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Cinema

Manuela Pecorari

E se le donne fossero…

Manuela Pecorari Rossetto. Le piccole cose di ogni giorno. È questo che ha dato alle donne comuni la forza di continuare a vivere anche durante i conflitti che hanno colpito il loro paese, ucciso i loro cari e distrutto le loro case.
Perché le donne non fanno la guerra?, di Manuela Pecorari e Nicola Nannavecchia, in concorso al festival triestino, è nato dalla curiosità di sapere se le donne, che della guerra sono vittime, possono essere in qualche modo migliori degli uomini, al governo e per mantenere la pace.
Il documentario è una sorta di puzzle di ricordi, di immagini e interviste a donne che hanno vissuto il conflitto di ex-Jugoslavia (1991-1999). Si tratta di donne che hanno dovuto fare delle scelte, spesso anche difficili. Di donne che hanno cercato un po’ di decenza in una situazione che poteva dare solo morte e distruzione. E di donne che hanno affrontato la guerra a modo loro: combattendo come gli uomini, facendo il medico, o essendo madre e moglie e ripartendo dalle piccole cose.

Sara Visentin (SV): Quale è stata l’idea di base da cui è partito il vostro documentario? Come mai avete deciso di affrontare proprio questa tematica? Che cosa vi aspettavate?

Manuela Pecorari (MP): Le guerre sono un campo maschile di solito. Quando c’è una guerra vedi intervistare generali, capi di stato, solitamente sono tutti uomini. Allora, se sei una donna, ti chiedi “Che ruolo hanno le donne?”, “Se il mondo fosse governato dalle donne ci sarebbero lo stesso le guerre?”, “Sono migliori?”, “Potrebbero fare qualcosa di diverso?”.  Quindi la cosa è partita in qualche modo da un preconcetto, dall’idea — almeno in me — che forse le donne potevano anche essere migliori. Infatti poi l’idea è stata sconfessata da molte delle interviste che abbiamo fatto.

SV: Avevate delle aspettative particolari nel momento in cui avete iniziato il lavoro? Vi aspettavate di trovare qualcosa? L’avete poi trovato o non l’avete trovato affatto? Oppure siete partiti con la voglia di vedere cosa poteva succedere?

Nicola Nannavecchia (NN): Sicuramente all’inizio siamo partiti esplorando e cercando di verificare la tesi. Poi abbiamo avuto delle conferme e anche dei supporti differenti. Abbiamo trovato la donna che ha deciso di arruolarsi e di andar lì a combattere, armi in pugno. In qualche modo è diventata un po’ una testimonianza di un vivere come soggetto attivo quell’esperienza, che invece nel nostro presupposto di partenza vedeva le donne più come vittime sempre delle guerre.

MP: Volevo aggiungere una cosa. In effetti il documentario si è formato facendolo. Secondo me è stata la cosa bella ed è una delle ragioni per cui credo che, alla fine, funzioni. Abbiamo incontrato delle persone incredibili, alcune per caso. Una delle persone è una taxista, ci ha dato semplicemente un passaggio. Siccome era molto vitale, aveva una bella faccia, abbiamo deciso di provare a intervistarla ed era fantastica. Altre persone ci sono state indicate. Siamo stati molto aiutati da organizzazioni che esistevano sul territorio e in buona parte queste erano organizzazioni femminili. La cosa che mi ha colpito di più, di tutto questo percorso che abbiamo fatto, è stato vedere come effettivamente le donne si siano tutte organizzate per far continuare un’esistenza decente in una situazione invece assurda e indecente.

SV: Avete trovato grosse difficoltà a ottenere i finanziamenti?

Nicola NannavecchiaNN: Il percorso è stato più che altro abbastanza lungo. Nel senso che abbiamo raccolto i finanziamenti nel corso di un anno. Per cui ad un nuovo finanziamento organizzavamo un nuovo viaggio, andavamo sul posto e realizzavamo delle nuove interviste e portavamo avanti la produzione. Poi, con gli ultimi finanziamenti, abbiamo messo in piedi anche la post-produzione. È stato lungo, però, tutto sommato, è stato in realtà più facile di quello che avremmo potuto immaginare all’inizio, nel senso che i soldi li abbiamo trovati. Si trattava di cifre irrisorie ripeto.

SV: Finanziamenti a parte, qual é stata la difficoltà maggiore che avete trovato nel fare il documentario?

NN: Quella di selezionare il materiale alla fine. Perché avevamo una quantità di materiale buono veramente molto alta, notevole. Per cui abbiamo dovuto tagliare tantissimo anche dei racconti splendidi che ci facevano queste persone, che erano tutte quante bellissime. La difficoltà maggiore è stata riuscire a raggiungere una selezione accettabile in termini di durata.

SV: In che periodo avete realizzato il tutto? Cioè, dall’idea di base al prodotto finito, quanto ci avete messo?

MP: Più o meno ci sono voluti tre anni. Tre anni e qualcosa. Anche perché tutti e due abbiamo intrapreso questa attività proprio come passione laterale al modo in cui ci manteniamo. Quindi abbiamo dovuto usare molti periodi vuoti, vacanze, ritagliarci gli spazietti. Oltre a quello, come diceva prima Nicola, abbiamo dovuto aspettare che arrivassero i finanziamenti, per cui potevamo andare avanti soltanto quando ci arrivava qualche soldino in più.

Rispetto a quello che chiedevi prima, riguardo alle difficoltà, sono d’accordo anch’io che la difficoltà più grande è stata selezionare. Anche rispetto al tipo di documentario che abbiamo deciso di fare. Non era un documentario che aveva una tesi forte all’inizio. In qualche maniera, il titolo stesso, che può essere considerato la tesi, non voleva essere confermata, ma in qualche maniera sconfessata o spiegata. Quindi eravamo alla ricerca di qualcosa che ci è stato raccontato lungamente da diverse persone. È stato quindi molto difficile alla fine, visto che non avevamo una nostra teoria, andare a tirare fuori il percorso in mezzo a quello che ci hanno raccontato.

SV: Le donne che avete incontrato, le donne che avete intervistato, quelle che vi hanno regalato un pezzo della loro vita, come hanno preso la vostra idea di lavoro? Erano entusiaste…

MP: Molte erano contentissime. Erano contente perché noi avevamo uno schema di domande sempre uguali per tutte le donne. Le domande erano spesso anche abbastanza, così… Tipo: “Com’era il sesso in periodo di guerra?”. Nessuno aveva mai domandato loro niente del genere, per cui erano anche abbastanza contente. Una sola, Dunja, la cantante d’opera, una ragazza molto bella, coi capelli corti e gli occhi lunghi, ha detto: “Perché volete fare un documentario sulle donne? Tutti intervistano le donne, le donne, le donne. Mio fratello è andato al fronte, è stato in guerra e sono anni che non parla più e nessuno va a intervistare queste persone, come mio fratello. Pensateci, forse state sbagliando!”.

SV: Come domanda conclusiva: cos’è che vi è rimasto di più di questo lavoro, di questo documentario? Un’immagine, un’idea, una testimonianza.

NN: A me sicuramente l’aver condiviso, in qualche modo, per una percentuale piccolissima, quell’esperienza con quelle donne. Perché c’erano momenti, durante le interviste, emotivamente molto coinvolgenti e quella è sicuramente una cosa che ricorderò sempre. Come immagine il momento in cui eravamo a Dobrinja, che è questo quartiere sulla linea del fronte, di fronte all’aeroporto. Noi stavamo girando e facendo delle riprese in questo quartiere e una signora ci ha guardato da dietro i vetri di casa sua, era al primo piano, al pian terreno, era una signora abbastanza anziana e ci ha tirato un mazzo di fiori rossi di plastica che ancora portiamo con noi nella nostra macchina.

Immagine articolo Fucine Mute

SV: Tu vuoi aggiungere qualcos’altro, magari hai un’immagine che ti è rimasta impressa, oppure è la stessa?

MP: No, a me la cosa che ha colpito di più, in realtà, è stata Vukovar, e una cosa che ci ha detto una ragazza che abbiamo intervistato e che aveva un figlio di un anno. È una psicologa. Ha detto: “Io voglio crescere mio figlio a Vukovar, lo voglio fare perché non voglio far vincere chi pensa che in un posto di confine ci debbano essere asili per bambini di una lingua e asili per bambini di un’altra lingua. Io voglio che mio figlio cresca qua, perché deve crescere come dico io, in questo posto così contraddittorio e così contrastante”. E la forza di una persona così mi tiene su abbastanza.

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