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Percorsi

Universi in quattro giorni: l’Araucania (II)

Sulla strada che ritorna a Pucon, il cielo terso offre una visione del vulcano Villarrica davvero impattante, energetica, commuovente se si aderisce alla credenza del Pillan, l’anima segreta degli antenati di questo popolo fiero, che ha scelto sulle pendici del drago un’eterna dimora. Chiedo a Carlos ed Armando di condurmi alle sue falde. Una volta lì, si può discendere nei canali sotterranei scavati dalle eruzioni passate. La discesa nelle cave, rivela l’architettura impressa nel suolo e sottosuolo dall’energia magmatica. La forza dal centro della terra ha creato canali oscuri, intestini e budelli segreti.

Immagine articolo Fucine Mute

Il vulcano è regale, offrendo di sé una figura nobile ed altera, l’unica traccia visibile della sua forza dirompente è lo sbuffo di fumo, gas e particelle che si alzano a pennacchio, diluendosi nel tramonto. Quello sbuffo è un avviso, segnali dal vulcano più attivo del Sud America.
La sera, assieme a Carlos e Armando, riceviamo un invito a cena da parte di Olga Toro, Mapuche mestiza “moderna”, protagonista delle cronache regionali. Recentemente ha allenato, e portato alla vittoria del titolo, una coppia di ragazzi di Pucon, nel concorso nazionale di Cueca, svoltosi a Santiago. Nata ai tempi della tentata colonizzazione spagnola, la versione modernizzata di questa danza, può ben considerarsi il ballo tradizionale di maggior popolarità in Cile.
“Li ho solo educati al ballo, il mio lavoro è stato soltanto di “traduzione”. Abbiamo tradotto in ballo lo spirito e l’anima poetica del popolo Mapuche”.
Olga Toro è autrice di una poesia incentrata su una vicenda molto controversa. Un sacrificio umano operato da una Machi nel 1960, durante i terribili giorni di sisma e maremoto che colpirono l’incantevole regione Araucana.
La Machi, che parrebbe avesse presagito con anni d’anticipo la calamità, aveva preparato il sacrificio di un bambino, preparandolo fin dalla sua nascita, cogliendo in quella creatura una sorta di predestinazione divina. In quei giorni tremendi, il bimbo venne gettato da una scogliera in seno alle potenti divinità del mare che si quietarono repentinamente. I risvolti legali non si fecero attendere, la Machi venne accusata e condannata per infanticidio, senza peraltro pentirsi del drammatico atto, considerato tra la sua gente, null’altro che un rimedio naturale.
Olga considera il proprio poema come il frutto d’un lavoro difficile, moralmente ostico, scomodo, ma proprio per questo, legato a profonde indagini e meditazioni. Quel fatto di cronaca nera accaduto molto tempo fa, è divenuto stimolo d’analisi tra il mondo contemporaneo cileno e la realtà Mapuche: “Ancor oggi esiste un’enorme distanza tra questi due mondi. Da una parte, il mondo ermetico ed atavico dei Mapuche, incapace d’aprirsi al di fuori delle comunità rurali, dall’altra, il mondo civilizzato, poco interessato all’incontro, alla riscoperta delle proprie radici e al tempo stesso d’una mentalità superiore radicata nell’ancestrale: l’anima totemica”.
Mentre ascolto Olga Toro, sorvolo pindaricamente il simbolismo che mi offre, nel tentativo d’applicarlo ad un’analisi più generale della società odierna, cilena e non solo.
È come se in questo paese, proliferasse un’allergia reciproca tra cultura moderna, legata sempre più spesso ai vincoli di certe politiche economiche, e l’ermetismo atavico, tipico delle comunità indigene. Le parti, stentano a trovare un dialogo costruttivo sul piano sociale.

Immagine articolo Fucine MuteIn questa insana ed insanabile situazione, sono riassunte le difficoltà che rendono impossibile il dialogo e la comprensione reciproca — o almeno il tentativo di farlo — quella convivenza intellettuale, indispensabile per la crescita d’un paese che sia in grado di valorizzare motivi eterogenei. Ad una futura ed auspicabile maturità, non potrà che conseguire una presa visione poliedrica e plurietnica del corpus civico, dotato di un’intelligenza propensa a valorizzare le differenze come veri e propri patrimoni irrinunciabili, non certo come distanze incolmabili. Solo così, il confine si delimita come qualcosa d’invisibile che stimoli la curiosità tesa alla scoperta del diverso. I confini non vanno rinnegati a favore d’un senso di globalità, spesso propenso ad appiattire le micro-culture per sostituirle con il controsenso comune del consumo infinito… È un controsenso, semplicemente perché è impossibile da realizzare.
C’è bisogno di comprensione e dialogo, e se mi è permesso il termine, di un’antiglobalizzazione, d’una repentina rovesciata dei termini, d’una presa di coscienza rivolta alla frammentazione o nuclearizzazione dei valori.
Come si può sperare in un’evoluzione dello status, se perfino le municipalità locali si rivelano ottuse e poco sensibili ai problemi che gli competono, riducendosi a far poco o niente per la valorizzare delle tradizioni regionali? I bambini cantori di Carilefu, solo nel giugno 2004 hanno ricevuto l’appoggio dell’Unesco, non per volontà d’un organo regionale o statale, ma soltanto grazie alla buona volontà di certi individui dalla fede Chisciottiana… Carlos Gray, Ilse Sinpfendorfen.
La vittoria nazionale d’una giovane coppia Araucana nel ballo della Cueca, è stata la naturale conseguenza d’una volontà di “traduzione delle tradizioni” tutta anima y core in Olga Toro, piccola ed energica Mapuche… non di altri organi!
Si fa davvero poco, troppo poco in giro per il mondo, a qualsiasi livello di potere e latitudine, per salvaguardare i valori, e di conseguenza i patrimoni umani.
Il concerto delle municipalità della regione di Pucon, ad esempio, sembrano molto interessate alla costruzione d’una teleferica che raggiunga la sommità delle Torri di Quelhue, e conseguente costruzione — lassù — d’un ristorante panoramico. Per capirsi: le torri di Quelhue sono i rilievi dove Eduardo e gli amici Machi passano i giorni a raccogliere erbe e sostanze magiche (magiche soltanto perché ricche di conoscenza e tradizione secolari).
“La resistenza ad oltranza di Eduardo, di Olga Toro, di Armando o di Carlos, non potranno resistere ancora per molto” — mi confida il marito di Olga — “Ormai tutto è già deciso, e molto in alto anche… a Santiago! Una teleferica ed un ristorante non si capisce a chi possano interessare in luogo talmente defilato turisticamente, eppure non c’è dubbio che la cosa si farà! Alla faccia di Eduardo e dei Machi… Le erbe? Che se le vadano a cercare da qualche altra parte!”
La combriccola, tra l’assado, i chori-pan ed il vino che scende giù, s’infiamma e si fa pirotecnica. Come non approdare, allora, al tema della letteratura, che a molti dei presenti in casa di Olga, sta davvero a cuore. Si finisce per riflettere, a voce alta e cuore aperto, circa l’aumento degli scrittori “dilettanti”, delle “cause perse”. Invece d’ambire alla pubblicazione, gli autori scelgono di rimanere inediti. Vi è totale sfiducia nei confronti delle case editrici, sempre più spesso identificate come “grandi magazzini” del mercato commerciale, catene di montaggio di una cultura alla moda, piuttosto che fucine e scuole di pensieri altamente etici. Ciò che è difficile individuare, è il canale alternativo da utilizzare, in modo da alimentare filosofia etica, piuttosto che un’intellettualità politico/religiosa di bassi profili ideologici.

08.12.04 Parque Huerquchue — III° giorno 

Immagine articolo Fucine MuteAssieme ad Armando, parto alla volta di una riserva naturale, un luogo dove le Araucarias hanno centinaia d’anni, alberi secolari considerati i dinosauri viventi del mondo vegetale. La giornata limpida, è dominata da un azzurro carta da zucchero, sgombro di nubi. Entriamo nel parco rigorosamente a piedi, recuperando i punti salienti delle discussioni tirate in ballo ieri, nell’assado di Olga…
“In Europa — sostiene Armando — si ha la sensazione che tutto ormai sia stato fatto e teorizzato, fin troppo pianificato, come se ci si trovasse sulla cresta di una curva sinusoidale, che destinata a ribassare la propria qualità della vita, conduca irrimediabilmente ad un nuovo medio evo. Da noi, come avrai notato, molto è ancor giovane, spesso vergine, da fare, da partorire”.
È solo una battuta quella d’Armando, eppure la si riscontra persino camminando nel parco di Huerquchue, uno dei tanti patrimoni naturali cileni. Basta allungare il passo e staccare il manipolo di turisti che restano alle calcagna, per sparire nei meandri vividi ed incontaminati dei boschi, veri e propri musei botanici. Alberi giganti dai nomi e silenzi misteriosi, gli Arrayanes e i Coihues scortano il cammino, creando spazi tra prati verdissimi dove s’incastonano cascate roboanti. Gli alberi dal fusto altissimo permettono morbidi giochi di luci ed ombre tra i rami, mentre il silenzio è pervaso da infinite piogge di foglie e fiori, seccati nel calore dei primi giorni primaverili. L’unico neo, a queste latitudini, è rappresentato dal buco dell’ozono, purtroppo molto accentuato, e non certo per colpa o merito di chi vive qui!
Ci aspettano mille metri di dislivello. Decidiamo d’affrontarli con calma meditativa. Lungo i sentieri, gli scheletri immensi dei Coihues, sbiancati come ossi di seppia, sembrano alabarde od arpioni a caccia di cielo. Saliamo di quota, senza fretta né sforzo, lasciandoci sorprendere dai funambolici disegni che le chiome degli alberi secolari, spatolano nell’azzurro. È impossibile non cogliere l’aura energetica di questi giganti. Mossi dal vento, scricchiolano simili a bastimenti alla fonda. Quando aprono le fila, schiudono di fronte al viandante la bellezza sontuosa dell’Araucania, fatta di rocce a sbalzi e precipizi, dove cascate d’acqua sembrano separare gli schieramenti delle prime Araucarias, amanti delle quote che superano i 1200 metri. Somigliano a guerrieri, fieri di quelle acconciature silvestri, tanto simili a meduse o serpi sempreverdi. Si schierano sugli strapiombi a difesa del bosco, dei suoi miti e limiti segreti.
Ma tra tutto ciò che sa d’animistico, chi si staglia su tutti è il Villarrica, il vulcano dragone. Fiero nel suo manto di neve e ghiacci, sbuffa da lontano la sua presenza totemica. Si defila in lontananza, oltre la valle ed il lago Tinquilco, tanto blu, da sembrare perfetto. Ci siamo arrampicati con Armando, con fatica, fin dove le Auraucarie spianano come per magia il cammino, inventando un altopiano. Punto che diviene limite netto delle acque… giù, saltano impetuose sbranando rocce, legno e terra, quassù, rimangono quiete e cristalline, specchi offerti al culto vanesio degli alberi tentacolari e dinosauri, ma pure fondali trasparenti per i nobili decaduti. È come camminare in paradiso. Tra sbalzi d’acquitrini, laghi verdi e lagune caleidoscopiche, le Auraucarias millenarie rivestono fusti e braccia di licheni, che Armando assicura curino e prevengano alcune forme di cancro. Ne cogliamo alcune manciate… con tutto quello che mi fumo io, non si sa mai!
Se all’andata ce ne siamo venuti su mimetizzando l’affanno con la meditazione, in discesa rimaniamo in silenzio, quasi subissimo la cacciata da un olimpo.
Senza nemmeno parlarci ritorniamo al principio.
Armando è attratto dai salti delle cascate, appena può ci s’infila quasi sotto e riflette sulla vita… io non riesco a mollare lo sguardo dal Villarrica. È magnetico! Cerco di seguire i segni del suo impeto incessante, chissà se i suoi segnali di fumo siano conseguenza d’un fuoco sacro?
Che manca a questo vulcano per poter volare? Solo le ali! Sorte regale d’un vulcano dragone volante, abbarbicato su un nido di nevi ghiacciate.

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A cena con Ugo Moreno

Ugo Moreno, nato a Vina del Mar (Cile) nel 1947, d’origine inglese, tedesca, araucana, è direttore dell’associazione mondiale di vulcanologia. Pur non essendo dell’anno del drago, è un tipo energico e schietto, gran chiacchierone, vera manna per un reporter. Quando con Carlos ed Armando giungiamo al ristorante dove abbiamo fissato la cena, lui è già li, a smanettare su due computer portatili. Ci accomodiamo ad un tavolo da sei, giusto in tempo per sentirlo partire: “Credo che l’amore per i vulcani mi sia nato all’età di cinque anni, quando vulcanologia e geologia in Cile, non si sapeva neanche cosa fossero”. Ascoltando la sua prima battuta, mi viene una domanda che sa d’esoterico: “Secondo lei, esistono caratteristiche comuni tra i popoli che abitano i dintorni d’un vulcano?”. Per un attimo, sembra più interessato all’agnello con purè e al Cabernet — Sauvignon che abbiamo ordinato, ma poi, con aria schietta ribatte: “Certo! Gli uomini contrariamente agli animali sono stupidi, perché sembrano dimenticare le informazioni delle generazioni precedenti, siano esse genetiche o storiche. È incredibile la distinzione netta che esiste tra il comportamento degli uomini e quello degli animali. I discendenti, alla terza generazione, d’una qualsiasi città rimasta distrutta per eruzione vulcanica, dimenticando la storia o l’informazione tramandata di quella tragedia, vanno a ricostruire la città nel medesimo punto di prima, quando basterebbe spostarsi di cinquecento metri per ritenersi al sicuro! Ma ciò che è misterioso in tali situazioni, riscontrate con una percentuale di novanta casi su cento, sta nel fatto che il vulcano rinnova la sua sfida non appena gli eredi di quella calamità, se la sono dimenticata! Gli animali si comportano diversamente. Le mucche non escono a pascolare, gli uccelli né volano né cantano… avvertendo l’evento, si salvano. Come testimonianza personale, potrei portare ad esempio gli huemules, una specie di cervo selvatico in via d’estinzione che assieme al condor, è l’animale simbolico del Cile.

Nel 1974, l’eruzione del vulcano Watson, distrusse una zona vastissima di foreste, riducendo in cenere la cordigliera. Nelle settimane successive, non si rilevò alcuna traccia di vita tra quella desolazione, fino a quando le guardie forestali del Conaf, mi avvertirono d’aver avvistato dodici esemplari di cervo selvatico che s’aggiravano nei dintorni della zona calamitata. A quel punto, il branco fu osservato con attenzione, per capire come si fosse salvato da un’eruzione così terribile. Scoprimmo che per alimentarsi, i cervi riuscivano a scegliere le piante meno contaminate, ed una volta scelte quelle giuste, ci strusciavano contro per scuotere via le ceneri. Prima di mangiarne e ruminarne le foglie, le leccavano sputando la saliva sporca… lavavano le foglie, insomma! Avevamo di fronte un giovane branco privo di qualsiasi esperienza con un’eruzione. Quei cervi avevano assimilato un’informazione comportamentale, ereditandola da esemplari di generazioni precedenti, che come loro, avevano vissuto la medesima esperienza. Quell’ereditarietà genetica dell’informazione salvò la vita all’intero branco. C’è da notare che stiamo parlando di un animale stupido… se nelle prossimità di un dirupo è circondato e non scorge via di fuga, si suicida lanciandosi negli orridi. Gabriela Mistral, la più grande poetessa cilena, prima donna al mondo a vincere un premio nobel per la letteratura, più volte dimostrò il suo sdegno nei confronti di chi aveva scelto come simboli del Cile, quei due animali (Tra i tanti, due animali davvero inetti! L’huemul ed il condor: il primo, piuttosto che affrontare ostacoli e pericoli preferisce il suicidio, mentre l’altro si nutre di carogne!)”.
“Se consideriamo” — prosegue Moreno — “che gli stemmi raffiguranti quei due animali li usano soltanto i militari cileni, si può ben capire come in 130 anni di vita, a parte la campagna contro Perù e Bolivia, il nostro esercito abbia combattuto solo i mapuches, il popolo che avrebbe dovuto proteggere, annettendoli al Cile nel 1881, e durante il golpe”.

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Ugo Moreno dimostra tutta la caparbietà di un idealista, ma nel contempo, la praticità di una persona ben abituata a risolvere problemi: “È vero! In via generale, l’uomo si dimostra fondamentalmente stupido! Peggio degli huemules! Costruisce le proprie città dove sarebbe meglio non farlo. Si pensi ad Ercolano e a Pucon. Ma la cosa grave, è che non fa nulla per evitare catastrofi. Si attiva dopo, affrontando spese miliardarie. Per monitorare un vulcano è sufficiente installare un sensore sismologico che è mille volte più sensibile di qualsiasi percezione animale. Sapete quanto costa un’apparecchiatura del genere? 6.000.000 di pesos, il costo di un’automobile! Eppure, questa cifra ridicola, nessuno vuole affrontarla. In Cile, ad esempio, non tutti i vulcani ne sono dotati, solo in Araucania ve ne sono almeno una ventina. Il Villarrica, ad esempio, ne ha due, uno al cratere, ed uno alla base. Questo doppio controllo, permette la massima tranquillità. Rispetto ai colleghi che studiano i terremoti, noi vulcanologi siamo dannatamente fortunati: è quasi impossibile prevedere un terremoto, mentre un vulcano ha tutta una serie di attività controllabili che possono portarci a stabilire il momento critico dell’eruzione con grande precisione. Ciononostante, le municipalità locali fanno orecchie da mercante, scansando responsabilità e piani di sicurezza attuabilissimi.
Esempio: Dal Villarrica verso Pucon, scende un canyon naturale che allargato e reso più profondo, permetterebbe d’incanalare le alluvioni provocate dalle eruzioni. (sono il ghiaccio e la neve che ammantano il Villarrica il vero pericolo — mi spiega Moreno — se non fossero presenti questi due elementi, pronti a sciogliersi una volta a contatto con le alte temperature di un’eruzione, potremmo trasformare il vulcano in pura attrazione turistica, una specie di fuoco d’artificio permanente, o un amico con cui trastullarci.) La massa alluvionata, di norma viaggia ad una velocità di sessanta chilometri l’ora. Adeguando quel canyon, si potrebbe scaricarla nel lago che lambisce la città, garantendo una sicurezza totale. Invece i politici si oppongono e mirano a strategie turistiche. Considerano il lago un patrimonio d’affari, scivolando anche loro nell’assenza completa della memoria. Sarà che sono geologo, quasi costretto per deformazione professionale a misurare la storia della terra in ere, per l’appunto, geologiche.
In tempi relativamente recenti, l’intera zona dove ci troviamo era sommersa dalle acque. Il Villarrica era nient’altro che un’isola coronata da un lago che misurava otto chilometri di diametro. L’intera Araucania si presentava come un mare interno d’acque dolci ed è stato del tutto riempito dal materiale lavico ed alluvionale. Il lago Villarrica è comunque destinato a scomparire…
L’uomo progetta soltanto a breve termine, piuttosto che salvaguardare la vita delle persone e delle città, perché non si pensa a quali costi ci si costringe, se una città viene rasa al suolo? Non esiste prezzo che si possa valutare in questi termini, eppure…”.
Preso dalla curiosità chiedo a Ugo Moreno di citarmi i vulcani più pericolosi del mondo: “Sei italiano, vero? Bene, considera che uno dei vulcani più pericolosi, se non il più pericoloso in assoluto si trova in Italia, è il Vesuvio. Ogni volta che ci penso mi vengono i brividi. Ercolano, Torre Annunziata, la nuova Pompei, sono costruite proprio sulle pendici d’un mostro potentissimo. Le città nuove sopra, e sotto i resti di una catastrofe ben visibile, memoria visibile. Sono a conoscenza d’un progetto dello Stato che sta tentando di comprare il terreno dai privati per poterlo dichiarare non edificabile, spostando le proprietà di chi vende da qualche altra parte. Per il Vesuvio, come per qualsiasi vulcano, esiste chiaramente un piano d’evacuazione. Bene! Si è valutato che il solo preavviso pubblico di un’imminente eruzione, porterebbe alla morte, nella sola zona di Napoli, di circa seimila persone in meno di dieci minuti… incidenti, panico, colpi apoplettici. L’evacuazione, in caso d’eruzione del Vesuvio, comporterebbe costi impressionanti. Si può anche comprendere l’impasse d’una municipalità messa di fronte alla mancanza di capitali adeguati alla possibile emergenza, più grave, è l’omertà dello Stato, radicata sin nei dipartimenti preposti alla salvaguardia del territorio. L’ENPO, ad esempio, ente nazionale per la protezione civile cilena, raccoglie soltanto cadaveri, senza fornire risposte adeguate”.

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Seguendo il discorso di Ugo Moreno, mi sorge il dubbio che gli esperti di vulcani, una volta attivati, finiscano per assorbire — in un certo qual modo — anche il carattere di questi esseri totemici… vulcanici appunto, eruttano concetti senza fine, senza dare la minima impressione di voler smettere. Così si definisce Ugo Moreno: inesauribile!
Ad un certo punto, quando finito il cordero con purè, passiamo al dolce, mi decido di cercare tra quel magma eruttato una qualche chiarezza, passando decisamente al tu (colpa dell’ottimo Cabernet-Sauvignon del quale ordiniamo una seconda bottiglia?): “Ti andrebbe di spiegarci, a grandi linee, quelle che sono le diverse caratteristiche dei vulcani, attivi, non attivi, pericolosi ed innocui?”
“Volentieri! Per quel che riguarda i vulcani terrestri, esistono vulcani attivi e vulcani dormienti… dormienti perché parlare di vulcano spento è sempre errato, in quanto il risveglio potrebbe avvenire anche dopo un lungo periodo d’inattività. Come si distingue un vulcano pericoloso da quello che non lo è? Da un punto di vista estetico, più sono belli, meno sono pericolosi. Quando la forma è una piramide perfetta, con le pareti ad angolo molto acuto, di solito siamo di fronte a vulcani la cui componente magmatica è basaltica, caratteristica non esplosiva della lava. Quando, al contrario, la sua forma è tozza, irregolare nella forma o con doppio cratere, siamo di fronte a vulcani la cui lava ha un’elevata percentuale di silicio che li rendono dannatamente esplosivi e di conseguenza pericolosi. L’Etna fa parte del primo gruppo, infatti si vanno a vederle, come a teatro, le sue eruzioni di lava. Del secondo tipo fanno parte il Vesuvio, mentre il Villarrica e Stromboli, ad esempio, sono una via di mezzo.
Ma a rendere pericoloso un vulcano, purtroppo, è l’amministrazione politica del territorio. Nel 1974 durante l’eruzione del vulcano Jarmina, ci si accorse che l’arrivo di un fronte alluvionale alto due metri, composto da acque, tronchi e detriti, viaggiando a 60 km/h si stava dirigendo verso un paese limitrofo al vulcano. Nelle vicinanze, esisteva un altro di paese che, contrariamente al primo, non era per niente minacciato. Ebbene, siccome esistevano accordi ben precisi con l’amministrazione ed il sindaco del paese non minacciato, ci obbligarono a salire su di un elicottero e correre ad avvertire dell’eruzione gente che non correva alcun rischio. Il paese in pericolo, invece, fu allertato soltanto quindici minuti prima del passaggio del fronte alluvionale. Ci scapparono dei morti, e fu per me una delle peggiori sconfitte: quando vedi anche un solo corpo giacere inerte dentro un fronte alluvionale, hai perso la partita. Punto e basta”. È l’unico momento della serata durante il quale Ugo Moreno si adombra, ma è solo un attimo, perché l’entusiasmo per i vulcani gli infiamma lo sguardo. “Ricordo perfettamente quel fronte. Mi misi su di un ponte a filmarne l’avanzata fino a quando non l’ebbi sotto i piedi. Fu un soldato dell’armata a trascinarmi via di lì a forza… Perché lo feci, ti chiedi? Perché sono gli unici momenti durante i quali puoi studiare il comportamento dei vulcani e le loro conseguenze, occasioni imperdibili, al fine di conoscerli meglio attraverso lo studio di prove certe, vive! Un successo che ricordo volentieri, fu la previsione azzeccata del vulcano Llaima, l’11-12-13 aprile del 2004, con ben sette mesi di anticipo! Un’eruzione si può prevedere, certo, ma non nella sua intensità”.
Alla fine, anche un uomo così energico, sebbene dolce e gentile, confida un certo avvilimento: “Si potrebbe far di tutto per aumentare i livelli di sicurezza, ma non lo si fa… ed è proprio la politica che prosegue ed insiste ad esaltare la stupidità degli uomini, divenendo la peggiore rappresentante dell’umano convivere… Io avverto, spiego, studio, ma a volte uno finisce per sentirsi l’anima pesante, simile e gemella, a quella dell’impotente Cassandra. Eppure, l’importante è continuare a fare ciò che si può!”.

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09.12.04 — Ascesa al vulcano Villarrica — IV° giorno

Dopo la splendida giornata di ieri, l’alba mi sprofonda nella delusione. Un cielo completamente coperto, sembra confermarmi per l’ennesima volta, una tradizione iellata: le ascese alle cime me le cucco sempre con il maltempo.
Sei del mattino: mezzi addormentati e con la mente persa tra fumi e nostalgie di un ottimo Cabernet-Sauvignon, a bordo di una Micro percorriamo la strada che fiancheggia il canyon citato ieri da Ugo Moreno. Abbandoniamo Pucon in una conca incolore, senza sole, d’altro canto, tutto è ovattato da un’uniformità grigia, lo stesso lago si riduce ad uno specchio d’antracite.
Alzando polveroni, le ruote mordono lo sterrato che infila boschi e pendici, violentate, lapidate e depilate da eruzioni, passate di qui come onde barbariche.
I segni che mi sfilano di fronte agli occhi finiscono per infondermi un dubbio tremendo: “E se i vulcani dell’Araucania non volessero aver nulla a che fare con me? Nonostante il segno del dragone nel mio oroscopo cinese? Nonostante tutto quel fuoco sagittario inchiavardato tra i pianeti del mio cielo natale? Proprio io, pura anima pitta? Che davvero sia così? Possibile?”
Pressoché sopraffatto da dubbi isterici, quasi “Chatwiniani”, a quota mille vengo colto per illuminazione, e quella gioia apparsa di colpo, restituisce buon umore all’intera combriccola della micro. Armando, da dietro, mi posa una mano sulla spalla sussurrando piano: “Chi potrebbe dire che un vulcano non possa volare? Che gli manca per farlo?”.
Le ali d’un drago, mi verrebbe da rispondergli altrettanto sottovoce, ma preferisco salvarmi la battuta per un’altra circostanza… tanto so che tornerà buona, prima o poi. La gioia nulla ha che vedere con strani misticismi di gruppo, si è semplicemente verificato un fenomeno atmosferico che trovo fantastico quanto inaspettato, geniale: il forte calore dei giorni scorsi, durante la notte ha sviluppato una fitta nebbia. Giù in valle lo si è scambiato per un giorno nuvoloso, ma superati i mille metri di quota e perforando quella coltre grigia, siamo riemersi in un azzurro metallico stravolgente, sottosopra, dove il Villarrica spunta, quasi fosse un’isola in mezzo ad un mare di nubi. La mancanza di riferimenti paesaggistici, lasciandolo da solo in mezzo al cielo, rende il nevato vulcano ancor più imponente, maestoso…
Voilà dov’era l’illuminazione, niente di mistico quindi, con il sole è riapparsa la luce e la gioia, nulla di più!
Sui 1340 metri dell’attacco al vulcano, sferza un vento sovrumano. Vestiamo le cerate, infiliamo le pedule, nell’attesa d’imbarcarci sulla seggiovia che dovrebbe risparmiarci il tratto senza neve, e tirarci su fino a quota 1800.
Manco per niente! Troppo vento per mettere in moto il marchingegno! Si va via di piedi, sin dall’inizio! Uno spigolo di terra friabile che sale di petto!
Con Armando, capiamo subito l’antifona e decidiamo di precedere gli altri. Fatica titanica, in quanto le pedule non sono il massimo su questo tipo di terreno. Spesso ad un passo corrisponde una scivolata in basso d’un altro mezzo, e così via, ma si va! Ci vuole un’ora per raggiungere la casa giallo e blu che delimita la fine degli impianti di risalita, da qui in poi, solo neve, solo lui, il vulcano gigante. Sono contento d’aver convinto Armando a venire con me, anche l’escursione di ieri al parco Huerquchue me la sono studiata per “farci la gamba”… eppure, dietro la reticenza del mio amico a farlo, ho captato l’esistenza d’una qualche stranezza.
Dai milleotto in su, mi ritrovo in una situazione ideale. Piccozza e macchina fotografica alla mano, affronto l’ascesa in modo del tutto privilegiato, né con il gruppo che mi precede, né con quello che mi segue… in solitaria, a contatto diretto e continuo con questo bestione che ci sopporta sul groppone. La cosa non è difficile; è sufficiente seguire le impronte di chi ti precede in fila indiana e godersi il paesaggio. Sono a contatto con un vulcano, finalmente! Rido da solo pensando che ci sto salendo sopra dopo averci girato attorno per anni!
Procediamo sul lato orientale del colosso. Camminare lentamente sulla neve rende l’uomo infinitesimale, ci si riduce a piccoli punti tesi verso la sommità del cratere, l’infinito, l’universo, immersi in una dimensione a doppia tinta, solo blu e solo bianco. Sorrido pensando alla casualità che li vuole colori tradizionali delle bandiere dei Machi, gli sciamani Mapuche.

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Quando mi fermo per guardarmi attorno, il paesaggio che si apre è pura sinfonia. In basso, le vallate sono ancora imbottite nella bambagia delle nubi, solo la Cordigliera Andina svetta all’orizzonte, leggermente scostata a nord-est. Tra noi e la dorsale della coda sudamericana, il terribile vulcano Llaima (in lingua Mapuche è il fosso per le fondamenta).
Immagine articolo Fucine MuteLa fatica è proporzionale alla voglia di giungere sull’occhio di questo essere totemico che dimostra la sua vitalità sbuffando vapori, di continuo.
Alle 11.30, dopo tre ore di cammino, la vetta sembra ancora inarrivabile. Già dopo la prima ora e mezza mi sono ritrovato in maniche corte e zaino pesante.
Il fatto d’essere completamente innevato, toglie dimensioni e profondità a questo gigante. Le distanze si trasformano in illusioni ottiche completamente appiattite dall’ambivalenza monocromatica dell’azzurro e del bianco; neve contro cielo.
Il gruppo che mi precede, salito per primo, sembra li ad un passo… Sembra, perché in realtà ha già mezz’ora di vantaggio sul mio andar tranquillo, per fortuna è un vulcano navigabile il Villarrica, basta impostare rotte semplici e lineari sul sestante, e misurare bene il passo.
L’ultima ora e mezza te la ciuccia il cono del cratere vero e proprio, non te ne avvedi, ma quando ci arrivi sotto, ti accorgi che è un muro capace di rallentarti i passi, rendendoli improvvisamente pesanti. (Fame!)
Scoprire che i panini ed il cioccolato li hai lasciati nello zaino di Armando, che segue ad un’ora di distanza, è ulteriore fatica. Cerco di rendere la situazione buona ugualmente, ironizzando su quella voglia ascetica, quasi spirituale, che mi ha messo sulle tracce di un’ascesa al vulcano, per anni. Eccoti accontentato bello mio, più spirituale di così… totalmente a digiuno! Solo acqua! L’ascesa nell’ultima mezz’ora diviene religiosa, nel senso del calvario. Il vento aumenta d’intensità, ribassando la temperatura di brutto. È necessario coprirsi con tutto ciò che si ha nello zaino, in modo da proteggersi dal freddo, e dal sole che con il riverbero diviene micidiale! I passi incedono sul ghiaccio. Decido di montare i ramponi, mentre la piccozza non entra facilmente, come prima, poche centinaia di metri più in basso. Le impronte di chi è già passato, assumono sfumature turchesi, mentre i cristalli di ghiaccio si fanno sempre più poliedrici… penso alla definizione algebrica di poliedro… luogo dei punti che appartengono ad un complesso geometrico… non so perché mi saltano in testa cose così, sarà la fame?
Gli ultimi cento metri sfiancano, ma raggiungere la cima a 2847, tra le prime dieci persone del giorno, infonde sensazioni raggianti, ti rendono radioso, forse per quel modo che ha un vulcano di trasmettere energia a chi gli capita attorno, ad un passo dal tuffo nel cuore che è il suo cratere.
Il freddo è terribile, anche con i guanti su ti si gelano le dita: un controsenso! Guardo giù file indiane di formiche, nient’altro che punti neri disseminati su una geografia candida ed abbacinante, sembrano fermi. Chi è già sopra, sparisce dalla vista in una fumarola sulfurea. Il senso della velocità perde significato su questo olimpo che ferma il mondo. Mi ero illuso di poter guardare dentro al vulcano, scorgerne, anche solo per un attimo, il fuoco sacro “prometeico”, quello che la vita, allo stesso modo, attizza negli uomini. (Se colta con questo taglio, come si fa a non credere al Pillan, l’unione degli spiriti Caciques con la grande anima Mapuche, che dimora nei vulcani?) Il magma si trova a soli sessanta metri sotto l’orlo del cratere, ma il semplice avvicinarsi a quel limite è un’impresa. Aspettando Armando, e i panini, mi dedico al periplo del Villarrica. Verso Est, proprio sul confine con l’Argentina spicca potente il Lanin, sorta di sentinella andina, tra i due è più basso, simile ad un cono mozzato, il Quetrupillan, nome decisamente Mapuche e cielo ancora limpido… ma dura poco. Con l’arrivo dei formicai umani, il titano sembra intimidirsi e decide d’avvolgere il cratere con nuvole giunte chissà da dove. I formicai sono decisamente chiassosi, non più punti neri, ma ognuno portacolore dell’agenzia che gli ha organizzato il tour e che li trasformano in squadre marziane giunte in cima assieme alle nuvole. Grida di gioia, commenti, foto di rito tra coloro che non hanno rinunciato all’ascesa… e ce ne sono molti che l’hanno fatto!

Immagine articolo Fucine MuteAd un tratto scorgo anche Armando, non sta nella pelle, ed anch’io nel vederlo (solo perché ha i miei panini?). Gli sembra incredibile trovarsi dove si trova… a me sembra incredibile che uno di Pucon, non sia salito — almeno una volta — in cima al vulcano che domina la città… giusto per percepire l’energia che trasmette!
Dopo un’ora di freddo, discendere è vera e propria liberazione. Sostare ad altezze divine, per il comune mortale, può risultare insopportabile. La coltre di nubi che separava pudicamente la dimensione dei viventi sulla terra e quella animistica dei guerrieri sul vulcano, si dissolve nel giro d’un quarto d’ora, proprio quando il formicaio invade i dintorni del cratere. Pura coincidenza?
Pucon, il Villarrica e i laghi, appaiono come riprodotti su una mappa vivente con vista aerea. La storia della discesa è una vera e propria sorpresa, una libidine! Le guide delle agenzie, sanno benissimo che a quest’ora del giorno la neve diventa friabile e farinosa…approfittandone, si sono inventati un modo geniale di far ridiscendere i mortali tra i mortali.

Oscar mi spiega che far scendere la gente a piedi, dopo un’ascesa così faticosa, provocava più incidenti che nella fase di salita. Le agenzie, decisero di munire ogni escursionista con una cerata rinforzata sul sedere, ghette guanti e berretti… chi sale sul vulcano, vi ci scende disteso, trasformando il proprio corpo in una sorta di slittino, di bob umano. La cosa è davvero entusiasmante!
Si fila via ridendo come ragazzini, lungo le “piste” disegnate nella neve da quelli che sono scesi prima. Si vien giù senza fatica — tutto grandioso — se non fosse per gli effetti collaterali del culo ghiacciato e degli indumenti fradici, nonostante la cerata. Si scende giù in poco più di un’ora! Ai 1300, ritorna il caldo.

Oscar Osses (35 anni) è una guida dell’agenzia “Sol y Nieve” che si è rivelata ottima, sia da un punto di vista umano, sia professionale. Un’abbondante mancia ed un Chop in compagnia mia e di Armando, diviene la conclusione più naturale della giornata.
Il racconto di Oscar, mi permettere di raccogliere nuovi punti di vista rispetto alla società cilena: Se si ammala o gli succede qualche incidente finisce per non guadagnare nulla, non esistono forme assicurative. C’è un’associazione delle guide turistiche, ma è molto caotica e poco organizzata. Il Conaf (corpo delle guardie forestali) fa pagare ad un’agenzia turistica, un pedaggio di 3300 pesos (circa 6 dollari) per ogni turista che visiti il parco nazionale del Villarrica, senza mettere a disposizione nemmeno un servizio igienico. La perlustrazione, cura e controllo del territorio, sono pressoché inesistenti. Ugo Moreno, lo conosce anche Oscar, e come ha fatto lui ieri sera, mi conferma le medesime afflizioni e perplessità che riguardano il rapporto con le istituzioni. La paga media di chi vive a Pucon, è di circa 100.000 pesos mensili (altro che un poliziotto di Santiago che si lamentava dei suoi 250.000)… chi lavora, spende circa 30.000 pesos mensili per il trasporto pubblico. Esiste una pessima educazione alimentare in Cile, poca educazione al moto (figuriamoci allo sport), ne consegue che il numero di persone sovrappeso è divenuto enorme, in continua crescita anche tra i giovani. Il modello di vita in Cile è decisamente nordamericano. Lo shopping è una delle attività più amate e ovviamente si acquista tutto a rate, indebitandosi a vita. Il cileno, quasi per assurdo, è il più difficile dei turisti (si parla di nuovi ricchi), la loro antipatia sfiora di poco quella che ispirano gli israeliani a zonzo da queste parti (chissà perché?).
Armando Zapata, è felice! Mai avrebbe immaginato un’ascesa al Villarrica, soprattutto dopo una malattia che per lungo tempo gli ha reso inutile l’uso delle gambe. Armando, pittore delicato ed intenso.
Dalla casa dei miei amici, il vulcano si staglia sul tramonto, adornato da un sombrero di nubi… segnale che domani pioverà di sicuro. La cena a base di piedini di porco, bistecche e pomodori, si rivela una “despedida” commuovente.

Immagine articolo Fucine Mute

Alle dieci di sera m’imbarco sul Coche cama “Pucon — Santiago”. La stanchezza felice dei quattro giorni di sole, mi sprofonda in un sonno ricco di sogni.
Come all’andata, il sonno decide di pescar nell’onirico inconscio, affiorando i ricordi del primo viaggio in Araucania…
Che notti passate sulle rive del lago smeraldino Todos los Santos, ai piedi dell’Osorno, a Petrohué. Il vulcano sembrò inesistente, avvolto com’era da nubi, matrigne di diluvi, che ci misero un niente ad imbarcarsi nella mia tenda, neanche fosse una lancia di salvataggio da affondare. Ore di pesca infruttuosa, altre passate a fissare le righe di pioggia sulle finestre di “casa Ruschel” dove ho sorbito i migliori caffè bollenti del Cile… mentre Pucon, suonava come il nome d’una fine del mondo alluvionale. E poi Valdivia (ad un centinaio di chilometri da lì, nel parco nazionale del Santuario, gli scarichi d’una cartiera, proprietà di potenti imprenditori stranieri, da anni sta decimando migliaia di cigni dal collo nero, specie in via d’estinzione), vivace ed autunnale città universitaria. Il viaggio a Panguipulli dove mi attendeva, come in un appuntamento al buio, una venditrice nana di pistacchi! Terra di eucalipti e maiali al pascolo, le rive del lago Calefquen, con la sua Lican Ray (fiore di roccia selvatica) ad ammirar nebbie e fumi. Si narra che Lican Ray fosse figlia d’un poderoso Cacique, tale Curilef.
Un mattino, mentre si asciugava i capelli in riva al lago, Lican Ray ammaliò di dolce canto un soldato spagnolo sperduto tra i boschi. I due s’innamorarono e per fuggire dai guerrieri di Curilef, vagarono d’isola in isola, accendendo fuochi e fumi per scaldare le notti amorose. Nessuno li trovò, mai più, ed ancor oggi si crede che i fumi confusi tra le nebbie autunnali, siano sempre quelli di Lican Ray e del suo soldato castigliano.
Panguipulli, con il suo autobus rosso a due piani, uno di quelli all’inglese! Due universitarie di Santiago, se lo sono guidato fin qui, per poi ancorarlo sulla darsena del lago Calefquén, in una strada senza uscita, trasformato in bar!
Che viaggio tra tempeste torrenziali fu quello della mia prima volta in Araucaria. Ingrigito dalla pioggia e dal sospetto che i vulcani non ne volessero proprio sapere di quell’accidente d’occidentale che navigava tra i diluvi! Più che un viaggio, fu un’interminabile scorrere di nomi su una carta geografica fin troppo umida: Villarrica e la sua torre Suiza, rifugio gestito da svizzeri ciclisti, Curacautin, La Suizandina, altro rifugio d’altri svizzeri rifugiatisi ai piedi del vulcano Lonquimay. Stufo di piogge ed ormai convinto d’essere maledetto dal Pillan Mapuche, accettai un passaggio in un Volkswagen sgangherato, da una bionda occhi verdi, tanto pazza da trasportare un lama alla volta della “Casa Cheuca” di Talca. Uscendo dalla valle, nuovamente a Curaucautin, in una rara tregua d’azzurro, vidi stagliarsi il Lonquimay e il Llama, quasi fossero il maschile ed il femminile d’una natura vulcanica rimasta invisibile per giorni. Pensai fosse un regalo d’addio! Un contentino!
Quasi tre anni dopo, quattro giorni di sole e l’ascesa al Villarrica, hanno rimesso le cose apposto. Ora dormo a cavallo d’un sorriso bambino: “Chi potrebbe dire che un vulcano non possa volare? Che gli manca per farlo?”. Le ali di un drago, farfuglio nel sonno, anima ancestrale che dimora nel Pillan dei caciques mapuches, ed in qualsiasi uomo della terra arso dal fuoco sacro.
L’occasione d’una battuta giusta, si presenta spesso prima di un lieto fine.

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