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Cinema

Pupi Avati

L’arcano jazzista incantatore

Immagine articolo Fucine MuteQuando si pensa ai film in cui Pupi Avati ha ritratto figure di musicisti o aspiranti tali, si comincia a stilare un elenco che appare sorprendentemente lungo. Nel 1978, negli stessi giorni in cui il caso Moro domina l’attenzione pubblica, Rai1 trasmette in prima serata un serial intitolato Jazz Band, poetica avventura in quattro puntate ambientata nel 1950 che descrive nostalgicamente i sogni di un sestetto di giovani musicisti bolognesi impegnati nello scontro con una band rivale durante un festival jazz. La regia, ovviamente, è di Avati, supportato nella sceneggiatura da Gianni Cavina, dal fratello Antonio e dall’amico Maurizio Costanzo. Agli strumenti c’è la Doctor Dixie Jazz Band che verrà scritturata dal regista anche per Dancing Paradise (film per la tv andato in onda nel 1982) e per il documentario Accadde a Bologna (1983). Doctor Dixie Jazz Band: un nome che nasconde una storia. Pupi Avati, infatti, ne fu membro all’epoca in cui questo famoso gruppo amatoriale, fondato nel 1952 da Leonardo (Nardo) Giardina, si chiamava ancora Rheno Dixieland Band. Il complesso partecipò a diversi concorsi e vinse, nel 1960 il 1° Festival Europeo del jazz organizzato a Bologna. Pupi, però, era il meno bravo dei due clarinettisti da cui era composta la band, l’altro si chiamava Lucio Dalla. Accadde, così, che dopo dodici anni di intensi concerti in giro per il mondo, nel 1964 Avati decise che quello di clarinettista non sarebbe stato il suo mestiere. Alla musica, comunque, non ha mai rinunciato. Ricordando Jazz Band il regista racconta come il film tracci una linea tra il cinema precedente e quello che sarebbe arrivato dopo. Lo svelarsi di una parte autobiografica che prima era rimasta nel territorio della prudenza lo avrebbe portato, infatti, a diventare sempre più spesso il soggetto dei suoi film futuri. L’interesse per quest’arte riemerge in Noi tre (1984), triste storia di un genio (Mozart) che, a causa della diversità determinata dalla sua bravura, non può vivere un’esistenza normale. L’omaggio raggiunge il suo apice con Bix, un’ipotesi leggendaria (1991). Si tratta della biografia del trombettista Leon Bix Beiderbecke, brillante jazzista bianco stroncato giovanissimo dall’alcol. A quattordici anni di distanza Avati torna alla sua antica passione con Ma quando arrivano le ragazze?, film che racconta, con quei toni dimessi e quasi pascoliani che caratterizzano il suo cinema, proprio il disincanto e la sofferta rinuncia dinnanzi ad un’aspirazione che non è coronata dalla presenza del talento.

Domanda (D): Per quale motivo ha deciso di ambientare il suo film nel presente anziché in un’epoca passata, come accadeva per i lungometraggi precedenti?

Pupi Avati (PA): Io racconto un’esperienza diretta, personale, anche questo film è infatti autobiografico. Pur sviluppandosi nel presente, il racconto parla degli anni sessanta, guarda molto indietro. Penso che però non ci sia differenza alcuna tra i giovani degli anni ’50, degli anni ’70, quelli di oggi o quelli che ci saranno nel 2020. Le ragioni per le quali si soffre o si gioisce, sono sempre le stesse. Che uno lo faccia indossando un eskimo o ascoltando una musica che è ora cambiata è assolutamente secondario. L’importante è che, nell’essenza, l’uomo non è mutato. È sufficiente leggere i classici greci di tremila anni fa per rendersi conto che la ragione del rammarico o della felicità è sempre la stessa. Anche loro piangevano e si disperavano per l’amore o per la morte e gioivano per le vittorie. Quindi, avendo tre figli, possiedo una sorta di osservatorio permanente sulla realtà che mi circonda, anche su quella che vive chi non ha la mia età. Ho girato un film assolutamente perfetto. Gli interpreti che sono tutti al di sotto della trentina, Vittoria Puccini ad esempio ha ventitre anni, condividono perfettamente quello che ho fatto dire ai loro personaggi.

Michela Cristofoli (MC): Ventisei anni fa lei ha realizzato un film tv intitolato Jazz Band a cui ha fatto seguito, alcuni anni dopo, Noi tre. Entrambi sono accomunati dall’attenzione per il tema del talento e della passione, che comunque tornano in molti dei suoi lungometraggi. Come mai quest’interesse e, soprattutto, la scelta del punto di vista che è sempre quello del soccombente?

PA: Sono temi che compaiono molto spesso, in particolare negli ultimi anni, perché prima non avevo percepito la differenza esistente tra questi due termini. Se l’avessi sentita sicuramente non avrei sprecato dodici anni della mia vita cercando di diventare musicista quando era evidente che non avevo la vocazione per esserlo. Non c’era un Pupi Avati di sessant’anni che mi domandava cosa stessi combinando e che mi dicesse che per realizzarmi avrei dovuto possedere anche il talento e non solo la volontà. Siamo circondati ancora oggi da moltissime persone che credono sia sufficiente la passione, che si innamorano di un ruolo e credono che basti desiderare di farcela per riuscire. Invece ci vuole la vocazione, che è una cosa diversa. Nel mio film racconto la reazione di un personaggio che scopre di non avere talento proprio nel momento in cui al suo amico si manifesta la vocazione. A questo punto subentrano i contrasti che compromettono l’amicizia e gli affetti. Descrivo anche il tradimento che rappresenta quasi un passaggio obbligato di certi legami. Tutte le volte che in una relazione tra due maschi entra una ragazza succede sempre qualcosa.

Pupi Avati con la Doctor Dixie Jazz Band ad Umbria Jazz

MC: La voce fuori campo è un espediente narrativo che lei ha spesso utilizzato nei suoi film, penso a Gita scolastica e allo stesso Noi tre. Come mai ha scelto di introdurla anche in questo caso e ci racconta subito che i due protagonisti si sono sposati?

PA: Ma perché questo non è un film giallo dove si deve scoprire solo alla fine chi è l’assassino, chi vive e chi muore. Mi sembrava che il fatto di esordire dall’inizio con Nick sul palco che esegue il Concerto in Mi bemolle maggiore per tromba e orchestra di Nepomuk Hummel, uno dei brani di musica sinfonica più difficili al mondo, ci metta già davanti alla consapevolezza del successo che ha avuto. Il film è, però, descritto dal “soccombente” e non dal “vincente”. Come in tutte le cose chi è sconfitto, chi perde, ha molte più informazioni sull’evento di chi vince. Basta pensare, ad esempio, alla stessa vicenda narrata da Nick: sarebbe stata banale perché lui avrebbe capito solo il venti per cento degli avvenimenti successi. Gianca, quello che non ce l’ha fatta, possiede tutti i dati, perché la storia è transitata attraverso la sua sofferenza. Inoltre ce la racconta. La prospettiva di chi non riesce ad avverare la sua ambizione è molto condivisa, rappresenta il punto di vista del mondo. Sono pochissimi coloro che salgono sul palco. La maggior parte delle persone sta a guardare e simboleggia i numeri dell’auditel. Il recupero di uno di questi uomini qualunque, il farne l’eroe delle mie storie rivalutandolo nella ricchezza del suo intimo, della sua sofferenza, della sua legittimazione al sogno. È stato questo che ho voluto fare.

D: Il titolo Ma quando arrivano le ragazze è nato prima, dopo o durante il film?

PA: È nato trent’anni fa. Ho sempre pensato che avrei avuto la storia adatta al suo utilizzo. Mi piace da impazzire perché mi ricorda quelle battute che si fanno tra amici in una stagione fondamentale della vita. In seguito non ti fai più questa domanda, suonerebbe ridicola. Poi le ragazze arrivano e se ne vanno tutte tranne una, che in molti casi è la donna della tua vita.

Immagine articolo Fucine MuteMC: Johnny Dorelli interpreta il ruolo di un padre fallito e frustrato perché non è riuscito ad appagare il suo desiderio di diventare musicista e riversa le sue aspirazioni sul figlio. Lei, comunque, è riuscito a trattenere il peso che esercita, a far sì che non eccedesse, perché avrebbe potuto condizionare molto di più Gianca che alla fine, invece, decide da solo di rinunciare alla musica. Non pensa che la sua sia una figura di uomo difficile?

PA: È una figura paterna fantastica per la quale provo molta nostalgia. Io non ho avuto un padre, ho perso il mio in seguito ad un incidente quando avevo dodici anni. Avrei desiderato averne uno di questo genere: poco obiettivo, che vede nel figlio il migliore di tutti anche se non lo è. A me piacciono dei genitori così, contro i quali molto spesso è stato puntato il dito per bollarli come diseducativi. I ragazzi che sentono in loro un sospetto di creatività hanno bisogno di avere uno sponsor, di essere incoraggiati. Io ho avuto una madre di questo tipo. Mi diceva sempre che ero il più bello e il più intelligente di tutti. Non era vero però almeno c’era chi me lo diceva. L’obiettività, l’oggettività non sono amore, non servono a niente. Addirittura, quando alle proiezioni private dove faccio vedere in anteprima i miei film qualcuno mi chiede se voglio che mi dica la verità, se capisco che potrebbe essere negativa, rispondo di no. Non voglio la verità, voglio i complimenti. Vivo di menzogne, la mia forza sta nel fatto di credere che sono Pupi Avati!

D: È casuale il riferimento al jazz in un momento in cui anche generazioni più lontane dal periodo di massimo fulgore di questo genere lo stanno riscoprendo?

PA: Per quello che riguarda il jazz, ciò che sta avvenendo nell’Italia di oggi è meraviglioso. Non soltanto per le opportunità che ha chi come me compra questo tipo di musica e va ai concerti, ma soprattutto per il livello raggiunto dai jazzisti italiani. Contrariamente a noi, che quando lo facevamo eravamo negati, sono diventati importantissimi, sono secondi solo agli americani. Musicisti come Danilo Rea, Flavio Boltro che suona la tromba nel mio film, sono alcuni tra i centinaia di nomi che potrei citare e che il mondo ci invidia. Wynton Marsalis viene in Italia e va a fare i duetti di tromba con Flavio. La globalizzazione ha creato un sacco di problemi, ma un vantaggio l’ha portato: nel DNA degli italiani è arrivato lo swing.

D: Lei che si sente così tanto affine a Gianca, che rapporto ha con le persone di talento, come Nick?

PA: Nick è un piacione, ma con le ragazze secondo me non è un granché. Certamente ha talento musicale. Io volevo uccidere la persona con la quale mi sono ritrovato a vivere lo stesso tipo di rapporto che intercorre tra Gianca e Nick. Sono molto invidioso, quindi non potevo essere sereno.

MC: Come mai, invece, ha scelto come modello Clifford Brown?

PA: Perché è stato il più grande jazzista, secondo me anche superore a Miles Davis, di tutta l’epoca del bebop. Se è arrivato a suonare in quel modo a ventisei anni, nei soli quattro anni in cui è durata la sua carriera finita bruscamente con la morte, noi non sappiamo cosa sarebbe potuto diventare. Possiede il fascino di chi è scomparso in giovane età che, certo, contribuisce a renderlo mitico, ma è sufficiente ascoltare i suoi dischi per rendersi conto che aveva un talento puro. Devo specificare una cosa: tra talento e genialità c’è una differenza colossale, pari a quella che troviamo tra talento e passione. Mozart è un’altra cosa, non tutti quelli che hanno attitudine poi diventano Mozart oppure non so…

MC: Glen Gould!

PA: Brava, Glen Gould è il genio puro. Ecco perché parlavo di soccombente, volevo riferirmi esattamente alla condizione descritta da Thomas Bernhard nel romanzo omonimo.

D: Ma una persona come può capire se possiede o meno il talento? Lei ci ha messo dodici anni.

Immagine articolo Fucine MutePA: Si misura, si mette in gioco, corre dei rischi senza essere troppo indulgente con se stessa. Chi possiede un’abilità è capace di fare molto bene e senza fatica delle cose riuscendo a dire chi è. C’è il livello a cui si accede attraverso la caparbietà, la volontà e la passione che è quello della professionalità, della standardizzazione neutra, accessibile a quasi tutti con un po’ di studio e applicazione. Per bucare, per andare oltre bisogna aver talento e mettersi in gioco, è necessario che ciò che fai serva per parlare di sé.

MC: Ci vuole dire qualcosa del prossimo film?

PA: Il film si chiama Ma quando arrivano le ragazze, è al cinema… Stavo scherzando. Il prossimo film che sto per girare ha per protagonisti Antonio Albanese, Neri Marcorè e Katia Ricciarelli, che fa la madre di Marco. È un esperimento perché per la prima volta un grande soprano affronterà un ruolo semplice al cinema interpretando il personaggio di una mamma. È una commedia e non è autobiografia se non per il fatto che quando ero piccolo mia madre, che era rimasta vedova, mi portava con lei quando andava a conoscere gli uomini che le sue amiche le presentavano perché la vedevano sofferente e volevano che si ricostruisse una vita. Era un modo per sfuggire agli appuntamenti. Questo è un po’ lo spunto, però la storia sarà tutta di fantasia. La bellezza del racconto, che si chiama La seconda notte di nozze sta nel fatto che Antonio Albenese è l’essere umano più buono che si possa immaginare al mondo. In quasi tutti i miei film i protagonisti sono positivi, però in questo caso ho veramente voluto eccedere, sono andato oltre il ragionevole nel descrivere la sua bontà, la sua generosità, la sua capacità di comprendere tutto e tutti. È anche molto divertente, credo che si riderà. Tra l’altro sarà pubblicato come romanzo negli Oscar Mondatori in aprile.

D: Per quanto riguarda il rapporto con la produzione, lei assieme a suo fratello Antonio ha fondato la Duea. Come si relaziona al mercato cinematografico?

PA: Quando elaboro una sceneggiatura, la mia immaginazione sta dentro alla scatola del budget, quindi tutto ciò che penso si relaziona con il denaro, non può andare oltre i soldi stanziati per il film. Se realizzi un romanzo o un quadro non c’è lo stesso problema. Quando Tolstoj scriveva che in una battaglia combattevano quattromila ussari nessuno gli imponeva dei tagli. Se io dico che duecento cavalieri scendono da una collina, una lucina rossa si accende nella mia testa finché non riporto le proporzioni dentro il limite di spesa. Non posso pensare a delle scene che costano quattro milioni di euro per un film che ne può arrivare solo a tre. L’esserci, io e mio fratello che è il mio produttore, educati attraverso la televisione, già nel 1978 con Jazz Band, a praticare quel costo medio che non deve far fallire il produttore e il distributore che altrimenti non ti consentono più di realizzare dei film, ci ha permesso di avere anche delle flessioni mantenendo, però, uno standard di sopravvivenza che non ha mai danneggiato la qualità.

Si ringrazia per la cortese collaborazione Mario de Luyk e Andrea de Candido del Cinecity di Trieste.

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