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Rian Johnson

La roba

Immagine articolo Fucine MuteLa seconda giornata della Settimana della Critica è dedicata al cinema americano che sbarca a Venezia con il film Brick dell’esordiente Rian Johnson. Il lungometraggio, già premiato al Festival di Sundance, racconta, mescolando in modo inedito il genere teenager all’hard boiled, l’indagine di Brendan (Joseph Gordon-Levitt), studente solitario di un college di San Clemente, volta a scoprire chi sia l’assassino della sua ex fidanzata, trovata morta all’imbocco di una galleria. Per ricostruire l’enigma il ragazzo si avvale del suo unico vero amico, The Brain, e si trova faccia a faccia con una schiera di personaggi rappresentativi: The Pin, pericolosa giovane mente di un’organizzazione dedita al traffico di droga, Laura, ambigua ragazza di famiglia borghese, Brad, il bulletto della squadra di rugby e Dode, violento spacciatore che nasconde più di un segreto.

Michela Cristofoli (MC): Il tuo bellissimo lungometraggio, Brick, è una divertente detective story. Hai iniziato a lavorarci sette anni fa, come mai lo hai realizzato solo ora?

Rian Johnson (RJ): Innanzitutto ti ringrazio per il complimento. In effetti, ho cominciato a elaborare la sceneggiatura del mio primo film sette anni fa e ho impiegato tutto questo tempo per portarlo alla luce perché ero impegnato nella ricerca del denaro per farlo. È un progetto anomalo, non è stato facile convincere delle persone a impegnarsi nella sua attuazione. Alla fine ho trovato le risorse attraverso i miei amici e la mia famiglia quindi il budget disponibile è stato ridottissimo. Nel frattempo, in questi anni, oltre ad aver cercato di portare a termine Brick, ho fatto vari lavori per potermi mantenere.

MC: Con il passare del tempo è cambiata molto la sceneggiatura iniziale?

RJ: Veramente no e questo è un aspetto interessante. Ho compiuto una prima profonda revisione durante la quale ho aggiustato degli elementi che sono serviti a farla funzionare meglio, però se mettessimo uno di seguito all’altro tutti i disegni dello storyboard che ho completato sette anni fa e li confrontassimo con quello che è il film finito, potremmo notare che corrispondono perfettamente. È una storia classica, quindi non ho dovuto apportare grossi cambiamenti connessi all’attualità.

MC: Nella lunga attesa avrai sicuramente potuto vedere molte detective stories. Ne hai utilizzata qualcuna come fonte d’ispirazione per il lungometraggio?

RJ: Ad ispirarmi non sono stati tanto dei film quanto i libri. In particolare mi sono rifatto ai romanzi di Dashell Hammett, famoso per aver scritto Il falcone maltese e Raccolto rosso (conosciuto in Italia anche con il titolo Piombo e sangue, ndr). Molti lungometraggi appartenenti al genere della detection derivano dalla produzione di questo autore. Quando anch’io ho letto le sue storie sono rimasto metaforicamente trafitto, le ho amate molto. Mi hanno dato notevole ispirazione. Non ho voluto rivedere nessun lungometraggio perché temevo che se l’avessi fatto avrei inevitabilmente imitato il loro stile. Magari avrei realizzato qualcosa di brillante, ma sarebbe stata comunque una copia. Ho fornito il copione agli attori, nessuno di noi ha visto alcun tipo di detective story e ci siamo interrogati insieme su come avremmo potuto realizzare la nostra opera in maniera inedita. Abbiamo cercato un tono fresco e originale.

Immagine articolo Fucine Mute

MC: L’influsso della letteratura si sente moltissimo nei dialoghi. I personaggi, infatti, non parlano in modo colloquiale, come farebbero le persone comuni. Contemporaneamente mi colpisce l’uso dello slang. Come hai conciliato questi due elementi?

RJ: Sì, lo slang è ampiamente presente. Per me era importante che i protagonisti avessero un loro specifico linguaggio. Coloro a cui ho sottoposto la sceneggiatura proponendogli di finanziare il film mi hanno ripetuto che i dialoghi erano divertenti ma tutti mi hanno chiesto se i personaggi avrebbero dovuto per forza parlare così. Secondo me questa scelta era determinante. Quando sei ragazzo e frequenti ancora il liceo, è fondamentale possedere un proprio modo di parlare. Basta vedere la cultura Hip-Hop, dove l’uso di un gergo serve esattamente a definire il “noi” rispetto al mondo degli adulti. Ho ritenuto necessario che ci fosse questo aspetto, però non pensavo ad uno slang moderno. Volevo che la lingua potesse creare un suo mondo, quindi ho selezionato delle parole che risalgono agli anni ’20, ’50 o ’70. Ho recuperato questi vocaboli e li ho impastati insieme per definire un linguaggio originale.

MC: Nelle tue note di regia ho letto che hai realizzato anche l’editing del lungometraggio. Come si è svolta questa parte della produzione?

RJ: Non riesco a pensare di potermi occupare di un film in un modo diverso da questo. Mi piace realizzare di persona l’editing del mio girato. Per fare questa operazione ho semplicemente usato il mio computer Mac stando da solo nella camera del mio appartamento di Los Angeles. Il processo di montaggio ha rispecchiato la fase di scrittura della sceneggiatura. Mi alzavo presto al mattino e mi mettevo all’opera. È stato molto naturale. Ho amato moltissimo questa attività. Alcuni registi mi hanno parlato di quella che secondo loro è l’importanza del ruolo dell’editor per poter contare su una prospettiva esterna. Posso capire questo punto di vista, però mi sono talmente divertito col mio lavoro che non l’ho voluto dividere con nessuno.

MC: La musica di Brick, di cui ho scoperto che l’artefice è tuo cugino, è molto particolare. Come vi è venuta l’idea di impiegare pentole e posate per produrre degli effetti?

RJ: Diciamo che è stato lo stesso processo che è valso per tutto il film. Non avevamo intenzione di utilizzare la musica che classicamente viene adoperata per una detective story. Volevamo usare degli oggetti di recupero o strumenti non musicali per evocare un impasto simile a quello che realizza Tom Waits nei suoi album. Nathan, che ha composto la colonna sonora, si è servito di lattine di birra, di bottiglie di whiskey, ha appoggiato degli oggetti sulle corde del pianoforte, ha lanciato delle lampadine contro il muro. Tutti questi rumori montati assieme producono un’armonia molto particolare. Come il resto del progetto, la musica è unica, sono felice che la si noti. Può piacere o meno, però mi fa piacere che non lasci indifferenti.

Immagine articolo Fucine Mute

MC: Devo dire che i rumori balzano proprio all’orecchio. Mi hanno ricordato molto l’uso che ne fa il fumetto. Hai usato anche i comics come fonte d’ispirazione?

RJ: Quando penso ad un bel esempio di “sound design” mi vengono in mente proprio i fumetti. Le onomatopee danno subito il tono giusto, soprattutto dove ci sono scene di combattimento oppure degli inseguimenti. Amplificando i rumori volevamo creare lo stesso effetto di simbiosi presente nei comics o nei film muti di Buster Keaton e Charlie Chaplin, dove tutto è un insieme.

MC: In effetti anche l’attenzione che presti ad alcuni oggetti, come il braccialetto, rimandano ai fumetti.

RJ: Specialmente se la trama è così complessa è importante, secondo me, che ci siano dei punti di riferimento, dei simboli riconoscibili. Quando l’attenzione dello spettatore viene portata su dei dettagli rendendoli riconoscibili, come accade per il braccialetto, il bigliettino dell’appuntamento o gli occhiali di Brendan, la storia può essere seguita con più facilità.

MC: Come mai nel film ci sono quasi esclusivamente i ragazzi? I genitori non si vedono mai e gli unici adulti che compaiono sono il preside e la madre di uno di loro.

RJ: Anche questo rimanda ai fumetti. Pensa ai Peanuts, a Charlie Brown. Anche lì non ci sono i grandi. Sembra una coincidenza, ma le ragioni sono le stesse. Se presenti degli adulti, automaticamente lo spettatore legge la vicenda dalla loro prospettiva. Noi non volevamo assolutamente che accadesse ciò. Ho scelto di immergere completamente il pubblico nella stessa situazione in cui si trovano i ragazzi, adottando il punto di vista di Brendan. È intenzionale che ci siano pochissimi genitori in Brick.

MC: Nel sistema di censura rappresentato dalla MPAA Rating, il tuo film è stato bollato con la lettera R (Restricted, ndr). Te lo saresti mai aspettato e ritieni che questo possa essere un problema per la distribuzione del film?

RJ: Quando stavamo realizzando Brick non mi è mai passato per la testa questo punto, forse perché ho sempre immaginato che sarebbe stato un R. Mi va bene anche così. Credo che sia un’opera che i ragazzi potranno scoprire anche più avanti non importa se al cinema o in dvd. Non faccio distinzione fra giovani e adulti, penso che questo sia un film adatto a chi ama le detective stories o le avventure complicate, sia che abbia sedici o trent’anni. Non sono preoccupato dalla classificazione della censura. Coloro che vorranno, troveranno un modo per vederlo.

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MC: Il lungometraggio ha partecipato al Sundance Film Festival, dove tra l’altro ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria per l’originalità, ed ora è a Venezia. Cosa rappresenta per te questa esperienza?

RJ: Per me i Festival sono molto importanti. Come appassionato di cinema guardo sempre cosa queste manifestazioni individuano, cosa premiano, come reagisce il pubblico e poi vado a vedere i film selezionati. Sundance ha significato l’anteprima per Brick, mentre a Venezia è stata la prima volta che l’ho portato nel continente confrontandomi con un pubblico europeo. Ero ansioso di vedere come sarebbe andata, sono consapevole che il futuro del film dipende da questo.

Fucine Mute ringrazia Beatrice Biggio per la sua generosa collaborazione come interprete.

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