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Cinema

Mauro Santini

Una valigia aperta prima di non andare via

Immagine articolo Fucine MuteMinuti sospesi nel tentativo di mettere a fuoco un volto confuso, storie di famiglia appese ai fili dei ricordi come panni stesi ad asciugare, immagini che scorrono rapide fuori dal finestrino di un treno che non arresta la sua corsa. Sovrapponendo definizione a in definizione, nei suoi poetici viaggi nei luoghi remoti della memoria Mauro Santini dilata tempo e spazio riempiendo la sua capiente valigia dei piccoli frammenti di passato che l’occhio prensile della videocamera riesce a conservare dall’oblio. In occasione dell’omaggio che la XVI Edizione del Trieste Film Festival gli ha dedicato ne’abbiamo parlato con lui.

Michela Cristofoli (MC): Guardando i tuoi video, una cosa molto interessante che si coglie, è data dal fatto che le immagini, un po’sfuocate e oniriche, sembrano derivare da poche figure, come se si generassero tutte da un unico fulcro producendo anche dei rimandi da un’opera all’altra. Accade davvero così?

Mauro Santini (MS): Sì, ma vorrei partire con una premessa per arrivare poi a rispondere alla tua domanda. Il mio modo di lavorare si compone di vari livelli. Prima di tutto c’è la raccolta d’informazioni su ciò che mi sta intorno. Questo è un primo stadio, diciamo documentaristico, che consiste nel riprendere la mia vita, quella delle persone care che mi sono vicine e di chi inconsapevolmente passa davanti all’obiettivo restandone catturato. È un po’ un modo di rubare la realtà e mi sembra costituisca la via migliore, soprattutto rapportandosi al video, per rappresentare qualcosa che spesso al cinema sfugge. Oggi, secondo me, sono pochi gli autori che riescono a riprodurre non solo una verosimiglianza, che io ritengo essere importante proprio quando è falsata da una lettura personale, ma un momento di verità. È questo che nel cinema non si riesce più a fare e mi sembra che proprio il video sia lo strumento adatto per riuscirci, spesso rubando la vita altrui. Momenti che magari durante le riprese possono sembrare inutili, o gesti che paiono superflui, in fase di montaggio, con una deformazione semplicemente temporale, ti fanno scoprire attimi di realtà che invece manca nella costruzione classica del cinema dove c’è una sceneggiatura già precostruita, degli attori e i periodi sono già scanditi. Pensando a ciò ho capito che dovevo eliminare l’attore inteso come persona che si pone davanti all’obiettivo sapendo che deve recitare qualcosa, per cui chi compare nei miei video è presente poiché in qualche modo è stato derubato di un momento della sua esistenza. Questo è il primo stadio. Poi segue il secondo livello che è costituito dall’approccio personale a quello che si muove intorno a me e rappresenta l’aspetto diaristico. Spesso le mie riprese nascono già sfuocate, deformate, sovraesposte. Rispecchiano lo stato d’animo in cui mi trovo in quel frangente. Da qui nasce la similitudine con la scrittura di un diario, in cui si possono trovare delle pagine compilate un giorno con una grafia scomposta, un giorno con un tratto ordinato, oppure abbellite da disegni o da piccoli appunti, come una nota personale che testimonia un modo di sentire le cose.

Immagine articolo Fucine Mute

MC: D’altra parte, tutti gli effetti di ralenti, le sovrimpressioni, vengono aggiunti in seguito. Quindi quanto è importante la fase del montaggio rispetto a quella delle riprese?

MS: Il montaggio rappresenta esattamente la terza fase del mio lavoro. Dopo un po’di tempo, e qui rispondo alla tua domanda di prima, trovo l’immagine forte che mi motiva a un video. Dal momento che i miei lavori non nascono dalla scrittura ma dai materiali che accumulo nel corso dei mesi, quando mi appare la figura dalla quale posso partire perché mi sembra racconti quello che voglio esprimere, inizio a lavorare al montaggio e vado a rivedere tutto ciò che ho girato. A questo punto comincia il lavoro di sovrapposizione e di accostamento che determina questa terza fase che corrisponde allo stadio del racconto, alla parte narrativa. Io continuo a sperare che i miei video non siamo visti come una successione di sequenze messe insieme, ma che mantengano una funzione narrativa, pur non essendoci dei testi o delle parole d’accompagnamento, come accadeva per alcuni dei miei lavori più vecchi.

MC: Rispetto a Dove sono stato, che forse è uno dei video a cui fai riferimento, in cui la voce off di Corso Salani dà, in effetti, un maggior andamento narrativo al progetto, il sonoro dei tuoi video si fissa su dei suoni ricorrenti molto strani, come ad esempio l’acqua che corre o questi rumori ipnotici che invece li rendono ancora più stranianti o astratti.

MS: Dove sono stato è sicuramente il video che si differenzia di più dagli altri, infatti al Trieste Film Festival è stato inserito in un programma a sé. È vero che esiste un testo che precede il montaggio, però in realtà le immagini sono antecedenti alle parole. Sono riprese che realizzai durante un viaggio in Portogallo che risale a cinque anni prima rispetto a quando poi è nato Quando sono stato. Quindi il percorso è di nuovo lo stesso. Avevo delle immagini già girate, nate semplicemente per documentare le città visitate, che sembrano le riprese di un turista qualunque, perché all’epoca avevo abbandonato qualunque velleità cinematografica. Ho deciso di estrarre le sequenze che mi sembravano più interessanti, e spesso si tratta di pochi secondi che poi al montaggio ho dilatato a minuti o comunque a durate molto superiori, ho costruito il testo e infine ho realizzato il video. Anche se prima del montaggio c’è una scrittura è evidente che il processo risulta comunque atipico rispetto a quello classico del cinema. L’altro video nel quale compare all’inizio un po’ di testo che serve ad introdurre lo spettatore in questo viaggio notturno che lo accompagna verso la casa della mia infanzia, si intitola . L’opera nasce, come dico nel racconto, da un disegno di mio figlio che a due anni dipinse una ferrovia dove non compariva il treno. Trovandomi un giorno su un vagone notturno vuoto ho immaginato questa situazione di falso movimento, per citare Wenders, nel quale le immagini corrono e io sono lì fermo a cercare di mettere insieme un ritorno a casa impossibile perché in realtà questa non esiste più e resta solo la facoltà di proiettare su di un muro le immagini del ricordo, di una memoria.

Di ritorno

A proposito di Quando sono stato volevo aggiungere un aneddoto legato all’uso della voce fuori campo. Inizialmente il testo era recitato da me, poi mi è capitato di vedere Occidente, che ho amato e ho sentito vicino. Ho chiesto allora a Corso Salani di dare la sua voce al mio video, così è nata una collaborazione molto intensa e stimolante, che spero abbia modo di riproporsi..

MC: Il fatto di utilizzare il digitale è una scelta dovuta al bisogno di essere così libero di catturare le immagini nella loro casualità?

MS: Sì, questo è fondamentale. Non che il VHS non lo consentisse, video di questo tipo si potevano realizzare con quel supporto anche dieci anni fa, a mio avviso. Però il digitale permette una qualità superiore. Significa poter essere proiettato in sala mantenendo un’ottima definizione pur avendo una videocamera valida ma molto piccola, perché ovviamente per fare questo tipo di attività hai bisogno di un mezzo che passi il più possibile inosservato. Come dicevo prima, si tratta di nascondersi e rubare la vita, rischiando qualche volta di essere un po’indiscreto, ad esempio quando si effettuano delle riprese al mare. In questo senso ricordo di aver visto un documentario stupendo su Herry Cartier Bresson. Con le dovute distanze, perché si parla di una persona eccezionale, mi riconosco un po’ nel suo modo di lavorare, nel suo carpire le immagini nascondendosi e cogliendo l’attimo. Tornando al discorso sull’audio, penso che in futuro ci sarà qualche cambiamento. Normalmente i rumori vengono aggiunti a montaggio già finito, quando inizio a elaborare una serie di suoni che costruiscono a loro volta un percorso, anche in questo caso, personale. Avendo sempre lavorato sulla memoria tento di evocare i ricordi sia a livello visivo che a livello acustico. Per Flor da Baixa dopo la proiezione a Locarno ho deciso di rifare completamente l’audio perché riascoltandolo mi ero accorto che era troppo evocativo, eccedeva rispetto alle immagini, che già adempivano a questo scopo. Così sono andato in sottrazione facendo ricorso ai suoni stessi di ripresa, quindi il mare, il vento, e altri rumori davvero minimi. Sono intervenuto solamente con un accenno musicale che ho preso dalle Variazioni Goldberg di Bach, ma è notevolmente dilatato, per cui non è riconoscibile, diventa quasi un pianoforte suonato in maniera incerta simile a quella di un bambino che studia le note. Credo che da qui in avanti sarà questo l’elemento sul quale lavorerò, in particolare per creare dei vuoti sonori che rafforzino ancora di più l’attenzione sull’immagine. Flor da Baixa forse diventerà il primo episodio di altri due che dovrebbero approfondire un progetto sulla lontananza, sugli affetti e i sentimenti che si conservano malgrado la distanza tra le persone nel tempo e nello spazio. Ho una sorta di ambizione, chiamiamola così, a lavorare su queste due coordinate. Rispetto a ciò che ho fatto negli anni sulla memoria vorrei abbandonare il lavoro di sovrapposizione, di un passato che s’interseca in una figura del presente, vorrei evocare l’idea di un tempo che è interno all’immagine. In Flor da Baixa si passa continuamente dal colore al bianco e nero, oppure ci sono muri di case che a poco a poco si deformano fino a sfaldarsi. Mi piace utilizzare il rumore dell’acqua, un elemento che mi affascina particolarmente associato al crepitio del fuoco. In Fermo del tempo in certi momenti non si capisce se si ascolta lo scroscio prodotto da un liquido oppure da un focolare acceso. L’idea di acqua che passa e ti lava via e le cose per fartele ritrovare nuove e diverse sollecita un aspetto sonoro che amo molto.

MC: Volevo soffermare l’attenzione sul ruolo che la luce ricopre nei tuoi video. Nella pittura impressionista la luce dà materia e corpo alle figure, nei tuoi lavori invece sembra quasi assorbire, togliere spessore ai personaggi. Mi viene in mente Turner, ma con effetti meno vivi di colore. Ci sono dei pittori a cui ti ispiri per le tue opere?

Immagine articolo Fucine MuteMS: Io vengo da studi artistici, prima del video c’è stata la pittura e in mezzo la fotografia, per cui sicuramente risento del percorso che ho fatto e degli autori che stimo. Devo dire, però, che queste sono esperienze sedimentate. Prima di Dove sono stato ho realizzato altri sei o sette lavori che non mostro neppure perché appartengono ad un momento sorpassato, quando tentavo di riproporre tutto il cinema che avevo visto con un mezzo che non è adatto, cioè il video. Avevo fatto dei corti un po’ narrativi, anche se rimangono comunque abbastanza strani, che citavano degli autori che amavo molto e che all’epoca erano di riferimento, come Jim Jarmush e Wim Wenders. Quando ho iniziato a lavorare, come dicevo prima, per accumulo di un materiale che solo in un secondo in seguito prende forma, nei momenti in cui giro e vado al montaggio faccio tabula rasa, non parto mai con un riferimento né cinematografico né fotografico né pittorico. Secondo me, comunque, quello che ti porti dentro, in qualche modo, emerge. Ritengo sia positivo avere degli autori di riferimento, è la citazione che può risultare fine a se stessa. Rivedendo i miei video possono tornarmi in mente certe pennellate di Richter sui ritratti poi passati col panno per sporcare l’immagine oppure un autore che amo particolarmente che è de Stael. Poi non so se in realtà nei miei lavori ci sia qualcosa di suo, magari lo evocano da un punto di vista cromatico. In Flor Da Baixa anche a me quel mare, inevitabilmente, non può non ricordare certe mareggiate di Turner.

Riprendendo il discorso sulle sequenze che nel tempo si accumulano e nel montaggio trovano la loro continuità narrativa, in Petite mémoire c’è un’immagine estiva di quattro ragazzi che giocano nell’acqua che a poco a poco viene mangiata da quella in cui si vede della neve che cade dietro a un vetro appannato e una mano che lo pulisce scoprendovi celato un mare invernale. Questa relazione non è nata al momento delle riprese, ma quando sono andato al montaggio. Stavo lavorando alla prima delle due e mi sono ricordato di una sequenza girata un anno prima in occasione di una piccola nevicata sullo stesso tratto di mare. La sovrapposizione delle due immagini rappresenta per me il passaggio del tempo, il passato, il presente, il ricordo. È un esempio significativo per descrivere il modo in cui nascono le mie opere. Anche in Fermo del tempo c’è un’altra figura importante, quella del bambino nello scuolabus che apre e chiude il video. È una foto di mio figlio, trovata in un album di quando andava all’asilo, che è molto curiosa perché tutti i bimbi sono fuori fuoco e guardano di fronte a sé, mentre lui fissa lo sguardo verso l’obiettivo della persona che gli fa lo scatto. In una fase un po’ particolare della mia vita è proprio da questa foto che sono partito per una riflessione sul rapporto padre-figlio, sulla difficoltà di sentirsi vicini pur essendo in certi momenti lontani. Ogni video nasce da un’immagine. Nel caso di Di ritorno è stata la morte del mio babbo accomunata dal disegno di Giacomo e dal mio viaggio in treno, in Petite mémoire, invece, è questa figura di donna a cui cerco di ridare nitidezza. Con l’atto del “mettere a fuoco” volevo ricostruire quello che succede quando tentiamo di ricordare un volto che viene continuamente portato via da altri visi che reclamano la stessa attenzione e ci confondono. È uno stato che sta al limite tra sogno e ricordo. Dietro i vetri, infine, è nato da quella nuvola che mi è scomparsa all’improvviso mentre la riprendevo.

MC: Hai realizzato anche molte installazioni, pensi che continuerai a lavorare ancora in questo settore?

MS: Sì, adesso dovrei farne un’altra in aprile, ma in alcuni casi sono installazioni che nascono direttamente dai video, e spesso li richiamano anche nel titolo. Lontano, ad esempio, è un’opera che nasce da Da lontano. In molti casi le immagini girate interagiscono con altri elementi che vado ad aggiungere. Sempre in Lontano c’era un monitor che trasmetteva il video, una sedia con delle scarpe abbandonate e dei passi che andavano verso la tv calpestando questa finta neve e sollecitando l’idea di un personaggio che era scomparso dentro lo schermo. Per questo progetto ho pensato ad una poesia stupenda di Caproni che si chiama Biglietto lasciato prima di non andare via che descrive l’impossibilità di stabilire se chi scrive abbia o meno abbandonato un determinato luogo. In altri casi si compongono in forma di dittico o di trittico, per cui, ad esempio, in Vert 1 e 2 c’erano due immagini tratte da Fermo del tempo nelle quali il mio volto e quello di mio figlio si confrontavano su due monitor e nell’arco di cinque minuti si cambiavano uno con l’altro creando esattamente a metà di questo percorso un’immagine uguale. Sono lavori abbastanza minimalisti. Da qui, sotto il mare, era composto invece, da tre elementi: un corto in cui una donna compiva una capriola in loop, il video centrale con il corto omonimo e un terzo schermo con un volto che veniva deformato molto lentamente.

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