo dello spettacolo. La negazione alle volte è un modo per affermare qualcosa, per far giungere indirettamente un messaggio; oppure è la difficoltà e allo stesso tempo il suo superamento, o il nodo che scioglie il messaggio. Quale la funzione data alla negazione nella sua esperienza artistica?

MG: La forza del “non” credo nasca dal fatto che siamo in un’epoca di saturazione: tutti avvertiamo il forte accanimento che investe tutto il visibile, l’azione forte che sollecita tutti i campi, tutte le sfere dell’umano, che sono sature. Tutto questo pieno… A me viene voglia di togliere, di dire dei “non”, come “non essere”, “non volere”, “non”, “non”…

CS: Il sodalizio fra la musica e la poesia di Mariangela Gualtieri? Questa sera lo spettacolo è di musica rock e di parola poetica. Cosa unisce la musica e la poesia, questi due mondi?

MG: È proprio Cesare Ronconi che sposa, in genere, musica e teatro. In questo caso tutto è nato da un incontro felice tra me e gli Aidoru e la loro musica, e la voglia di portare la poesia ad un pubblico giovane, un pubblico che abitualmente non entra nella categoria degli abbonati al teatro.

CS: Gli spettacoli del Teatro Valdoca sono ricchi di speranza, che reagisce al nichilismo e al pessimismo. Esiste uno spazio oltre queste categorie filosofiche dove fede, speranza, e se vogliamo la possibilità di realizzare delle utopie pur piccole, si concretizzano?

MG: Credo non ci sia speranza senza un ideale di trascendente: al di fuori di questo non c’è alcuna speranza. Sono anche d’accordo con i nichilisti nel riconoscere che “Dio è morto”, e trovo liberante molto questa morte: il dio che mi avevano insegnato era veramente tetro. Tuttavia credo fermamente nell’anima e nella vita dell’anima, e la speranza nella mia scrittura nasce da questo. Al di fuori di una fede nella trascendenza non vedrei alcuna speranza.

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