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Cinema

I “viaggi” di Scorsese (II)

La tecnica del cinema

Immagine articolo Fucine MuteIl linguaggio cinematografico è cambiato sensibilmente nel corso del secolo, e ciò non soltanto per le soluzioni stilistiche originali apportate dai singoli autori. La grammatica visiva — fatta di primi piani, diaframmi, dissolvenze, dolly, carrellate, ecc. — deve tenere conto anche dei dispositivi tecnici e delle migliorie sopravvenute, come del resto ogni sistema di espressione e comunicazione che ha a che fare con un aspetto strumentale soggetto all’evoluzione.

Nel giro di tre decadi, nuovi e decisivi ritrovati della tecnica si sostituiscono ai precedenti. L’avvento del sonoro (anni Trenta), del Technicolor a tre matrici che permette di coprire l’intera gamma di colori (anni Quaranta) e del cinemascope (anni Cinquanta) abbattono gli standard di ricezione a cui il pubblico era abituato e si impongono allo spettatore con forza mimetica, con maggiore adesione al reale e ai suoi dati sensibili.
Emozioni e suggestioni inedite vibrano nello spettatore, affascinato turbato travolto come lo Scorsese bambino di fronte al maestoso Duello al sole di King Vidor: “La rassicurante oscurità della sala fu improvvisamente squarciata da un’esplosione stravagante di colori vivaci, seguita da parecchi colpi di pistola: i titoli di apertura del film . Era il 1946, avevo cinque anni. Fu una grandiosa esperienza sensoriale: l’intensità selvaggia della musica, il Technicolor in tricromia, la sensazione dello spazio […] tutto era travolgente ”.

Aumenta in maniera esponenziale il grado di realismo delle pellicole, e con esso il senso di partecipazione richiesto. Nel finale di Qualcuno verrà (1958) di Vincente Minnelli la composizione dell’immagine è vibrante e i personaggi si confondono con lo sfondo, la magnificenza realistica di La regina delle piramidi (1955) di Howard Hawks conferisce la precisa sensazione di essere testimoni in carne e ossa dell’evento, Anthony Mann con La caduta dell’Impero romano (1964) commuove ancora per il senso dello spazio e per l’effetto drammatico che sprigiona.
Ora, c’è da chiedersi se l’introduzione di tali innovazioni determini sempre e comunque un realismo maggiore, cioè un progressivo avvicinamento alla realtà: è così? Non esattamente. È il caso di Femmina folle (1945), una specie di noir a colori diretto da John Stahl, in cui l’uso del neo-nato Technicolor a tre matrici non serve la causa del realismo ma è piuttosto la chiave espressiva per dare più risalto al melodramma. Oppure Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray, barocco e saturo nel simbolismo stravolto dei colori, melò travestito da western.
O ancora: perché aggiornato sulle strumentazioni accessibili dell’epoca come il formato fotografico Super Panavision, è forse un esempio di film realista 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, insuperato baluardo di come il cinema possa spingere sempre più avanti le proprie possibilità di sperimentazione e manipolazione visiva?

Marshall McLuhan ci insegna che l’avvento di un nuovo medium non sostituisce immediatamente il vecchio medium, quello che accade è il configurarsi di sacche ibride di convivenza tra forme diverse di comunicazione. Allo stesso modo è utile indagare come i cineasti possano rispondere alle evoluzioni tecniche adattando il proprio stile al progresso, o viceversa. Si pensi a Elia Kazan alle prese col Cinemascope, che determinava un aumento delle dimensioni dello schermo e quindi un ripensamento delle proporzioni. In La valle dell’Eden (1955) gira alcune scene inserendo inquadrature più strette — vani delle porte e corridoi — all’interno del formato più ampio, mescolando così nuove tecniche e vecchi metodi di lavoro.

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Tuttavia l’insegnamento principe in materia ci viene da Jack Tourneur, autore davvero insolito e dimenticato, appassionato di esoterismo e occultismo. Con Il bacio della pantera (1942), un formidabile thriller a basso costo, dimostra come la magia dell’emozione non dipenda dall’alta risoluzione del trucco — l’effetto speciale, diremmo noi oggi — bensì dalla sua intensità.

La fortuna del noir

Addentrandosi anima e corpo nel suo Viaggio nel cinema americano, Scorsese dedica un intero capitolo di riflessioni al genere noir. Perché questo filone ha riscosso fin dai suoi esordi un largo successo nell’immaginario di milioni di persone, e ancora oggi esercita sulle platee un innegabile fascino? Qual è il segreto del rapporto viscerale e magnetico che si è andato creando di generazione in generazione tra lo spettatore e i contenuti codificati del noir?

Film quali La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder, Un bacio e una pistol a (1955) di Robert Aldrich rappresentano il vocabolario visivo del genere, ben scolpiti nella mente degli appassionati. L’origine del termine noir è da attribuirsi alla Francia, che scopre i film americani dopo gli anni di censura dell’occupazione tedesca. In realtà, puntualizza Scorsese, non si tratta di un genere a tutti gli effetti, ma piuttosto di un mood, di un senso di sconfitta inevitabile, uno stato d’animo generalizzato che può infiltrarsi sottopelle trasversalmente, insinuandosi all’interno di altre categorie, e generare sorprendenti contaminazioni.
Da dove proviene questo malessere, da quale oscura regione della mente sgorga questo veleno che ha infettato l’animo? Una ragione storica, innanzitutto: il noir è debitore dei tempi, della guerra fredda imbevuta di paranoie, derive psicotiche e verità allontanate dalle menzogne. La facciata si increspa, le linee di demarcazione si fanno più sfumate, e la realtà non è più quella che sembra.
Vi è poi una ragione esistenziale, legata indissolubilmente a un senso di fatalità che trasfigura la vita in un vicolo cieco, a un destino già scritto che inchioda l’individuo alla sua fine solitaria e violenta.

Immagine articolo Fucine Mute

I pionieri del noir, coloro che gettano le basi per le discese agli inferi a venire sono Fritz Lang con La strada scarlatta (1945) e Edgar Ulmer con Detour, dello stesso anno. Si inizia a intravedere in essi il motivo dominante, cioè l’idea — fatale, necessaria — che il crimine è ovunque, una possibilità concreta e non confinata solo nei milieu criminali dei gangster: l’uomo qualunque è un potenziale assassino. La violenza è palpabile, tanto invasiva è diventata ormai la sua presenza nella quotidianità. Si ascoltino le parole di Fritz Lang a tale proposito: “Credo che la violenza sia diventata un punto fermo della sceneggiatura, presente per una ragione drammaturgica […] il dolore fisico si sprigiona dalla violenza, è questa credo l’unica cosa che la gente realmente teme al giorno d’oggi ”.
Il noir riflette come uno specchio un mondo impazzito, dalla morale ambigua e magnetica dove il fine giustifica i mezzi. I cineasti fanno leva sul crimine — inesauribile fonte di fascino — per indagare gli abissi della psiche umana.

Dal punto di vista stilistico, la fotografia è lo strumento decisivo del quale il noir si serve per rappresentare il suo mondo di losers e anime perse. In una suggestiva combinazione di realismo ed espressionismo, la resa della luce traduce visivamente il senso di claustrofobia comune a tutte queste pellicole, disegna delle zone d’ombra sui volti e le figure dei personaggi, e allo stesso modo avvolge il décor con un gioco sapiente di luci e ombre.
Che il noir sia la quintessenza di uno stile ce lo testimonia il lavoro dell’operatore di origine ungherese John Alton, che curò la fotografia dei primi film di Anthony Mann, particolarmente T-Man contro i fuorilegge (1948) e Schiavo della furia (1948). Contrasti estremi tra bianco e nero, fonti isolate di luce, prospettive profonde e neri saturi sono gli elementi a cui ricorre il maestro per comporre la propria tavolozza, scelte decisive nel trattamento della luce che s’impongono da subito come l’iconografia di riferimento.

L’establishment e gli iconoclasti

La dialettica costante tra le regole di Hollywood e l’espressione originale dei cineasti non è sempre stata indolore, ma ha conosciuto anche momenti di forte attrito anche drammatici, trattandosi del lavoro e della vita di uomini.
Questi enfants terribles sono marchiati a fuoco da un paradosso: la ferocia iconoclasta con la quale si sono scagliati agli albori della carriera contro il sistema si è rivoltata contro di essi, finendo per diventare la causa stessa della loro rovina: il circuito produttivo, temendo l’insuccesso e l’impopolarità, li ha estromessi o ostacolati nella realizzazione delle opere future.

Tra le fila dei meno accomodanti ai diktat padronali spicca la parabola di Erich von Stroheim, che pagò a caro prezzo le sue scelte audaci. Dopo Sinfonia nuziale (1927), agghiacciante ritratto allegorico dello squallore e della corruzione della Vienna di fine impero, perse il controllo dei suoi lavori, i progetti gli furono tagliati e amputati in sede di montaggio. Rimane una scia di frammenti, schegge di immaginazione dalle quali a fatica ora decifriamo lo spirito visionario originario che le animava.
Lo stesso Orson Welles, nome tra i più celebri e celebrati della settima arte, per l’esordio alla macchina da presa con Quarto potere (1941) si vide accordare dalla RKO il diritto al montaggio finale, munifica concessione di cui solo Chaplin godeva in quei tempi. In seguito, già con L’orgoglio degli Amberson (1942) non conobbe mai più tale libertà, che inseguirà con rimpianto lungo tutto il suo arco artistico.

Immagine articolo Fucine Mute

Decisamente meglio andò a Elia Kazan, pluripremiato maestro riconosciuto di Hollywood. Fu lui tuttavia, col suo Un tram che si chiama desiderio (1951), a dare il primo scossone frontale al Codice Hays, un sistema di auto-censura della Motion Pictures Producers and Distributors of America in vigore dal 1930 e indirizzato a vigilare sulla moralità dell’industria cinematografica americana.
L’esempio di Kazan apre la strada a film di scoperta denuncia sociale che accostano temi quali il razzismo (L’ultimo Apache), l’omosessualità (Tempesta su Washington), l’atrocità della guerra (Orizzonti di gloria), la tossicodipendenza (L’uomo dal braccio d’oro).
La spregiudicatezza nell’esibizione della violenza di Bonnie and Clyde (1967) di Arthur Penn sta a testimoniare che i vecchi divieti stabiliti dal Codice Hays sono ormai infranti e superati, restano altre barriere da abbattere, altri territori sconosciuti da esplorare come la sessualità e la psiche umana, e sarà allora la volta delle calde e umanissime “poesie epiche dell’animo” di John Cassavetes, instancabile occhio sull’amore e sui rapporti umani, o le algide e geometriche circumnavigazioni di Stanley Kubrick intorno alla psiche.

In fondo, non c’è nulla di strano in un’arte che spinge incessantemente più avanti i propri confini di ricerca, se già nel 1919 con Giglio infranto D.W. Griffith, considerato all’unanimità il padre della cinematografia moderna, denunciava le storture dell’intolleranza in un ambiente sociale sordido e corruttore. Splendido esempio di come la grande arte sviluppi nel suo DNA un sistema immunitario di difesa contro le crociate lanciate alla libertà e alla verità di espressione.

fine seconda parte

Martin Scorsese (New York, 1942) non è certo un regista che ha bisogno di presentazioni, essendo uno dei più grandi autori del cinema americano contemporaneo. Basti pensare a titoli come Taxi Driver, Toro scatenato e Quei bravi ragazzi per avere anche solo un’idea del valore del suo sguardo sul nostro mondo. È utile piuttosto ricordare che il primo documentario affrontato nel saggio, cioè Viaggio nel cinema americano, è uscito in un prezioso cofanetto (Edizioni minimum fax) accompagnato dalla raccolta degli scritti e delle interviste che Scorsese ha rilasciato negli ultimi anni per i “Cahiers du cinéma” col titolo “Il bello del mio mestiere” ed è la fonte delle testimonianze citate tra virgolette nel testo.


Viaggio nel cinema americano (A Personal Journey with Martin Scorsese through American Movies)


Regia e sceneggiatura: Martin Scorsese, Michael Henry Wilson. Montaggio: Thelma Schoonmaker. Musiche: Elmer Bernstein. Titoli: Saul Bass. Produzione: British Film Institute Productions/Florence Dauman/Cappa Productions, 1995. Durata: 227 minuti.


Il mio viaggio in Italia


Sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Raffaele Donato, Kent Jones, Martin Scorsese. Montaggio: Thelma Schoonmaker. Produzione: Martin Scorsese, Barbara De Fina, Giuliana Del Punta, Bruno Restituccia per Paso Doble Film, 1999. Durata: 240 minuti.

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