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Scrittura

Riflessioni per un’estetica al femminile

Immagine articolo Fucine MuteÈ sotto gli occhi di tutti un fenomeno che merita qualche riflessione: sfogliando una qualsiasi storia della letteratura italiana, è evidente la scarsa presenza delle voci femminili. Qualche motivo ci dev’essere dal momento che i testi maschili vengono inseriti in un percorso scandito da notazioni filosofico-scientifiche e riconosciuti per le loro precipue originalità stilistiche. Visto in questa prospettiva, il corpus letterario sembra non aver bisogno dell’apporto femminile, che infatti viene collocato a lato, disinserito da quella storia, perché esibisce un sapere legato più al vissuto, anche linguistico, che alla sua teorizzazione.
Probabilmente un critico donna, che non abbia accettato il linguaggio e i modelli epistemologico- estetici ormai vulgati, leggerebbe con tutt’altra attenzione i testi di “gendre”, ricordando oltretutto che le varie teorie della letteratura sono state codificate pensando a un lettore neutro, universale ed indifferenziato, come il famoso “Lettore modello” di Umberto Eco o il “Lettore informato” di Stanley Fish. È stato uno scrittore a immaginare il suo interlocutore in una donna, Italo Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore: qui Lotaria, la protagonista, in effetti è una ribelle, che scansa l’apparato critico maschile, non volendo istituire col testo rapporti gerarchici. A lei non interessa far vedere quanto sia brava a ritrovare tra le righe le proprie teorie estetiche, ma pretende di stabilire un dialogo con la pagina scritta, per verificare una continuità tra letteratura e vita.[1] Questo atteggiamento presuppone l’abbandono di una strumentazione critica tradizionale, coi suoi vari approcci filologici, psicanalitici, sociologici, semiologici, decostruzionisti, eccetera, a favore di un’interpretazione che si è configurata in termini assai poco sistematici, presentandosi quasi come semplice reading. Calvino forse ha colpito nel segno: ma questa cultura, che si accontenta di definizioni interlocutorie, difficilmente può entrare nei nessi del circolo del sapere-potere, per dirla con Foucault: quindi finora ha taciuto sull’elaborazione teorica della propria scrittura.
Infatti, come è stato spesso ripetuto, il sapere femminile, piuttosto che elaborazioni astratte, predilige ascoltare i suggerimenti di una sensibilità legata al corpo; è questo che dà la vita, che nutre e che, dopo la nascita, per il maschio resta il luogo della felicità cui vuole tornare. Per risarcirsi dallo strappo dalla madre l’uomo tende a stabilire un rapporto di dominio con quel sesso che, garantendogli la disponibilità del posto delle origini, può rinnovare il modello primario di ogni felicità.[2] Ciò non vale per la donna, che in quel luogo non può tornare, ma che lo ricorda nel segno di una ricomposizione armonica con l’altro da sé nell’unitarietà del sentimento d’amore, inteso anche come pietas.
La letteratura di “gendre” nasce sotto la spinta di questo desiderio di compenetrarsi con l’altro, o di problematizzare questa istanza, fino anche a volerla combattere; e questo è il problema che ha scatenato una serie di ipotesi inquietanti sul rapporto, esemplare in questo senso, madre-figlia, uno dei nodi che la letteratura maschile non ha potuto affrontare.

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Nella poesia femminile è effettivamente relegata in secondo piano la necessità di una comprensione logico-ontologica del mondo: basti leggere le nostre scrittrici più intense, a partire dalla prima, Santa Caterina, che metteva a fuoco la tipologia del suo amore per Dio, in cui voleva annullarsi come se Lui fosse una Madre; ma si può arrivare, seguendo questo percorso, fino alle scrittrici più moderne, tra le quali, per restare in ambito italiano, basti citare Alda Merini, con la sua raccolta dal titolo emblematico Vuoto d’amore o con quella, per una verifica “a contrario”, che si confessa Folle, folle, folle d’amore per te. Molto più simile al modello offerto dalla cultura maschile è in quella femminile il tipo di rapporto che la figlia ha col padre, o la madre con il figlio, cioè l’”edipo” in tutte le sue varianti, anche in chiave dichiaratamente erotica (Patrizia Valduga): ma tra le due scritture ci sono differenze sostanziali.
Dalle poetesse del Cinquecento fino a epoche più recenti, Vittoria Colonna, Tullia D’Aragona, Veronica Gambara, Maria Savorgnan, Lucrezia, Isabella Sforza, Gaspara Stampa, Veronica Franco, Contessa Lara, Amalia Guglielminetti e altre, il legame d’amore, che pur era rivolto inizialmente a un personaggio terreno, finiva a volte per essere rapportato a ciò che per definizione supera la storia, ovvero Cristo e il pensiero religioso, che sa davvero spiegare la verità al lume dell’esistenza quotidiana. Simone Weil, come Cristina Campo, ad esempio, affermano che bello e bene, ovvero “musica” [3] (la bellezza) e la realtà quotidiana (il regno della necessità), non si oppongono ma si identificano. La bellezza è il segno di quell’altro mondo, cui si aspira, che fa percepire come una ferita il vuoto e le deformazioni di questo; ma che al tempo stesso lo solleva nella poesia. La coscienza dell’esilio è infatti una delle costanti della poesia femminile, e ha le sue radici sia in ambito genetico-antropologico, cioè nello strappo irreversibile dalla madre, sia in ambito gnoseologico, dal momento che per secoli la cultura maschile ha indicato nella religione una filosofia inferior, per le donne. Questa regala infatti un tipo di conoscenza cui si arriva attraverso il cuore, non la ragione, come ben scopriva Blaise Pascal. L’amore “terrestre”, in molte espressioni poetiche del passato, viene paragonato a quello “celeste”, ma è ovviamente sentito come limitante, dal momento che circoscrive qualcosa entro lo spazio e il tempo del mondo finito. Quest’amore, che appagherebbe il cuore dell’uomo, per una donna è poco, se rapportato a quella dimensione che sta “altrove”. Quante lamentazioni per un amore mai totale, se non quello divino, abbiamo letto! Non c’è qui lo spazio neppure per microsaggi sulle presenze più accreditate della poesia femminile contemporanea, ma certo è che colpisce l’insistenza con cui la donna poeta parla ancora, seppur in termini laici, del proprio dislocamento rispetto a un centro agognato, o percepito, o di una solitudine che pesa, o della percezione di sé come alterità, tanto che lo spazio di sé è avvertito come chiuso, una prigione da cui bisognerà prima o poi uscire, per amare.

Immagine articolo Fucine MuteSylvia Plath, nella sua Ocean 12-12 W, lo dice esemplarmente: “Io che […] ero stata il centro di un universo teneramente rivolto verso di me, sentii l’asse squarciarsi e un freddo polare immobilizzarmi le ossa […] Avvinta al mio rancore […] mi incamminai, faticosamente e da sola […] nella direzione opposta, proprio verso quella prigione spaventevole. Come da una stella, vidi, in modo freddo e sobrio, la separazione di ogni cosa […] L’esperienza di fusione meravigliosa con le cose di questo mondo era finita”.[4]
Nel corpus letterario femminile è poi molto sviluppato il filone della poesia come memoria, che attraverso una sorta di anamnesi cerca di verificare la beatitudine di un prima, il trauma di una rottura e l’inizio di un processo che vede la finzione come forma sostitutiva di un’identità perduta. Si tende non alla ricerca, maschile, della verità, ma dell’invenzione di luoghi o di situazioni di riscatto: Menzogna e sortilegio credo sia già di per sé un titolo significativo della scrittura femminile. Si potrebbe continuare a lungo in questo senso, individuando temi e mitologhemi specifici di una cultura che, come si diceva all’inizio, non è stata disposta, e analizzata, lungo l’asse di uno sviluppo storico. Anche perché la poesia femminile tendenzialmente tiene fuori la storia, o se ne occupa quando infierisce su innocenti per denunciarla: in linea di massima la storia è vista, e mi sembra ovvio, dalla parte dei perdenti.
Ma esiste un’estetica al femminile? È un problema che sto appassionatamente dibattendo con un amico. Io credo di sì e se fino a questo momento non riesco a dare un decalogo è perché anch’io, parafrasando Simone Weil, posso dire di essere stata cresciuta su quella imparata sui libri, cioè decisamente intellettualistica, maschile. L’amico mi provoca: “Maschile e femminile non sono intesi come categorie anatomiche naturali sessuali, ma come categorie o dominanti psichiche (per cui un certo maschio può avere una dominante psichica femminile più forte di una certa femmina, e viceversa).
“Nella narrazione che è l’opera d’arte, il maschile equivale al significato, al tempo; il femminile equivale alla forma, allo spazio/eternità. Nel dualismo antropologico tra maschile e femminile, l’operazione arte, e quindi l’opera d’arte, rappresenta il punto più alto di sintesi, di riconciliazione dei due poli. Infatti, mentre nelle narrazioni normali o semplicemente estetiche, il significato (il maschile) è separato e si impone sulla forma (il femminile), nella narrazione opera d’arte significato e forma coincidono, in quanto è la stessa forma a farsi significato, nella riuscita artistica dell’opera.
“Da un punto di vista psicologico e antropologico noi apparteniamo, come Occidente, a una cultura estremamente patriarcale. Peculiarità di questo estremismo è il razionalismo onnivoro che caratterizza la cultura occidentale da Socrate in poi, nell’invenzione della metafisica e quindi poi della scienza moderna. Questa cultura patriarcale si riconosce in una sua ideologia che afferma: “In principio era il Verbo”. Cioè l’”origine” non è nella Grande Madre/Natura/Gea, come nella cultura matriarcale, me nel Dio Padre delle religioni monoteistiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islam), nell’Idea di Platone, nella Ragione divina di Cartesio, nello Spirito di Hegel, ecc. Dalla concezione escatologica giudaico/cristiana deriva l’Umanesimo europeo, dove l’uomo stesso, eminentemente il maschile, si pone al centro di una piazza ideale alla Piero della Francesca per progettare il proprio futuro, inventando così la Modernità e l’Idea di progresso. Ma queste due realtà sono messe decisamente in discussione oggi dalla Postmodernità”.

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L’amico è Renato Calligaro, ideatore e responsabile di TempoFermo, che appunto si occupa di problemi di estetica. Cosa posso rispondere? Che fino ad ora, se non con poche eccezioni, le donne tacevano: maschili erano i gruppi in qualche modo depositari delle estetiche, e la ripartizione tra significato e forma è stata fatta in una prospettiva non neutra. Le estetiche, e mi riferisco all’epoca moderna, sono state portate a un punto di non ritorno per il bisogno continuo di rinnovare il linguaggio dell’arte, proprio come voleva la logica dell’industria, che sullo scarto differenziale e sull’obsolescenza continua delle proprie tecnologie doveva contare per conquistare mercati sempre nuovi. Colpito da ciò è stato Baudelaire, che per primo ha constatato come l’arte non fosse più emanazione, seppur spesso autocritica, della cultura del ceto dominante, ma che, anzi, si poneva contro: da allora il poeta molto spesso non ha più saputo trovare alcun senso positivo o progettuale al suo fare. L’ultima variante italica di questa “crisi dl ruolo” è stata la neoavanguardia degli anni Sessanta, che esibiva infatti la necessità di una sperimentazione continua, il rifiuto di un’arte compromesa con le leggi del mercato, e dunque la sfida incessante alla comprensione di un testo scritto per pochi esperti. Contrariamente alle estetiche classiche, tendenzialmente volte a privilegiare un’idea di armonia, quelle moderne hanno privilegiato la disarmonia, naturalmente intesa in senso gaddiano (Gadda è stato considerato uno dei padri dal Gruppo ’63): ma la “disarmonia prestabilita” non permette di mettere ordine in un universo in cui si è smarrito il senso. Ciò ha potenziato l’oscurità del linguaggio poetico, provocando lo stesso risultato del volo di Icaro, le cui ali si sono sciolte per essersi avvicinato troppo al sole, al logos: è precipitato nel mare dell’indifferenziato, dove l’arte fluttua cullata dalle leggi del mercato, che crea e distrugge, senza motivazioni apparentemente fondate, le sue creature. In questo senso esso funziona simbolicamente come la Gran Madre, che dà la vita ma che la può anche togliere.

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Pare che tra le due principali ipotesi cosmogoniche del mondo classico, ora funzioni, in termini estetici, piuttosto quella femminile. Non più dal “maschile” caos esiodeo l’arte trova la forma (il logos che distingue e mette ordine), ma dal buio della Madre, l’abisso, l’ignoto, gorgo che può creare vita e distruggerla, senza doverne dare ragione. L’altro da sé, lo strappo che tanto dolore provoca nell’inconscio femminile qui è esorcizzato, ed è comunque percepito fuori da griglie interpretative logico-razionali. Il mercato non premia secondo categorie di un ipotetico “valore”, o riconoscimenti di professionalità, o valori morali, ma in base a passioni suscitate facendo leva sull’emotività del lettore-acquirente che vuole soddisfare a modo suo i suoi bisogni estetici, al giorno d’oggi, francamente, senza un sicura guida critica. Direbbe il mio interlocutore che l’arte da strumento della razionalità maschile in progress si è trasformata nel femminile materno, principio della soddisfazione dei bisogni.
E proseguirebbe affermando che all’individualizzazione, allo stile poetico riconoscibile, che appartiene alla cultura patriarcale, e che è un fortissimo fattore di identità (orgogliosamente un altro da sé) nella differenza e nella distanza, sta succedendo la tendenza alla dissoluzione delle identità, alla contaminazione dei linguaggi, alla indeterminazione e ambivalenza dei generi sessuali, all’indifferenziato “essere dentro le cose” (musica, l’arte performance, situazioni emotive, ecc). Io d’altro canto osservo che se guardiamo alla produzione contemporanea, ai best-seller giovanili, anche maschili, assolutamente non guidati da ipotesi interpretative del mondo, notiamo che neppure la critica letteraria è in grado di fornire un’etichetta che individui un progetto, come un tempo era accaduto con il neoclassico, il romanticismo, la scapigliatura, il futurismo, l’ermetismo, il neorealismo, lo sperimentalismo, la neoavanguardia, e così via.

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Nel postmoderno la storia è usata più come citazione, che come luogo in cui o contro cui predisporre la propria strategia, che nella modernità è, come si diceva, volta a sottolineare i momenti di ribellione agli statuti etico-gnoseologici di chi detiene il potere, ovvero del Padre. Il fenomeno recente dei “cannibali” mostra che narratori e narratrici sono attratti innanzitutto dalla corpo e dalla violenza che su esso si esercita, nonché da una forma narrativa che sembra in presa diretta, sembra cioè mimare il parlato, farsi reading. Certo tra Ammanniti e Vinci le differenze di “genere” sono evidenti, ma forse non è troppo azzardato dire che la cultura occidentale si sta femminilizzando, che la possibilità di un rientro nel cerchio uroborico della Grande Madre sta interessando più del miraggio conoscitivo predisposto dalle divinità uraniche del Logos. La direzione sembra essere proprio quella di entrare nel buio delle origini per cercare qualcosa che aiuti l’uomo a superare il momento di impasse che nessun pensiero, ora riconosciuto nella sua qualità precipua di “debole”, è riuscito a risolvere. La ribellione al potere delle madri forse verrà quando il logos ricomincerà a rielaborare un nuovo progetto egemonico; ma intanto ora deve passarsela con ben altra strumentazione di sopravvivenza, fornita dalle emozioni (termine da un po’ di tempo in qua usato in maniera ossessiva) e dalla ricerca di fusione in un’unità perfetta. La poesia dei giovani, oggi, sembra andare proprio alla scoperta di uno stato originario pre-edipico, comune a uomini e donne, ma particolarmente rimpianto da queste ultime: più che individuare obiettivi da colpire, infatti, registra ricordi, rintraccia radici, affida alla scrittura la speranza di ricomposizione e di pace, ovvero ricerca quella totalità perduta che il pensiero logico maschile sa di non poter più raggiungere e che continua però, anch’esso, a rimpiangere.

Si ringrazia per la gentile concessione Lietocolle Libri Editore.


Note


[1] Più importante del barthesiano Piacere del testo, per la donna che legge è la continuità tra due esperienze, di lettrice e, per l’appunto, di donna. È la tesi espressa nel capitolo Reading as a Woman, nel lavoro di J. Culler, On Deconstruction. Theory and Criticism after structuralism,Cornell UP, Ithaca, N.Y, 1982 (trad. it. Milano, Bompiani, 1988).

[2] Cfr. L. Melandri, L’enigma di Freud, in L. Kreyder, L. Melandri, M. Nadotti, R. Prezzo e P. Redaelli (a cura di), Lapis, Sezione aurea di una rivista, Roma, manifestolibri, 1998.


[3] Margherita Pieraci Harwell, Cristina Campo e i due mondi, in Cristina Campo, Lettere a Mita, Milano, Adelphi, 1999, p. 398.

[4] In Jeni Couzyn (a cura di), Contemporary Women Poets, Bloodaxe Books Ltd, Newcastle upon Tyne, 1985. Trad. it. di Anna Salvo.

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