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Cinema

Massimo Andrei

Le piume e il Desiderio

Il sole e i colori Napoletani sbarcano a Venezia assieme a Massimo Andrei e al suo film Mater Natura. Storia d’amore infelice tra il transessuale Desiderio e l’aitante Andrea, già promesso sposo ad un’altra donna, il lungometraggio d’esordio del regista teatrale partenopeo sceglie l’iconografia transgender come originale rifiuto all’omologazione contemporanea ed immagina un agrifuturismo alle pendici del Vesuvio dove Desiderio ed il suo gruppo di amiche possano sfuggire allo sfruttamento della città e superare l’incomprensione con chi le ritiene diverse.

Immagine articolo Fucine Mute

Michela Cristofoli (MC): Siamo qui assieme a Massimo Andrei regista di Mater Natura, unica opera italiana presente alla XX Settimana della Critica. Ho letto nelle note di regia una tua analisi molto interessante sulla figura del femminiello paragonata a quella del transessuale e del travestito. Le tue considerazioni riguardano anche l’evoluzione della società in rapporto a questi diversi modi di essere. Ce ne puoi parlare?

Massimo Andrei (MA): In realtà Mater Natura non intende diventare un film antropologico. Può essere visto tranquillamente e senza annoiarsi dalla signora di settant’anni così come dal bambino di dieci. Quando si sente parlare di analisi sul femminiello, un diverso nell’identità sessuale, si può essere portati a pensare che il nostro intento sia stato quello di realizzare un reportage imitando Piero Angela. Non è stato così. Il film è una storia d’amore. Il protagonista Desiderio ha una connotazione incerta, ed in effetti, assieme agli amici-amiche di cui si circonda rappresenta una realtà napoletana ormai quasi in via di estinzione che è quella dei femminielli. Queste figure sono senz’altro differenti dai gay di cui si sente sempre più spesso parlare. Il gay è frutto della civiltà occidentale e urbana, invece il femminiello è un volto antico nella civiltà mediterranea ed è presente in molta letteratura napoletana. Nello specifico sociale è una figura indefinita, a metà tra l’uomo e la donna, spesso appartiene agli strati più umili e poveri, ed è stato il depositario in qualche modo della cultura popolare e di tanti costumi antichi. Possiede quasi un lato esoterico ma ha anche rappresentato spesso la persona di fiducia a cui chiedere consigli o domandare piccoli prestiti. È stato sempre molto integrato nel quartiere, nel palazzo. Ha costituito, quindi, per lungo tempo un centro d’aggregazione sociale. Dopo la metropolizzazione che ha fatto seguito al terremoto degli anni Ottanta, nel napoletano la realtà di quartiere si è disintegrata. La città è diventata sempre più turistica e si sono frantumati quei contesti che accoglievano il femminiello. Fioriscono i gay griffati che dominano nell’economia, nel commercio, nel design, nella televisione. Il gay è un vincente, non una figura rappresentativa, dolorosa e colorata come il femminiello del passato. Il transessuale è ancora un’altra cosa, rappresenta un momento successivo, così come il travestito. Non sono i succedanei del femminiello, che forse esiste ancora in alcuni quartieri, in certe realtà magrebine, dove è l’unico che può avere accesso nell’harem, o nella definizione del mariquito spagnolo. Queste realtà mediterranee ancora lo comprendono. Il travestito, il transessuale non è la sua evoluzione, e nemmeno il gay.

Immagine articolo Fucine Mute

MC: Nell’incontro con il pubblico i tuoi attori hanno parlato di una sceneggiatura molto rigida, ma vedendo il film il ritmo, l’esuberanza e la fantasia della recitazione farebbero pensare piuttosto al contrario. Come hai conciliato questa apparenza di improvvisazione, data dall’immediatezza e dalla spontaneità dei dialoghi, con la parte letteraria ed i riferimenti ad Annibale Ruccello?

MA: Io mi sono laureato con una tesi sulle opere di Annibale Ruccello e questa è una materia che oltre ad aver studiato ho anche praticato prima come attore e poi come regista di teatro. Per quanto riguarda la scrittura dei dialoghi e la commistione tra Ruccello e lo stesso Enzo Moscato, che ha avuto un importante ruolo come drammaturgo prima che come attore del film, devo dire che mi sento figlio degli anni ’80 e di questi autori che hanno sviluppato la loro narrativa in un’epoca contrassegnata da una produzione dell’outing del dolore prima che dell’identità. Mi affascina il loro modo di tirare fuori la sofferenza e gridarla con le piume, con la musicalità e con i colori. Moscato ha sicuramente usato delle tinte più crude però ha mantenuto sempre una delicatezza a cui ho voluto rifarmi nei dialoghi del mio lungometraggio. La sua scrittura è soffice e garbata, anche se le storie possono avere dei risvolti cruenti, sanguigni e anche molto jeangenettiani. Amo la sua leggerezza e levità nel trattare la diversità. La scrittura cinematografica, invece, è per me un punto d’arrivo. Io sono partito dalla scena teatrale ma amo l’arte contemporanea, in particolare la fotografia, e sono affascinato dalle possibilità del guardare. Avendo a disposizione la forza di dialoghi convincenti e impiantati in una visione di colori come quelli di Mater Natura sorge inevitabilmente il desiderio di fare cinema. Io mi permetto di parlare così apertamente ma spero di non risultare presuntuoso. Devo anche confessare che sono stato molto felice degli apprezzamenti che il film ha suscitato sia sul piano della sceneggiatura che su quello degli elementi visivi, delle inquadrature. Mi hanno rincuorato e mi fanno pensare di aver realizzato un lavoro discreto.

MC: Prima descrivevi alcuni luoghi di Napoli, mentre Moscato nel film parla di “figure ctonie”. Mi è sembrato che tutti i paesaggi che hai dipinto nel film rappresentino la porosità che contraddistingue la città. Li hai scelti pensando proprio a questa caratteristica?

MA: Napoli non è mai presentata in modo oleografico, si possono notare alcuni angoli che permettono di individuarla e distinguerla da Viterbo o Pavia. La città si riconosce anche da una signora che passa, da un muro fatto in un certo modo, dal colore del cielo e certamente in alcune immagini si vede il Vesuvio nella sua imponenza. Ho ripreso alcuni degli ambienti più duri, che sono quelli dove la protagonista si prostituisce, ma li ho avvicinati a paesaggi solari e colorati. Vorrei sviluppare una tecnica che amo molto che consiste nell’affiancare il drammatico e il comicissimo, creando un abbinamento costante tra i due elementi. Anche nella scelta delle location ho cercato di realizzare questo passaggio alternando i luoghi bui e tristi frequentati da Desiderio a quelli luminosi dell’agriturismo che ad un certo punto viene gestito dal gruppo. Questo “agrifuturismo”, come dice Enzo Moscato, che loro si inventano alle falde del Vesuvio è un territorio simbolico a metà tra la femmina montagna pericolosa che partorisce lave di fuoco e il mare che invece è un dio maschio e calmo. Quindi in mezzo a queste divinità che se si irritano fanno paura a tutti si inserisce proprio il femminiello napoletano. Una figura ctonia, sempre a metà.

Immagine articolo Fucine Mute

MC: Come ti sei trovato a lavorare con degli attori che hanno compiuto dei percorsi così diversi? Penso all’esperienza di Enzo Moscato o a quella distantissima di Vladimir Luxuria.

MA: Nella comprensione reciproca e del progetto è stato semplice. Naturalmente abbiamo dovuto dedicare un certo tempo per tradurre la sceneggiatura attraverso la recitazione però tutti capivano esattamente quello che volevo realizzare. La storia non è stata solamente appresa in modo indifferente, ciascuno l’ha sentita intimamente perché appartiene a questa terra. Come se fossero già intonati, gli attori riuscivano a inserirsi in questo andamento che fondamentalmente è un suono di sentimento e solarità, non nel senso oleografico ma carnale del termine. Il sentimento che domina il film, secondo me, è universale perché credo che indipendentemente da dove viva e da alcuni aspetti esteriori, l’umanità sia sempre la stessa, alcune caratteristiche intime e sostanziali sono comuni.

MC: Oltre che dai colori guardando il lungometraggio si resta avvolti dalle musiche. Come sono nate?

MA: La colonna sonora, a parte tre pezzi editi, è affidata a Lino Cannavacciuolo che collabora con me già da diversi anni ed è un esponente di questa corrente della world music che attualmente sta avendo molti riscontri. Molte delle sue composizioni sono state pubblicate da Buddha Bar. Oltre ad essere un compositore è anche un ottimo musicista, suona molto bene il violino, ed è davvero intonatissimo. Nei suoi pezzi riesce ad esprimere una Napoli passionale e carnale che risulta però estremamente contemporanea. Inevitabilmente affonda le mani nella tradizione partenopea ma vi aggiunge la contaminazione con suoni arabi e balcanici che secondo me lo rendono quanto di più moderno e sanguigno ci sia in questo momento. Con lui lavorare è bellissimo. Quando abbiamo realizzato dei progetti assieme, io scrivendo i testi e lui le musiche, non abbiamo avuto bisogno nemmeno di dilungarci in troppe spiegazioni. Di solito accade che gli racconto delle situazioni, degli sguardi o gli leggo stralci di quanto sto scrivendo e qualche giorno dopo vado da lui e mi fa sentire dei motivi che riflettono puntualmente lo spirito del progetto. Vorrei cogliere, invece, l’occasione per esprimere lo sforzo produttivo che chi ha creduto in questo film ha sostenuto affrontando molte difficoltà anche per riuscire a presentarlo a Venezia. Il produttore ha voluto che qui, oltre al regista che di solito è l’unico ad essere invitato ufficialmente dal festival, ci fossero tutti gli attori e le varie figure professionali che hanno partecipato con grande affetto a Mater Natura, magari non guadagnando tanto o addirittura nulla, ma volendogli bene. Devo ringraziare Umberto Massa e la Kublai Khan che ancora devono rientrare delle spese sostenute per questo lungometraggio.

MC: Speriamo allora che si riesca ad avere presto un distributore.

MA: L’ho già trovato, proprio in queste ore. Abbiamo un distributore per l’Italia e uno per l’estero, e non vedo l’ora di sapere quando il film uscirà nelle sale e soprattutto in quante copie.

Immagine articolo Fucine Mute

MC: Napoli ha fama di essere una città molto difficile, però in questo momento sembra essere molto attiva, soprattutto in ambito teatrale grazie al Mercadante e al Nuovo teatro Nuovo. Tu come ti trovi a lavorare sul campo?

MA: Hai detto bene, Napoli è una città difficile, e temo lo rimarrà, perché secondo me i grossi investimenti non vanno fatti curando i marciapiedi o restaurando i portoni dei palazzi, ma nella pubblica istruzione e nella cultura. Solo così si riesce a cambiare la mentalità dei bambini e dei giovani dando un elemento di sogno, di evasione e facendo capire che la vita può anche essere dolce e non dominata esclusivamente dalla furberia e dalla risoluzione pulcinellesca dei problemi. Con la cultura riesci a far intravedere la possibilità della favola, dell’alternativa e puoi descrivere qualcosa di diverso dalla devastazione, dalla spazzatura e dal sangue. Su questo, purtroppo, non si investe nulla. Si dovrebbero fare venti ore di educazione civica alla settimana e il semaforo dovrebbe essere sostituito ai santi perché solo in questo modo si può trasformare coloro che rovinano la bellezza, il cuore e la poesia di Napoli, cioè i napoletani stessi, che io amo e odio contemporaneamente. Secondo me l’avvenimento sporadico non basta, sono necessari soprattutto interventi nella cultura. Ovviamente questi sono investimenti a lunga durata i cui meriti vanno all’amministrazione successiva che può raccogliere dei cittadini educati e rispettosi della legalità. I progetti a lungo termine, gli unici che possono cambiare una mentalità sbagliata, nessuno li affronta, perché pagano troppo tardi. È molto più comodo tirare a lustro la città subito. Perciò Napoli risulta difficile. Puoi anche mettere milioni di nuovi bidoni della spazzatura ma se non c’è una cittadinanza che sente di aver pagato questi contenitori, che perciò sono suoi e li deve rispettare come fossero un mobile di casa, in poco tempo non resterà nulla della spesa sostenuta, i bidoni verranno distrutti, rubati o bruciati, perché verranno ritenuti proprietà di altri.

MC: Un’ultima curiosità. Adesso ti godrai per un po’ il successo del film, ma hai già in mente qualche progetto, magari per il teatro?

MA: A teatro sto lavorando in uno spettacolo che s’intitola Frutti di mare. Si tratta di una favola sul mare dove si assiste all’incontro tra un polipo e due sirene. Le seducenti fanciulle acquatiche cantando cercano di irretire il polpo, rappresentazione del napoletano, che però, come Ulisse, resiste a questo tentativo di seduzione, passa oltre e persevera nella sua ricerca. In cosa consista questo cammino lo si scopre nella trama, però fondamentalmente è il desiderio di un miglioramento. Alla fine si capisce che le donne non sono altro che il meglio di sé. Lo spettacolo debutterà in inverno. Ho però un altro progetto che spero parta subito dopo Venezia e che consiste in un’operazione sul sociale e sul dolore, dove verrà fuori sempre lo spirito che mi caratterizza in cui risaltano i colori, i giocattoli, le piume e le canzoni. Sarà sicuramente più drammatico perché, senza fare riferimenti espliciti, come qualcuno ha detto: “Non c’è tanto da ridere adesso”.

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