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Cinema

Oliver Stone: l’ultimo ribelle

Immagine articolo Fucine Mute“Io credo molto in me stesso e nel mio ruolo: non mi piacciono i falsi modesti. Per me il regista resta la vera, unica superstar dello show: colui che ha la visione e che sa sempre perfettamente come realizzarla.” Con queste parole Oliver Stone oggi propone la sua immagine all’interno di un panorama cinematografico sempre più caotico, in precario equilibrio tra produzione, profitto e qualità. In un sistema come quello hollywoodiano, dove comandano soprattutto i soldi, e i dipartimenti marketing e promozione ottengono sempre maggiore potere e libertà gestionale, il regista appare come una chimera, un self made man, uno degli ultimi a provare a sconfiggere il sistema utilizzando la sua arma migliore: i film. Per le tematiche trattate, infatti, pare strano che ancora oggi Stone sia considerato uno dei massimi registi in circolazione. A differenza di molti suoi colleghi, che per mantenere una propria linea personale hanno aperto case di produzione indipendenti (solo per citare registi della sua generazione: Lucas, Spielberg, Coppola e Cameron), Stone si è sempre appoggiato alle Major, ottenendo però massima libertà d’espressione. Il riscontro del pubblico ha certamente aiutato il regista ad avere i finanziamenti richiesti, e pur trattando tematiche spesso complesse le limitazioni portate dalle case di produzioni sono state minime. Più delle censure, al regista, sono stati imposti tagli, per portare le pellicole realizzate a non superare una durata eccessiva. Il conservatorismo in cui si è chiusa Hollywood negli ultimi vent’anni, riducendo gli sbocchi alla creatività e alla libera immaginazione, ha trovato quindi in Stone uno dei pochi oppositori. La presenza di un personaggio come lui, al di là del valore dei singoli film, rappresenta da sola una garanzia di amore per il rischio e di anticonformismo per il cinema americano d’oggi. Lo stesso regista, vedendo nella chiusura mentale delle case di produzione la medesima ristrettezza di vedute del governo e dei suoi vari enti, ha affermato: “Sono sconcertato dalla vita, orrificato dalla lettura dei quotidiani. La sola risposta sana è il divertimento, il dramma… un’ordinata serie di eventi che sollecitano pietà e terrore, per parafrasare Aristotele. Fare film è il mio modo di esorcizzare i demoni, di creare un’etica, una filosofia della vita. Impazzirei senza fantasia”.

Stone, dopo alcuni anni trascorsi a realizzare documentari politici per case di produzione indipendenti (Persona non grata, 2001 e Comandante, 2002), è tornato quest’anno alla ribalta delle cronache presentando al pubblico una delle pellicole più controverse della nuova stagione cinematografica, Alexander, l’atteso biopic sul condottiero macedone Alessandro Magno.

Il progetto sul leggendario giovane conquistatore, portato a termine in poco più di un anno dall’autore di JFK (1991), era stato inseguito in passato da tanti registi tra i quali Scorsese e Ridley Scott. La concorrenza più agguerrita però Stone l’ha trovata nello squadrone De Laurentis-Luhrmann-Di Caprio. Messo alle corde dall’ex amico produttore (Stone ha lavorato come sceneggiatore per De Lauretis in Conan il barbaro, 1982) il regista ha affrettato i tempi, giungendo prima alla fase produttiva del film, costringendo così all’abbandono il progetto rivale. Questa frenesia ha portato però a gravi pecche nella realizzazione della pellicola, risultata piatta e poco avvincente nella sua narrazione molto complessa. Le scenografie (Alessandria d’Egitto e gli accampamenti militari in particolare) sono state completate frettolosamente, ritoccate tardamente nella postproduzione, e la sceneggiatura passate per troppe mani (o per troppo poche) ha impedito la costruzione di un’opera personale e allo stesso tempo commerciale, come la Warner Bros pretendeva.

La storia ripercorre tutti i momenti fondamentali della vita di Alessandro, interpretato da un Colin Farrell, lodevole per l’impegno, ma fuori parte sin dal finto capello biondo. Stone ci illustra in modo coerente ma prolisso i momenti principali della vita del condottiero, partendo dall’infanzia vissuta in conflitto tra l’amore a tratti incestuoso per la mamma Olimpiade e l’odio per il padre Filippo. Anche questi due personaggi, fondamentali nel disegno dell’opera, sono stati interpretati da attori inadatti al ruolo. Se la Jolie, nelle misteriose vesti di Olimpiade, trova ancora una sua dimensione tra i serpenti che la circondano, Val Kilmer nei panni di Filippo risulta quasi comico. La sua interpretazione rimanda troppo al Jim Morrison alcolizzato impersonato per lo stesso Stone in The Doors (1990).

Immagine articolo Fucine Mute

La storia prosegue con la narrazione delle imprese belliche di Alessandro, passando dalla conquista della Persia, raccontata attraverso la monumentale battaglia di Guagamela, fino alla campagna militare in Asia, durante la quale il condottiero spingerà il suo esercito fino all’India, prima di cedere alla spossatezza e tornare a Babilonia, dove a soli 34 anni morirà avvelenato.

Chi si aspettava di vedere un blockbuster epico sulla stessa linea de Il gladiatore (2000) sarà probabilmente rimasto perplesso, trovandosi di fronte più che un nuovo Massimo Decimo Meridio un ragazzo perso tra i suoi dubbi adolescenziali sull’amore e su un destino glorioso. Un eroe condottiero che piange più che combattere, e quando combatte lo fa contro Raz Degan (Dario il grande), che per grazia divina non parla in stile Jegermaister e viene precauzionalmente doppiato. Inoltre risultano quasi ingiudicabili il ritorno di Jim Morrison/Val Kilmer con annessa corona di edera rampicante sulla testa e panza di fuori gonfia di vino, e il Tolomeo di Anthony Hopkins, arteriosclerotico e perso in astruse teorie filosofiche. È chiaro che agli amanti di un cinema “senza pretese” sarà rimasto in testa solo il nudo di Rossana o meglio Rosario Dawson, unico reale plot point per spettatori non abituati a pasteggiare con mitologia greca e storia classica. Altro pubblico sono certo avrà gradito il rispetto portato dal regista verso la storia, mai modificata per necessità di copione, anzi se possibile approfondita. La narrazione delle battaglie, dei conflitti interni tra i luogotenenti e del sincero amore omosessuale per Efestione sono resi in maniera molto convincente. Stone presenta anche, per arricchire la storia, numerosi riferimenti ai miti greci di Edipo, Dioniso ed Eracle, e focalizza l’attenzione su simbologie animali (il serpente, il cavallo e il falco), dimostrando come la poliedricità sia ancora una delle caratteristiche principali del suo cinema.

Alexander con i suoi eccessi resterà in ogni caso una pellicola che in futuro farà riflettere, incastrandosi perfettamente nel mosaico filmografico di Stone, caratterizzato esclusivamente da opere estreme e personali. Il suo approccio alla settima arte è stato sempre molto diretto e violento, e questa irruenza è stata proposta al pubblico sia attraverso le tematiche trattate sia con la tecnica, sempre molto complessa e ricercata in tutta la sua carriera.

Il cinema di Stone, sin dagli esordi horror con Seizure (1974) e La mano (1981), è stato molto legato ad una concezione di autorialità acquisita respirando l’aria di rinnovamento della Hollywood post-modernista. I sentimenti che hanno portato il regista ad esprimere la propria creatività vanno però cercata anche nella sua infanzia e nella sua adolescenza. È stato molto importante per la sua maturazione il rapporto con la famiglia. Nato da madre francese cattolica e da padre ebreo americano, Stone non ha praticato nessuna delle due fedi religiose, ma è piuttosto cresciuto come un protestante. Questo suo background familiare ha nutrito il suo universalismo e la disponibilità ad interpretare in modo diverso il mondo e la vita. Su di lui hanno inoltre avuto un forte impatto le idee politiche di destra del padre, agente di cambio per quarant’anni, tenace sostenitore della guerra fredda legato ad un ideale di vita molto conservatore. Le regole disciplinari casalinghe imposte al giovane figlio e i numerosi racconti legati al proprio lavoro hanno cercato di far comprendere ad Oliver quanto potesse essere dura e difficile la vita.

Dopo un primo periodo in cui Stone si è conformato agli ideali del padre, due esperienze hanno cambiato profondamente la sua visione del mondo. A sedici anni il primo evento scatenante è stato il divorzio tra i suoi genitori, che ha portato le illusioni di stabilità ad essere così improvvisamente spazzate via. Inoltre gli intrighi di potere e le contraddizioni che hanno caratterizzato negli anni ’60 lo stato americano, soprattutto nell’ambito della politica estera, hanno fatto cadere Stone in uno stato di irrequietezza e di fuga dalla sua educazione conservatrice.

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Ha sicuramente avuto una influenza determinante nella crescita del regista anche il Vietnam. Partito diciottenne per il sud-est asiatico in seguito alle delusioni familiari e alla morte di Kennedy, Stone ha insegnato inglese per un anno in un istituto del Vietnam del sud. Tornato in patria il regista non è però riuscito a ritrovare un equilibrio e per ricercare se stesso ha deciso di ritornare in Indocina, convinto ancora di dover servire il proprio paese e allo stesso tempo per mostrare la propria forza e volontà al padre. Stone ha militato nella venticinquesima compagnia di fanteria per quindici mesi, ma dalla guerra ha ottenuto solo delusioni ed ossessioni. Disgustato dalla corruzione dei soldati e dalla presa di consapevolezza che a combattere fossero solo ragazzi poveri ed ignoranti, il regista è rientrato in patria incolume ma consciamente ferito nell’animo; colpito in maniera devastante dalla visione della morte e del dolore che hanno caratterizzato lo scontro sanguinoso nella giungla vietnamita. Stone infatti, prima di riappacificarsi con i propri fantasmi, è dovuto passare attraverso tre avventure cinematografiche, la primo di queste, la pellicola pluripremiata agli oscar Platoon (1986), risulta quasi essere un diario della sua esperienza in Vietnam.

Il primo approccio al cinema è arrivato negli anni ’60 attraverso la scrittura, che lo ha portato a realizzare un gran numero di sceneggiature ancor prima di aver intrapreso una scuola di cinema. Il Vietnam e le rivolte studentesche sono i soggetti principali di queste sue prime opere, legate tutte da un filo invisibile di rabbia e confusione. Gli scritti di Mailer, Hemingway, Conrad e Kipling lo hanno influenzato ed ispirato profondamente, anche per l’effetto comune che ha avuto la guerra su questi scrittori. Spinto dalla stessa foga nell’esprimersi, Stone nel 1969 si è iscritto alla New York University dove ha incontrato quello che è divenuto il suo maestro e mentore per tanti anni: Martin Scorsese. Scorsese è stato un punto di riferimento importante per i primi anni di carriera del regista, non solo per l’aiuto nel comprendere stili di cinema opposti per principi al classicismo americano, ma anche per l’incitamento ad incanalare la sua rabbia all’interno dell’obiettivo della macchina da presa. Insieme i due hanno lavorato su diversi cortometraggi e Stone ha ottenuto anche la possibilità di collaborare al documentario Strett Scenes, vendendo a contatto con personalità di spicco delle produzioni indipendenti newyorkesi come Robert Kramer,Jay Cocks e Harvey Keitel. Per indicare la similitudine tra le correnti di pensiero dei due registi si può fare riferimento a diverse opere di Scorsese che hanno trattato l’inquietudine generazionale e le tensioni all’interno di intriganti sottoculture urbane. Il Travis Bickle di Taxi Driver (1976) è quasi un alter ego di Stone, un tassista (anche il regista per mantenersi a New York svolse la stessa professione), reduce dal Vietnam, alienato dalla società. In After Hours (1985) lo stesso Scorsese porta la confusione e il senso di abbandono interiore nella vita del protagonista Paul, perso nella notte senza via di scampo.

Oltre a Scorsese altre influenze hanno aiutato la crescita e la formazione di Stone, il cinema epico (Lawrence D’Arabia, 1962 e Orizzonti di Gloria, 1957), e soprattutto la Nouvelle Vague. Il regista ha ritrovato negli scritti e nei film di Godard, Truffaut e Resnais il suo desiderio di rivolta, lo stesso che aveva pervaso i cineasti francesi alla fine degli anni cinquanta. Le influenze sono derivate non tanto dall’aspetto formale (Stone in tutti i suoi lungometraggi ricercherà la sperimentazione ma sempre mantenendo un rispetto di fondo per il classicismo), quanto nelle tematiche. Sono i protagonisti delle opere della Nouvelle Vague a colpire il regista; Michel Poiccard in Fino all’ultimo respiro (1960) simboleggia l’antieroe che ispirerà i protagonisti stoniani. Nella sua notevole filmografia il regista, alternando registri drammatici e politici, ha infatti preso a soggetto persone in parte comuni, rielaborandone le vite in termini mitici. Il tratto classico dei film stoniani è quello di un individuo in lotta per la propria identità e la propria anima, che per raggiungere la purificazione deve toccare il fondo. Chris Taylor in Platoon è l’esempio più lampante delle contraddizioni che deve affrontare l’antieroe: prima il dolore, l’esaltazione, la perdita, poi il coraggio e la salvazione. Anche Bud Fox in Wall Strett (1987), interpretato come il soldato Taylor da Charlie Sheen, seppur in un contesto completamente diverso deve affrontare, per sconfiggere i propri demoni, prove aspre ed enigmatiche, trovandosi solo di fronte al proprio destino. Su questo argomento lo stesso regista dice: “Considero i miei film soprattutto dei drammi su individui impegnati in lotte personali. Mi ritengo più un drammaturgo che un regista politico. Nei miei film un individuo lotta per la propria identità, onestà e anima, che gli è stata sottratta o ha perduto, e alla fine riesce a riprendersela”.

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Stone oggi è ritenuto soprattutto il regista della rilettura storica, avendo ripercorso in quasi tutti suoi film (a parte quest’ultimo viaggio nella Grecia antica) fatti, eventi e personaggi che hanno formato la cultura americana: dalle rockstar ai presidenti, dalla guerra del Vietnam a quella in Salvador. Il regista in questo modo ha potuto così esprimere l’inquietudine di una generazione intera, la sua, quella cresciuta negli anni ’60, prima illusa dai propositi kennediani, poi sconvolta dal dolore di Dallas e dall’assurdità della guerra. Stone inoltre in molte sue pellicole ha cercato anche di analizzare, decennio dopo decennio, l’evoluzione della società, trattando cliché tipici degli anni ’80 (lo stile di vita degli yuppies), e degli anni ’90 (la normalizzazione della violenza).

Lo scopo principale del suo cinema è stato quello di porsi come tramite tra le generazioni, per aiutare davvero a conoscere la storia e a comprendere il significato delle parole libertà, giustizia e tolleranza. Dall’epoca delle ribellioni studentesche e del nuovo pensiero, Stone ha estratto la volontà di creare un’istruzione alternativa da quella che si apprende preconfezionata e filtrata dalla scuola. Al regista, va però detto, non è mai interessato dire l’assoluta verità della storia, della politica e dei media, a lui è sempre solo interessato dire la sua, far luce e spiegare alla società tutto ciò che, secondo lui, c’è di sbagliato nella cultura americana.

Un altro tema che contraddistingue tutta la cinematografia del regista è legato al valore dei mass-media nella società contemporanea e all’influenza che questi hanno avuto sulla cultura americana. Avendo girato film che ripercorrono la storia dagli anni ’60 ad oggi, il regista ha avuto modo di reinterpretare il cambiamento di rapporto che l’universo mediatico ha avuto con il pubblico, evidenziando l’importanza che questo ha sempre più guadagnato con il perfezionamento tecnologico e con l’avvicinarsi della fine del millennio.

Nel suo percorso di analisi all’interno di quest’ambito, Oliver Stone ha avuto modo di valorizzare gli aspetti positivi del boom telematico, incominciato alla fine degli anni ’50 con l’ingresso in tutte le case della televisione, e allo stesso tempo di condannarne i difetti, che per il regista newyorkese sono stati e continuano ad essere evidenti e molto preponderanti. Il regista a questo proposito si riferisce all’influenza del continuo bombardamento di immagini suoni e luci al quale ci si trova davanti, che sta facendo, e in alcuni casi ha già compiuto, un autentico lavaggio del cervello nelle menti del pubblico. La televisione in particolare, ma anche la radio, internet e lo stesso cinema, hanno guadagnato uno spazio sempre maggiore nella vita delle persone, rubandolo soprattutto alla lettura. Stone però, utilizzando il mezzo cinematografico come fonte espressiva per decostruire mezzi di comunicazione, sembra contraddire se stesso sfruttando, a sua volta, un mezzo di comunicazione. In questo modo il regista dà già un giudizio sui mass-media, e in particolare sul media-cinema, che lui ritiene un mezzo puro di trasmissioni di immagini e informazioni. Il cinema per lui è certamente il modo più sano e naturale di comunicare, e quello che maggiormente si distacca dal legame oppressivo con la realtà, potendo permettersi divagazioni in un panorama artistico vario. Il cinema si pone a metà strada tra mezzo di comunicazione e arte, e risulta, alla fine, lo strumento più efficace per poter affrontare e giudicare situazioni mediatiche comparabilmente simili. Stone è consapevole di far parte di un meccanismo produttivo legato finanziariamente e politicamente ai mass-media, ma muovendosi all’interno di esso ne riesce a captare e cooptare le iniziative più negative.

Nixon, gli intrighi del potere (1995)

La scrittura è un altro campo che per certi aspetti si avvicina alla sua concezione di media-arte, ma pur lavorando a progetti letterari personali come il libro “A child’s night dream”, il regista non si è mai avvicinato all’universo espressivo del giornalismo, attraverso il quale invece, molti altri registi sono passati prima di intraprendere la via cinematografica (Schrader e Stillman per esempio). Stone ha infatti una visione molto negativa dell’informazione scritta. I quotidiani per lui non sono altro che un mezzo attraverso il quale il pubblico può relazionarsi in modo superficiale e “mediato” alla realtà. Il regista è sempre stato certo che la mancanza di neutralità nell’operato dei giornali nazionali li renda assolutamente insani alla ricezione informativa del pubblico. In Nixon, gli intrighi del potere (1995) per esempio è evidenziato il rapporto privilegiato tra carta stampata e potere governativo, e come lo Stato abbia usato questo mezzo per plasmare gli ideali degli elettori. I giornali, con il passare degli anni e la crescente perdita di lettori, si sono dovuti adattare alle richieste del pubblico, dando loro ciò che desideravano, pescando così all’interno di universi scabrosi e demoniaci come quelli dei serial killer. Charles Manson ha spesso sostituito i volti di leader politici o sociali sulle copertine di “Life” e “Time”, e in Assassini nati (1994), il più discusso tra i film del regista, vengono mostrate, attraverso collage visivi, le copertine delle riviste e le prime pagine delle maggiori testate nazionali, con sopra i volti dei due protagonisti Micky e Mallory Knox. A questa visione negativa dell’informazione scritta Stone contrappone nell’approccio visivo alla realtà, e in particolare nella fotografia, un ottimo mezzo interpretativo. Come il cinema, infatti, la fotografia ha un grande legame con l’arte, e solo una parte delle sue potenzialità viene sfruttata e catalogata come puramente informativa. Stone vede nel reportage di guerra l’esempio migliore di incontro tra arte e informazione, ed in Salvador (1986) il regista ha portato questo connubio ad un livello superiore, portandolo a diventare una delle tematiche principali del film. Gli aspetti negativi della fotografia, legati all’abuso di essa per la creazione di scoop puramente giornalistici, vengono invece ostracizzati dal regista in alcune sequenze di Ogni maledetta domenica (1999), dove i flash e gli obbiettivi delle macchine fotografiche sono puntati a celebrare l’immagine degli atleti e la loro fama, prima di essere proposte sui magazine nazionali.

Stone vede nella televisione il peggiore esempio di sconvolgimento dell’immagine artistica, infatti, nella sua cinquantennale storia la televisione ha cambiato molto il suo ruolo. L’importanza che ha ottenuto in modo crescente nella funzione di intrattenimento nel pubblico americano l’ha trasformata in una autentica fabbrica di soldi e modellatrice di individui. Molte generazioni, in particolare dagli anni ’80 in avanti, sono cresciute con la tv più che con altri mezzi informativi. Il suo successo ha portato migliaia di ragazzi a preferirla ad ogni altra forma di intrattenimento e di divertimento; ha sostituito le relazioni interpersonali, diventando il miglior amico dei bambini. Le parodie del cartone animato Simpson, per esempio, mostrano in maniera sarcastica questa realtà; il potere persuasivo dei cartoni animati violenti, e il susseguirsi di sitcom impensabili fanno della tv un mostro mediatico attraverso il quale le menti dei giovani vengono plasmate in maniera deviata. Stone porta avanti questa teoria in molte sue opere: dalla semplice influenza politica che la tv aveva in JFK e Nixon al valore attrattivo degli show comici in The Doors e dei real show in Assassini nati, fino alla manifesta rilevanza della televisione nei confronti delle esibizioni sportive in Ogni maledetta domenica.

Nell’analisi sulla società americana Stone ha focalizzato la sua attenzione anche su quelle figure capaci di influenzare il pensiero di intere generazioni, diventando leggende viventi e idoli da emulare. La tematica del “sogno americano”, fortemente promossa dal cinema classico di Ford e Capra, ha portato il regista a far rivivere sullo schermo alcune personalità divenute grandi attraverso la musica, la politica e lo spettacolo; simboli di un paese che vive e si nutre di icone. Per il regista la nascita dei miti avviene proprio per la necessità che gli americani hanno sempre avuto di crearsi degli “esempi da seguire”, come nella storia recente sono per lo sport Michael Jordan e Tiger Woods, e nella musica Michael Jackson e Eminem. La strada che ha portato al successo queste personalità è caratterizzata da forti similitudini, le loro vite sono state tutte legate ad un passato doloroso di povertà e soprusi, trascorse attraverso anni travagliati alla ricerca del successo, e alla fine culminate in trionfo.

Immagine articolo Fucine MutePer Stone l’elemento che aiuta maggiormente a costruire il mito è la morte: Kennedy ne è l’esempio più significativo, ma sono stati molti quelli che hanno trovare la consacrazione definitiva proprio dopo la morte; Hendrix, 2PAC e Kurt Cobain con il decesso avvenuto in modi e circostanze diverse sono diventati veri e propri martiri da idolatrare. Sull’assassinio dell’ex presidente democratico, Stone ha costruito una delle pellicole più importanti degli anni ’90: JKF. In questo modo ha contribuito alla glorificazione del mito del presidente crudelmente eliminato dal sistema, e ha portato l’opinione pubblica a creare enormi diatribe politiche, terminate nelle sale del congresso di Washington, dove a furor di popolo le famose e famigerate teorie delle commissione Warren sono state ufficialmente ridimensionate.

Oliver Stone ha visto nel “sogno americano” una materia di studio molto importante, e in diverse sue pellicole ha cercato di mostrare anche come i media stessi abbiano contribuito alla costruzione di miti. In Talk radio (1988), per esempio, il regista analizza l’influenza che una voce, in particolare quella del conduttore radiofonico Barry Champlain, può avere su un’intera città o su un’intera nazione; in Assassini nati, invece, sottolinea per tutta la pellicola come la società malata degli anni ‘90 trovi in killer spietati dei miti e delle icone da seguire. 

Stone, nonostante sia un regista contro il sistema mediatico, non è un regista contro le nuove tecnologie, anzi nel suo cinema ne ha spesso abusato, facendo sovente delle sue pellicole film sperimentali, in cui le possibilità fornite dall’immagine vengono proposte come potenziale futuribile per il miglioramento della comunicazione e per la nascita di un cinema diverso. Attratto dalla video arte e dal cinema surrealista, il regista nei suoi film ha prediletto una messa in scena molto complessa, elaborata e perfezionata in ogni particolare. JFK è passato alla storia per il montaggio frenetico e per la commistione di filmati d’epoca, documentari e immagini di finzione, mentre in Assassini nati la tecnica cinematografica è portata ad un livello superiore, in un collage visivo psichedelico unico nel genere. Questi esempi sintetizzano il cinema di Stone, un cinema così forte da essere a volte persino indigesto, la sua regia è strabordante, ricca di movimenti di macchina, carrellate, dolly e piani sequenza. Le immagini sono sempre ricche di particolari allegorici ed eccessi scenografici, e la fotografia, curata sempre in maniera maniacale, è di per sé straordinaria nella sua varietà di colori e sfumature. Stone si è avvalso di ogni mezzo tecnico nel realizzare le sue opere, mostrando sempre una padronanza nel muoversi all’interno dell’universo mediatico unica nel panorama americano.

Il regista in tutte le sue opere ha cercato di mantenere sempre fede ai due principi imparati studiando la tecnica dei grandi autori cinematografici: la sincerità e la tensione. Riguardo alla prima lo stesso Stone afferma di averla appresa analizzando Fellini, del quale dice di amare il modo con il quale raccontava le sue storie, aggiungendo che i suoi film preferiti sono “Quelli più sinceri, quelli fatti con la pancia. Non importa se siano formalmente ben fatti, l’importante è che vi si riconosca un taglio personale.” Il senso della tensione, acquisito osservando le opere di un altro grande del cinema come Hitchcock; è visto invece come elemento fondamentale della buona riuscita di un film. A questo proposito Stone ha detto “Il regista deve fare in modo che ogni volta lo spettatore si ponga la domanda: E adesso che succede?”. Queste due caratteristiche sono facilmente rintracciabili in tutte le sue opere. Però, mentre la sincerità appare in ogni fotogramma dei suoi film, e proprio attraverso questo sentimento ha realizzato lungometraggi come JFK, Nixon e Platoon, la lezione di Hitchcock il regista l’ha spesso dimenticata, andando spesso a cozzare contro i suoi intenti. La tensione è un sentimento legato alla finzione, difficile da creare specie se l’aspirazione è quella di mostrare le cose nel modo più chiaro e manifesto. In alcune opere il desiderio di mostrare la verità ha portato ad una lenta perdita dell’effetto di coinvolgimento. Nixon e The Doors, in particolare, sono stati criticati per l’eccessiva prolissità, che, a causa della forza delle immagini proposte da Stone, ha finito per rendere le opere pesanti. L’eccesso, probabilmente la caratteristica principale dei suoi film, in questi casi ha portato la tensione a perdersi e automaticamente anche l’interesse del pubblico a scemare. È facile trovare persone innamorate della festa newyorkese alla quale partecipa Jim sulle note di “Strange Days” in The Doors, mentre è più difficile che venga ricordata la festa del matrimonio di Ray Manzarek e la sequenza del ritrovamento del cadavere di Morrison nella vasca da parte di Pam. La forza delle immagine impresse in tutto il film rende lo spettatore, nella parte finale della pellicola, esausto e inevitabilmente meno attento. In altre opere invece, questo effetto Stone è riuscito ad evitarlo, in particolare in Platoon, dove il regista, grazie ad una grande diligenza nell’uso dell’attesa, ha portato lo spettatore nel finale ad avere il giusto grado di tensione, che esplode nella morte dei due grandi “padri” del protagonista, i due ufficiali Elias e Barnes.

Immagine articolo Fucine Mute

Stone, consapevole della sua forte propensione all’eccesso e degli errori commessi nelle pellicole firmate negli anni ‘90, ha cercato nel suo penultimo film Ogni Maledetta Domenica di bilanciare gli equilibri del finale. Conscio della mole di materiale con il quale ha lavorato, il regista ha lasciato scorrere durante i titoli di coda sequenze facenti sempre parte della sceneggiatura ma non indispensabili alla narrazione. Il pubblico ha così avuto la libertà di scegliere se guardare o no le informazioni aggiuntive inserite dal regista, senza che queste pregiudicassero la fruizione dell’opera. Il film finisce con Willie Beaman solo sul campo da gioco a mostrarci finalmente il suo aspetto umano: la comprensibile paura della vita e del futuro. In questo modo Stone ha modo di riflettere sull’inconsistenza del tempo e sulla mancanza di certezze che coinvolge ogni essere umano. Dopo questa sequenza vengono mostrati i titolo di coda accompagnati però visivamente dalla conferenza stampa di congedo di coach D’Amato dalla panchina di Miami. La sequenza, lunga più di cinque minuti, arricchisce la storia ma, nel caso non venisse vista, non impedisce al film di perdere senso.

Questo è il cinema di Stone, un cinema che non finisce neanche sui titoli di coda, che spesso ci segue quando torniamo a casa, facendoci ripensare alle immagini che si sono appena viste e alla storia che ci è stata appena raccontata. Stone divide il pubblico ma prima di tutto lo colpisce, e per un cineasta lasciare un segno nell’animo delle persone penso possa essere una soddisfazione sufficiente per poi affrontare controvoglia gli scontri ideologici ai quali spesso i politici e i critici lo costringono.

Oliver Stone, filmografia


Seizure, 1974
La mano, 1981
Salvador, 1986
Platoon, 1986
Wall strett, 1987
Talk radio,1988
Nato il quattro di luglio,1989
The Doors, 1990
JFK- Un caso ancora aperto, 1991
Tra cielo e terra, 1993
Assassini nati, 1994
Nixon – gli intrighi del potere, 1995
U-Turn, 1997
Ogni maledetta domenica, 1999
Persona non grata, 2001
Comandante, 2002
Alexander, 2004

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