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Omnia

Il Grande e il piccolo

Uno Spirito manifesto

Immagine editoriale Fucine MuteNella quarta delle sei parti di cui si compone la sua “Fenomenologia dello Spirito”, Georg Wilhelm Friedrich Hegel introduce il concetto, in vero alquanto affascinante, degli individui cosmico-storici, ovvero di coloro nella cui vita s’incarna il fluire di uno Spirito che dà loro capacità demiurgica di fare avanzare di colpo, e spesso con risvolti tragici, le vicende umane lungo un binario di evoluzione che forse neppure immaginavano. Individui che fanno progredire la storia del mondo, divenendone essi stessi grandi protagonisti: Alessandro, Cesare, Napoleone (“Oggi ho visto lo Spirito del mondo a cavallo”, scrisse Hegel quando Napoleone entrò a Jena, durante la guerra della Prussia).

Quando ci si accinge ad esaminare la “Fenomenologia dello Spirito”, bisogna innanzitutto chiarire il termine “fenomenologia”. Oggi è molto noto, perché in Germania si è formata una scuola, la cosiddetta scuola fenomenologica, fondata da Husserl e alla quale appartenevano anche Heidegger e Max Scheler, che ha fatto proprio il termine fenomenologia, originariamente appartenente alla medicina, dove dava il nome allo studio delle manifestazioni dei diversi tipi di malattia. La fenomenologia è dunque una dottrina delle manifestazioni; in Hegel, delle manifestazioni dello Spirito. La fenomenologia è pertanto la storia delle manifestazioni dello Spirito, dei modi in cui lo Spirito si manifesta partendo dall’autocoscienza, e di come sia possibile comprendere, a partire da questo processo gnoseologico, non solo l’intera struttura spirituale del mondo ma anche tutte le sue forme quali la società, l’arte, la religione, la filosofia, ecc. Cioè partendo da ciò che, solo con il cristianesimo, si era man mano arrivati a definire come soggettività. L’uomo, da soggetto libero di scegliere tra il bene ed il male, diviene con Hegel lo strumento ed il vettore attraverso il quale lo Spirito riesce a realizzare la coscienza di sé attraverso la capacità di esprimersi nella libertà.

Alla luce di queste considerazioni preliminari, che non a caso ho voluto richiamare proprio in previsione di quanto mi appresto a scrivere in pieno spirito hegeliano, vorrei permettermi alcune riflessioni su due persone che hanno, seppure su scale completamente differenti, a loro volta influito sul corso della storia degli uomini, riconnotandone il concetto di libertà hegelianamente intesa, ovvero quella che si realizza in momenti positivi e negativi, affermandosi, negandosi, mantenendo e togliendo. La prima persona di cui voglio scrivere, anche nel tentativo di ricordarla a mio modo (ricordarla nel senso di non essere noi tutti mai dimentichi delle sue parole), è Karol il Grande. La seconda persona è Silvio. Silvio il piccolo.

Karol il Grande

Il corpo del Papa, che da poche ore è scomparso per sempre alla vista del mondo per trovare nuova ed eterna dimora nel cuore di San Pietro e di miliardi di esseri umani, è stato corpo di uomo giusto, libero e coraggioso. Come il suo spirito, come la sua mente. Assai differente da un altro “grande”, Alessandro, o da grandi altri condottieri – Cesare e Napoleone, indicati da Hegel come individui cosmico storici – e pur tuttavia a sua volta personaggio storico che ha saputo vivere ed in qualche modo determinare il corso di grandi eventi, cosmici per l’appunto, che sono accaduti nei suoi ventisei anni di pontificato.

Immagine editoriale Fucine MuteFin dalla sua prima pubblica apparizione da Pontefice, quel Papa “venuto di lontano”, umile, con il sorriso della modestia sul volto, ha saputo infrangere, con due sole parole, distanze che avevano fino ad allora separato dal resto del mondo suoi altri predecessori e la Chiesa tutta. “Se sbaglio mi corrigerete” disse dal balcone di piazza san Pietro quel 16 ottobre 1978, con quel suo Italiano comprensibile ma approssimativo che conquistò immediatamente i fedeli (“Non so se posso spiegarmi nella vostra… nostra lingua italiana”). Pontefice dotato di una visione strategica, Wojtyla è stato un Papa fuori dagli schemi, e non si è mai adattato a subire imposizioni formali legate a un protocollo secolare. Uomo tra gli uomini ha infranto la tradizione che voleva il successore di Pietro inaccessibile, figura ieratica e quasi sacrale. Quando mai prima si sarebbe potuto ritenere ammissibile la figura di un Pontefice che sbaglia? Un Papa che, per sua definizione stessa che gli deriva dal dogma, è infallibile. E chi mai avrebbe potuto pensare di correggere un Papa infallibile, che comunica con la sacralità delle encicliche consegnate all’olimpo del logos, con tanto di bolla pontificia? E cosa dire di un Papa che il 26 febbraio del 2004, rivolgendosi in dialetto romano ai sacerdoti della sua diocesi, pronuncia testuali parole: “Volemose bbene, semo romani. E ora, damose da fa”?
Come non sorridere, pur con mestizia e malinconia, al ricordo di quest’uomo, primo Papa non Italiano dopo 455 anni e primo slavo in assoluto, che amava affermare che “nei disegni della Provvidenza non esistono mere coincidenze”. E che, forte di questa convinzione, ha impostato la propria missione seguendo una sola logica, quella della fede e delle proprie idee.

La sua è stata una rivoluzione che ha toccato anche la stessa Chiesa e che si è estesa al mondo intero, a convinzioni e separazioni secolari. E’ stato il Papa che confessava pubblicamente e periodicamente i fedeli come un comune parroco. Il Papa che ha infilato la fiteuah, chiedendo perdono per la responsabilità dei cristiani nell’antisemitismo, tra le pietre millenarie del Muro del Pianto come un semplice ebreo. E’ stato il primo Papa ad aver varcato la soglia di una sinagoga dal tempo degli apostoli, a Roma nel 1986 (“E’ il papa che ha fatto di più, concretamente e materialmente nei confronti del popolo ebraico con la visita storica alla Sinagoga di Roma, lo scambio di delegazioni diplomatiche con lo stato di Israele e la visita al muro occidentale” – Amos Luzzatto, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane). Il primo ad esser entrato in una moschea, a Damasco nel 2001, e a varcare la soglia di una chiesa luterana nel 1987. Il Papa che andava in vacanza e sciava in Cadore, che ha fatto costruire una piscina a Castelgandolfo.

Immagine editoriale Fucine MuteIl Papa che ha fatto del dialogo ecumenico sua prima dichiarazione d’intenti, a più riprese riconfermata (“Il futuro della pace nel mondo dipende dal rafforzamento del dialogo e della comprensione fra le culture e le religioni” – 10 maggio 2001), e quindi concretizzata con l’agire tutto di una vita dedicata al confronto (vi ricordate anche di quello con l’esecutore materiale del suo tentato omicidio?), al dialogo (“Non c’è più Chiesa del silenzio, perché parla attraverso il Papa” – 5 novembre 1978, Assisi, primo viaggio fuori da Roma), all’apertura (“Non abbiate paura: aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!”), alla valorizzazione del ruolo della donna nella famiglia e nella società. Quelle stesse donne che una volta, ai tempi dell’inquisitore domenicano Tomas de Torquemada, se non bruciate al rogo erano comunque relegate al ruolo di mero strumento per la generazione di progenie (santi, poeti, guerrieri, navigatori, tutti rigorosamente maschi prima ancora che uomini), e che il 5 novembre del 1978, nel primo accenno alle future riflessioni papali sul genio femminile, nel discorso sulla tomba di Santa Caterina a Roma, diventano investite di una missione dal significato multiforme, tutto da scoprire (“Potessimo insieme scoprire il multiforme significato della missione della donna, andando mano nella mano con il mondo femminile di oggi!”).

La donna cellula della famiglia: “Per il futuro dell’umanità sono fondamentali l’amore rettamente inteso e il sacramento del matrimonio. Con sempre maggiore insistenza si affacciano progetti che pongono gli inizi della vita umana in contesti diversi dall’unione sponsale tra l’uomo e la donna e sono progetti spesso sostenuti da giustificazioni e mediche e scientifiche” (1 giugno 2001), ma anche la donna guerriera e paladina della fede: “Io pensavo che le suore erano gente buona. Invece sono persone che fanno tanto rumore, gente tanto energica che vuole distruggere il Papa al primo incontro… almeno la sua sottana!” (10 novembre 1978, in occasione dell’udienza alle religiose nell’Aula Paolo VI – erano tredicimila, e lo applaudirono per mezz’ora, mentre egli attraversava l’aula, trattenendolo ad ogni passo).

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Nato a Wadowice, in Polonia, il 18 maggio 1920, papa Wojtyla ha conosciuto la ferocia nazista e la dittatura comunista. Ha lottato contro entrambe e la storia gli ha dato ragione. Nonostante la sua elezione sia avvenuta in un momento nel quale la divisione del mondo in “blocchi” sembrava irreversibile, una realtà immutabile. E la scelta dei cardinali riuniti in Conclave fosse interpretata come una inutile e avventata sfida ad un equilibrio mondiale basato sulla contrapposizione Est-Ovest. L’elenco dei suoi primati è ancora lungo, a partire dalla durata del Pontificato, il secondo nella storia della Chiesa. E’ stato definito il Papa viaggiatore: i suoi pellegrinaggi lo hanno portato in terre lontane, dove mai un Pontefice era arrivato. Ha compiuto trenta volte il giro del mondo, coprendo una distanza pari a tre volte quella che separa la terra dalla Luna. Quando venne eletto erano 108 i paesi che intrattenevano relazioni diplomatiche con il Vaticano. A fine 2004 il numero era salito a 175. Cifre significative che però diventano meno importanti davanti al vero miracolo di Giovanni Paolo II: quello di avere saputo parlare ai giovani (“Quanto chiasso! Mi date la parola? Quando sento questo chiasso penso sempre a San Pietro che si trova qui sotto. Non so se questo chiasso gli farà piacere, ma io penso che sia contento!” – 23 novembre 1978, Basilica di S. Pietro, udienza ai ragazzi), di averli riportati a dialogare con una Chiesa spesso percepita come lontana.

Ma il pontificato di Wojtyla è stato ancora altro: è stato difesa del diritto al lavoro e dei diritti umani, fatta da un uomo che in gioventù era stato operaio e che da sacerdote aveva attraversato due regimi totalitari.

Intermezzo hegeliano

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Ritorniamo ancora una volta ad Hegel, e facciamo subito un esempio, a proposito della trattazione del rapporto servo-padrone: poniamo di avvertire la fame; questo appetito, per così dire, ci dà la certezza di esistere, ma appena siamo sazi questa autoconferma svanisce. L’appetito ci ha fatto ricordare di noi, ma è qualcosa di momentaneo. Non posso ancora riconoscermi come un Sé, se subisco il ritmo dell’appetito e della sazietà insieme a tutte le forme di desiderio che vi corrispondono; per diventare un Sé non solo reale, ma anche autocosciente, è necessario ancora qualcos’altro. Cerchiamo palesemente il riconoscimento, ma il semplice riconoscimento attraverso la soddisfazione dei desideri è insufficiente, perché poi, con i desideri, viene meno anche il riconoscimento.

Per Hegel il concetto di riconoscimento è assai importante, tanto che il suo venir meno da parte di altri distrugge in chicchessia la propria autoconsiderazione, mentre il riconoscimento avvenuto la rafforza e la arricchisce. Hegel asserisce che si crede ciò che conta sia il saper dominare l’altro per costringerlo a riconoscerci, ma è una stupida follia ritenere che la nostra autocoscienza possa fondarsi sul riconoscimento di una persona che abbiamo asservito o schiavizzato. È follia, ma è anche una forma di desiderio, un desiderio di possesso che certo non può essere soddisfatto dalla conferma del proprio Sé data dal servo.

Nella società nobiliare valeva il concetto feudale dell’onore. E infatti c’era il duello: chi aveva offeso qualcuno poteva riconciliarsi di nuovo con lui, se accettava di esporsi al rischio comune di un duello a morte. Poi, per il fatto di essersi per così dire posti in comune, non si correva più il pericolo di essere annientati nel proprio Sé; attraverso il duello si dimostrava la propria libertà. Ma anche questa è ovviamente, come si vede subito, una conferma di sé assai momentanea; si supera una offesa, ma non si consolida una autocoscienza durevole. Per questo scopo nella società feudale c’è invece il servo, lo schiavo. La sua è infatti una dedizione continua.

Silvio il piccolo

A proposito di onore e duelli, di servi, padroni, schiavi e desideri di possesso. Da pochi giorni a questa parte, con la conclusione definitiva delle elezioni regionali, sembra che sia stata sconfitta l’Italia maneggiona e arrogante, l’Italia degli inganni e delle menzogne, delle false promesse, della cattiva gestione del potere, della forza dei soldi, delle grandi opere mai realizzate e delle inaugurazioni fantasma. Sconfitta l’Italia dello stravolgimento delle regole, dell’adattamento sfacciato ai propri interessi, della sistematica mistificazione, degli insulti ripetuti, delle aggressioni verbali e del dileggio dell’avversario. L’Italia della manipolazione mediatica, incredibile ed arrogante, dei servi abbaianti a comando a negare le verità più evidenti, dei lacchè televisivi pagati a miliardi con i soldi pubblici. L’Italia delle Leggi cucite sui bisogni propri e degli amici, dei mercati finanziari modellati sulle proprie necessità, dei tribunali speciali camuffati da commissioni d’inchiesta (Trantino – quello che non sa quando è stato abbattuto il muro di Berlino – docet), dei giudici, secondo convenienza, buoni (Dell’Utri dixit, a proposito del proscioglimento di Silvio il piccolo dall’accusa di corruzione in atti giudiziari) oppure comunisti e quindi cattivi (Dell’Utri dixit, a proposito degli stessi giudici che avrebbero potuto l’indomani emettere sentenza altra). L’Italia dell’io sono il più bravo, il più buono, il più bello e anche il più alto. E tu no. Sei piccolo, cattivo e comunista, e non hai saputo fare i soldi. Sconfitta l’Italia dei lifting e del trapianto dei capelli, per apparire prima che essere. L’Italia che se mi incazzo vi abbandono tutti al vostro destino e mi ritiro in una delle mie trecento ville serene, tutte fatte con il sudore di questa fronte.

Per un uomo così piccolo ho già scritto abbastanza. Adesso, per qualcuno, viene il bello… ma anche il difficile: riportare davvero l’Italia dov’era prima che qualcun altro la cambiasse. E restituire fiducia e serenità ai cittadini che hanno voluto voltare pagina.

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