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Cinema

Piera Detassis

La nascita di una passione

Immagine articolo Fucine Mute

Atlantide è l’isola favolosa abitata da una civiltà padrona di una tecnologia eccezionale per l’epoca che scompare improvvisamente senza lasciare traccia. Mito platonico fonte di inesauribili adattamenti per il grande schermo, tra cui L’Atlantide di Jacques Feyder, Antinea, l’amante della città sepolta (1961) di Edgar G. Ulmer, film di genere “peplum” girato a Cinecittà, e Ercole alla conquista di Atlantide (1962) di Vittorio Cottafavi.
Dier Herrin Von Atlantis di G.W. Pabst, proiettato al cinema Vittoria in chiusura del XII Convegno di studi dell’Università di Udine-Dams di Gorizia, s’ispira al libro di Pierre Benoit, scrittore francese che immagina l’isola sepolta sotto le dune del deserto africano. Il titolo è un esplicito riferimento alla figura leggendaria di Antinea, regina d’Atlantide, una sorta di crudele “Moloch” femmina che nella vana speranza di riunirsi all’amante ideale per l’eternità attira a sé tutti i suoi spasimanti conducendoli uno dopo l’altro al suicidio.
Sotto gli occhi di Pabst, già regista di Il vaso di Pandora e Diario di una donna perduta, Antinea acquista un’energia quasi diabolica, soprattutto grazie allo sguardo ammaliante dell’attrice tedesca Birgitte Helm, forse più conosciuta al pubblico cinefilo come il burattino androide in Metropolis di Lang.
La serata al cinema Vittoria si è conclusa con l’assegnazione del Premio Limina per il miglior libro italiano e straniero di cinema; Piera Detassis, direttrice del mensile “Ciak” a Gorizia in veste di madrina della premiazione, ci ha raccontato della passione che la lega al cinema, in particolare il muto e quello delle vampire, e soprattutto la nascita e la storia di questa passione.

Sarah Gherbitz (SG): Lei si è laureata con una tesi sull’estetica cinematografica del filosofo Galvano della Volpe. Di che cosa si tratta?

Piera Detassis (PD): La mia tesi di laurea, una tesi fatta ahimè nel lontano 1973, era una tesi che cercava di indagare su un filosofo forse oggi abbastanza dimenticato che è Galvano della Volpe. Filosofo particolarmente importante perché è stato il primo in Italia che ha introdotto l’analisi strutturale, non ancora la semiotica, ma sicuramente lo strutturalismo all’interno di quella che era la critica lucaksiana, di impronta comunque contenutistica che fino ad allora era la critica dominante, soprattutto per quello che riguarda il settore della sinistra a cui comunque Gaetano della Volpe si iscrive. Dunque era un tentativo, in quegli anni in cui la semiotica cominciava a diventare importante negli studi cinematografici e nell’analisi del film, per capire come in Italia era stato possibile, da parte di chi lo aveva fatto cioè Gaetano della Volpe, mettere una specie di mina all’interno di una critica che rimaneva comunque una critica di contenuto, che in qualche modo non si occupava del testo cinematografico.

SG: Sequenza segreta. Le donne e il cinema è il titolo di un libro che lei ha curato insieme a Giovanna Grignaffini. Che cos’è la “sequenza segreta”?

PD: Nel 1981 assieme a una mia amica e collega Giovanna Grignaffini, che all’epoca insegnava al Dams e adesso è deputato, abbiamo scritto questo libro per la Feltrinelli tascabile che si chiamava Sequenza segreta con una prefazione di Goffredo Fofi. È stata forse la prima indagine razionale, pubblicata da una casa editrice a larga diffusione, sullo sguardo “al femminile” nel cinema. Naturalmente era un libro che nasceva dall’esperienza e dalla militanza femminista e seguiva alcuni movimenti che c’erano stati all’epoca. In particolare io mi ricordo di Rinomata, che fu il primo movimento femminista nel cinema: si trattava di una rassegna di film che girava dappertutto, che andava a scoprire i talenti femminili, ma soprattutto cercava di capire se esisteva uno sguardo femminile, se esisteva un punto di vista femminile per la narrazione cinematografica e per capire quindi se era possibile fare una critica di genere, di gender. L’abbiamo fatto così, mettendo insieme le voci delle registe, le analisi dei film, le analisi del linguaggio che all’epoca pensavamo si potesse connotare anche in maniera sessuata.

SG: Lei dirige il mensile “Ciak”: qual è la formula del successo per questo mensile?

PD: Quella di “Ciak” è un’esperienza straordinaria! Dura da otto anni ed è un modo veramente fantastico per riuscire a comunicare il cinema. Io credo di aver sempre avuto in me una sorta di educazione alla comunicazione, ho lavorato all’università, ho fatto tutti gli studi più seri possibili, mi sono occupata molto di semiotica, mi sono specializzata in Francia, ho scritto molto difficile nella mia vita e ho avuto la fortuna di studiare con i più importanti studiosi sia italiani che stranieri. Però devo dire che al fondo la mia aspirazione è sempre stata quella di riuscire a comunicare, cioè di comunicare con un pubblico più vasto e possibilmente, diciamo dove possibile perché non è un lavoro facile, senza semplificare. Raccontare, raccontare il cinema, raccontarlo senza rendere impossibile la comprensione del cinema attraverso un linguaggio troppo specialistico, e tuttavia non scendere a patti con il troppo popolare. Credo che fare un giornale specializzato che però sta in edicola e vende in edicola come “Ciak” sia un lavoro difficilissimo perché è difficile naturalmente tenere assieme l’appassionato blando con il cinefilo quello un po’ khomeinista che non perdona niente. Però credo che il tentativo vada fatto e io sono contenta di farlo, sono molto felice anche perché il rapporto con i lettori è molto intenso, è molto forte: per me è come avere una famiglia fatta di migliaia di persone, di giovani soprattutto, perché la cosa che mi piace molto è che è un giornale fatto e pensato per i giovani e comprato dai giovani. Quindi anche formativo, speriamo!

SG: In un giornale così attento al cinema contemporaneo come “Ciak”qual è la funzione delle collane DVD dei capolavori del passato?

Immagine articolo Fucine MutePD: La funzione è coniugare l’attualità del giornale “Ciak” — l’attualità che significa naturalmente raccontare quello che c’è in sala, il cinema che la gente va a vedere, devi raccontare anche i non capolavori — con la possibilità invece di fornire del materiale ai ragazzi. Perché, lo ripeto, noi vendiamo soprattutto ai ragazzi, cerchiamo di fornire del materiale che gli ricordi la storia del cinema. Questo perché il grosso ostacolo che noi troviamo nel fare il nostro lavoro è una grande assenza di memoria cinematografica:diciamo che i miei lettori vanno indietro di quindici anni, non di più, e quindi c’è sembrato importantissimo poter fare delle collane in DVD. Prima abbiamo fatto i libri, poi i DVD che apparentemente sono perfino delle collane rischiose per un giornale come il mio.
Invece sia Truffaut, ma forse questo è più comprensibile, che Bergman e perfino i documentari inediti che abbiamo pubblicato, vendono benissimo e devo dire che abbiamo venduto benissimo soprattutto I 400 colpi di Truffaut, film in bianco e nero che è già difficile. Abbiamo venduto benissimo adesso ad esempio Easy rider; quindi c’è una voglia di andare a riscoprire il passato del cinema, di impararlo e di conoscerlo: speriamo di fornire questa possibilità!

SG: Le interessa il cinema muto?

PD: Quello col cinema muto è stato un rapporto molto intenso perché io ho studiato all’università con Gianpiero Brunetta. E devo dire che Brunetta per almeno tre anni mi ha fatto scoprire il cinema e la narrazione cinematografica, il linguaggio cinematografico proprio attraverso il cinema muto.
Io ricordo l’anno in cui abbiamo scoperto Griffith, dagli one reel, quindi dai cortometraggi fino ai grandi capolavori, ai lungometraggi: è stato un anno straordinario perché abbiamo visto crearsi sotto i nostri occhi il linguaggio cinematografico, questo linguaggio che è stato il linguaggio del Novecento e quindi è stato il linguaggio innovatore di un intero secolo e forse della modernità.
Quindi per me il cinema muto è la nascita di tutto, è la nascita di una passione, è la nascita del linguaggio in cui io sono cresciuta perché naturalmente sono una figlia del cinema e poi della televisione. Il cinema muto è una grande riserva, è come scavare dentro la miniera dei pionieri, scavare dentro una piramide e trovar dei tesori, ritrovare il tempo e la formazione della storia del linguaggio: quindi per me è importantissimo. Mi rendo conto che è difficile, che oggi il cinema muto è un’astrazione, che i nostri codici così veloci c’impediscono di usufruirne come sarebbe giusto, lo impediscono ai più giovani, però sicuramente è la nascita di tutto e quindi come tutte le nascite, tutte le origini è estremamente affascinante.

SG: La protagonista di L’Atlantide, Antinea, è una vera donna cattiva. In un ipotetico remake, oggi chi ci vedrebbe bene?

PD: Stiamo parlando del film di Pabst, e devo dire che io ho una passione per le donne vampiro, per le donne cattive, per le donne mostro: quindi nel cinema ho fatto e sto facendo una mia personale ricerca su questo. Oggi questo modello è diventato un po’ di moda, forse un po’ troppo di moda, quindi credo lo possano interpretare in tante: tutte le donne possono essere vampire, per fortuna! Quindi non saprei dire chi è la più vampira, posso solo dire chi mi piace molto come attrice: sicuramente Nicole Kidman oggi è una delle attrici più interessanti, sia per la bravura sia per il rischio delle scelte che ha fatto. Arrivando dal grande star system, dal cinema commerciale ha attraversato zone di cinema sempre più interessanti, sempre più rischiose. In qualche modo penso che la vorrei vedere in tutti i ruoli, quindi anche in quello di vampira.
Direi che forse Nicole è l’immagine più forte, poi ce ne sono tante…mi sembra anche molto interessante oggi Scarlett Johanson… ma direi che Nicole Kidman è in vetta alle mie classifiche.

SG: Lei è a Gorizia per consegnare i premi Limina ai migliori libri di cinema. Immagino che lei venga consultata da chi pubblica per la prima volta: quali sono i suoi consigli?

PD: Non do molti consigli agli esordienti che vogliono scrivere un libro di cinema, devo dire che proprio non me li chiedono moltissimo e quei pochi che do mi ascoltano poco, se devo essere sincera! L’unico consiglio che do sempre è quello di non innamorarsi delle proprie parole perché io l’ho fatto: da giovane mi sono innamorata delle parole indecifrabili, delle frasi incomprensibili, mi sono innamorata di quelle cose che sulla carta sembrano straordinarie e quando le rileggi dieci anni dopo, come è successo a me con alcuni dei saggi che avevo scritto, neppure io capivo che cosa avevo scritto! Il mio unico consiglio è imparare tutto, studiare tutto, anche le cose più difficili anche la teoria più inesplicabile, però cercare di dimenticarla, di farla propria, di assumerla dentro di sé, in qualche modo di filtrarla. Poi parlare e scrivere in maniera colta, elegante, in maniera affascinante, ma semplice, senza inventare. Quelle cose che si possono dire con due parole interessanti non occorre dirle con cinquanta parole incomprensibili. È un difetto che io vedo spesso ed è un difetto che allontana il lettore: secondo me è un limite che si ha per gioventù, è l’estremismo giovanile. Poi con l’età lasciar parlare la vita, la vita è più importante della teoria, anche quando si scrive di cinema!

L’intervista a Piera Detassis, direttrice di “Ciak” e responsabile della rubrica di critica cinematografica per il settimanale “Panorama”, si è svolta in occasione dell’assegnazione del Premio Limina, cerimonia conclusiva del convegno internazionale di studi sul cinema organizzato dall’Università di Udine-Dams cinema di Gorizia. Si ringrazia Luana de Francisco per la gentile collaborazione.

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