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Scrittura

Maurizio Maggiani

Il viaggiatore si ferma a Pordenone

Immagine articolo Fucine MuteArrivo di fronte all’ufficio stampa di Viale Vittorio Emanuele, alle tre d’un assolato pomeriggio domenicale. Venti minuti mi separano dalla prevista conferenza che Maurizio Maggiani terrà presso il convento di San Francesco.
Compresso tra ansia ed emozione, scorgere la figura di Maurizio pochi metri più in là, sembra un miraggio. Maggiani, per me, è un déjà-vu, e il riconoscimento improvviso lo interpreto come un segno del destino.
Alto e magro se ne sta dentro le braghe di viscosa grigie, tenute su da un paio di bretelle rosse che attraversano un girocollo a maniche lunghe color muschio scuro. Protetto da un paio d’occhiali tondi ed intellettuali, si stiracchia al sole con quella sua zazzera nera, capace d’infondergli un’aria di scapigliato d’altri tempi.
S’infila dentro l’ufficio stampa… e io dietro. Non c’è da perdere un minuto. Farfuglio qualcosa d’incomprensibile, lasciando perdere la storia dell’accredito. Ho preparato quattro domande riguardanti il suo ultimo libro… sufficienti, se si considera la bizzarra ritrosia con la quale Maggiani si esonera da qualsiasi citazione dei propri romanzi: è come se schivasse gli argomenti, a favore, invece, d’una mania per l’affabulazione, anche orale, come se del racconto fossero molto più importanti quei motivi di genesi, rintanati a monte.

Paolo Ghiotto Marin (PGM): Ci rivediamo, dopo l’incontro avvenuto a L’Avana nel 2000, dopo La fiera Mundial del libro che la capitale cubana dedicò alla letteratura italiana. La conferenza si articolò attorno al tema patrio. Ricordi? Da allora, mi è rimasto impresso un tuo pensiero: “L’Italia nacque come un popolo di marinai messi assieme da un re montanaro”. Oggigiorno che ne resta di quel popolo?

Maurizio Baggiani (MM): Non siamo più naviganti, anzi, nei riguardi dell’acqua nutriamo perfino un innaturale senso di timore. Le notizie che i telegiornali e la stampa ci offrono del mare, sono sempre imbevute di situazioni tragiche, una cronaca continua di vicende dolorose.
Di barche ne costruiamo poche, e di uomini che s’imbarchino ce ne sono sempre meno. Io ho sotto gli occhi l’esempio della mia Val di Magra. Gente che per secoli si è alternata tra il lavoro dei campi e quello nelle sentine delle navi. Conosco un ragazzo di Castelnuovo, il mio paese, che ha provato ad andar per mare, ma l’avventura è durata solo due anni. Ora preferisce far vedere alla gente che viene da fuori, quanto sono belle le cinque terre. A trent’anni è come se avesse perso la voglia di rischiare, qualità tipica dei marinai.

PGM: Ma non pensi che la sfiducia sia da ricondurre ad una reale mancanza d’opportunità, tipica del nostro tempo?

MM: Assolutamente no, non lo credo affatto. Il rischio non è mai relativo ad una situazione oggettiva. La voglia di mettersi in gioco, è sempre l’esito d’una scelta che matura dentro, suggerendo qualcosa d’imprevisto ed imprevedibile.

PGM: Perché sei sempre un po’ allergico, quando si tratta di parlare dei libri che scrivi?

MM: Perché le storie sono belle da raccontare così come vengono, indifferentemente se per iscritto o sottovoce. Una persona cerca emozione in un libro, intuendo per proprio conto magie e credibilità. Può trovarci quello che vuole, addirittura ciò che lo stesso autore non aveva nemmeno immaginato.

PGM: Che ne dici, se rischiassimo quattro domande sul Viaggiatore notturno? 

MM: Se il tempo lo permette, proviamoci…

Immagine articolo Fucine MutePGM: Il racconto, traghetta il lettore in atmosfere che approdano ad un senso quasi religioso della vita. Un uomo parte per studiare migrazioni di rondini nel deserto algerino, o quelle degli orsi nei boschi sloveni, per poi scoprire qualcosa di molto più profondo e denso. La storia aggancia anche la figura di Père de Foucould, che da soldato francese si convertì in mistico nella terra dei Tuareg dove fu ucciso.
Il riflesso del viaggiatore notturno, quanto rispecchia il percorso dell’uomo Maggiani?

MM: Parlare di religione, mi risulta un tantino aspro. I miei libri non sono soltanto il frutto dell’uomo che li scrive, ma pure di suo padre, del padre di suo padre, e della terra che li ha generati con un DNA del tutto particolare… Io provengo da una famiglia anarchica, e la mia giovinezza, come il resto della mia vita, si è sempre protesa, ad oltranza, verso una negazione di Dio.

PGM: Capisco, ma il termine “religioso”, in questo caso, lo intenderei in senso “greco” più che cattolico, quasi un archetipo…

MM: E questo ha forse senso? Gli Apui, contadini della Val di Magra, da secoli sono abituati a Dio. Succede ogni qualvolta aprono la porta di casa, se fuori c’è il sole è un Dio benedetto, ma se grandina quel Dio è una bestemmia. Noi del popolo Apuo non siamo di nessuno, da sempre. In antichità non avevamo né templi, né lingua, tanto meno scritture. Strabone ci definiva incrocio tra uomini e lupi, delle bestie insomma. Le legioni romane ci misero 170 anni per convincerci che eravamo una provincia annessa all’impero. L’ultima provincia della penisola annessa a Roma. Le stesse legioni combattevano malvolentieri gli Apui. Non avevano nulla, li inseguivano per poi accorgersi d’essere inseguite. Subivano dagli uomini lupi delle finte rese, le bestie consegnavano le armi ai romani fingendo la tregua, per poi procurarsele dai vicini celti… e la disputa si protraeva.
Roma non era un impero che applicasse politiche preventive. Roma era la storia, costruiva la storia: lex e diritto, i suoi principi. Cent’anni prima di Cristo esisteva un corpo di leggi che regolava le interazioni tra i popoli, ma oggi? La gente da cui provengo è nata sulla via Aurelia, la prima strada d’Italia. Nelle province assoggettate all’impero, parte delle tasse finiva in un fondo per gli orfani. Eppure nonostante i vantaggi offerti, le bestie non hanno mai accettato l’assoggettamento. Ad un certo punto Roma inviò le legioni umbre, a quel tempo formate da guerrieri prestanti e forti che massacrarono gli Apui, riducendoli in catene li obbligarono a lavorare nelle cave di zolfo del Lazio e della Campania. Roma si svenò per portare a termine quella campagna, soltanto per dimostrare cosa accadeva a coloro che non si sottomettevano alla sua clemenza, alle sue leggi. Castelnuovo, Ortonuovo, sono borghi i cui avi vissero l’illusione d’essere padroni almeno del proprio tempo. Anarchici genetici, socialisti che parteciparono a tutte le guerre appiccate per la liberazione dei popoli, in qualsiasi angolo della terra. A Barcellona, durante la guerra civile spagnola, in Uruguay, Paraguay, in Argentina.

Immagine articolo Fucine MutePGM: Dal Coraggio del pettirosso, passando per La regina disadorna si approda al Viaggiatore notturno: percorso instancabile d’un matrimonio riuscito tra le curiosità dell’autore e i paesaggi che racconta. Nel Viaggiatore notturno, l’impianto romanzesco si è notevolmente semplificato ed arricchito, guadagnando atmosfere di grande lirismo. Come mai ci sono voluti sette anni di lavoro?

MM: A questa domanda, ti risponderò mentre ci avviamo al convento di San Francesco: ormai è ora di andare…
A dire il vero, la storia del Viaggiatore notturno, è una vicenda strana. È l’unico dei miei libri che contiene soltanto ciò che ho vissuto davvero. Per assurdo è un romanzo che non avevo la minima intenzione di scrivere, mi sarebbe piaciuto, invece, limitarmi ad un racconto orale, uno di quelli ispirati dal sottovoce, come quelli che mi capitava di ascoltare da bambino, quando i vecchi raccontavano, appunto, sottovoce, e sembrava che attraverso quel mormorare si filtrassero le giornate faticose, le gioie e i dolori che i grandi si tiravano in casa dalle campagne, assieme alle esperienze seminate in giro per la vita. Durante l’infanzia, i sogni si mescolavano a ciò che sentivo raccontare dai vecchi, e tutto si tramutava in viaggio notturno. È stato nell’estate del 2003 che l’idea del “viaggiatore notturno” mi ha colto di sorpresa. Un’estate afosa e caldissima, ricordo che mi avvolgevo la testa con un asciugamano simile ad un turbante. Un’estate che ispirava tranquillità… nemmeno il mio editore, solitamente attento a stimolare le mie produzioni, sembrava aver voglia di insistere. E poi mio padre, pure lui è stato un viaggiatore notturno, ha viaggiato per quattrocento miglia lungo la via Aurelia, da Roma a Castelnuovo, procedendo di notte perché disertore della Repubblica socialista. Di notte era più facile nascondersi, far perdere le tracce di sé, su per la via Aurelia. Quattrocento miglia percorse in due anni, prima di raggiungere il cippo con le quattro C incise dalle legioni romane, nel borgo di Castelnuovo. Anche a mio padre devo il Viaggiatore notturno, a lui che è già finito imbrigliato nel Coraggio del Pettirosso.

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Fin qui tutto bene… anzi, ancora non mi capacito come sia successo che Maggiani si sia lasciato andare a questo incontro inatteso, a questa sorta di raccontocanto imprevisto (con lui non si può adoperare il termine riduttivo d’intervista). Sarà per via del sole che invade il vecchio borgo di Pordenone, o semplicemente perché ha deciso di sciogliere le briglie della sua innata voglia di raccontare? Certo è, che di fronte alla soglia del convento di San Francesco, la magia del mio incontro con lui, sembrerebbe terminata. Per nulla al mondo, il suo essere gentile lascerebbe in attesa un popolo di lettori, anche loro vogliosi di storie. Eppure, l’apuo, discendente di certe bestie, onirico incrocio tra uomini e lupi, riesce ad inventarsene una più del diavolo…

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MM: Non si può certo far attendere tutta questa gente, però è anche vero che a te mancano solo due domande per concludere…

Mi chiede di leggergliele, e lo faccio.

MM: Faremo così, c’inventiamo una sorta di gioco. Anche con loro non parlerò del Viaggiatore notturno, bensì dei suoi motivi portanti. Così, potrai stanare tra ciò che racconterò a loro, le risposte che aspetti tu, se mai dovessero esistere.

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Sembra un caso, ma non lo è, cosa succede nella vita per caso? La sala del convento di San Francesco diventa il luogo più adeguato al racconto in sottovoce di Maurizio Maggiani. L’ambiente è caldo, fatto di mattoni rossastri, luce parca, e di gente che attende in religioso silenzio una letteratura raccontata a viva voce. Si respira tenerezza nell’aria, con la consapevolezza che ciò che ascolteremo piacerà… tanto. Io poi, devo reggere il filo di quel gioco regalatomi così, per caso. Come esimersi dal giocare con un tipo come Maurizio?

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PGM: Due figure magnetizzano l’architettura romanzesca di questo libro. Vi è un’analogia tra la “Perfetta”, donna alla deriva tra i dolori dell’Europa, e il viaggiatore notturno che appare come un miraggio non appena il tramonto affievolisce le giornate nel Sahara dell’Hoggar. Voci di chi cammina nel deserto? Queste due figure, possono venir lette come l’incarnazione della resistenza ad oltranza dell’ideale e del valore umano, in grado di opporsi a qualsiasi bruttura?

MM: Mi è stato chiesto più volte chi sia la Perfetta o il viaggiatore notturno, ma in realtà non esiste una risposta degna a questa domanda — un assoluto -, perché sono figure, simboli luminosi. Donne o uomini che si sarebbe voluto incontrare, che vorremmo incontrare almeno una volta nella vita, e che forse incontreremo.

Immagine articolo Fucine Mute

Io so soltanto che è possibile incontrarle in una dimensione di intima felicità, ma questa è la mia risposta, ed ognuno ha diritto alla propria. Io stesso potrei chiedere ad ognuno di voi: “Ma a te, cosa piacerebbe fosse la “Perfetta?”.
Sono figure che arrivano da lontano, lontanissimo. Vita, perché tutte le vite sono vastità e grandezza, ed ogni vita con la sua dignità, merita d’essere raccontata. Per me è una passione inesauribile, proprio perché mi è facile appassionarmi, attaccarmi alle vite. Probabilmente insisto a raccontare storie proprio per rendere gloria alla vita degli invisibili.
A Tuzla, ci sono stato, e mi sono appassionato. In questa antica città, il popolo bugumillo, rivelò una fede profondamente anarchica sin dal III° secolo d.C. Le donne e gli uomini erano uguali di fronte a Dio e alla legge, la proprietà privata era inesistente, la ricchezza veniva considerata un peccato. Poi fu assoggettata al dominio turco, ed i turchi imponevano tasse differenziate, facendo pagare una parte ai musulmani, una parte doppia agli ebrei, una parte tripla ai cristiani. Scontato, allora, che tutti si convertissero all’Islam. Albigesi e Cattari leggevamo testi bugumilli perché credevano quei popoli più tolleranti e liberi.
Tuzla subì un assedio spaventoso, ben peggiore che quello occorso a Sarajevo. Per me, che ci ho vissuto, è divenuta una passione, sebbene il mondo non ne sapesse nulla…

PGM: Il Viaggiatore notturno è un romanzo d’amore: rondini ed orsi non sono certamente creature simili, eppure l’interesse e la tenerezza che ricevono, prendono origine da un insegnamento ed una malinconia radicata negli affetti familiari, nell’età dell’innocenza.
Il Maggiani di L’Avana 2000 confidò che il suo stimolo al racconto, prendeva origine da una sorta di malinconia fanciulla, da una melodia impalpabile che non potendo rammentare ne dimenticare, si finisce per rincorrere a vita. È ancora questo lo stimolo che ti spinge a comporre opere d’amore e tenerezza?

MM: Il ritratto di qualsiasi anarchico finisce per somigliarsi. Lo stesso vale per quelli che ho visto da bambino. Sono nato in un paese di anarchici, e gli anarchici, contrariamente a quanto si pensa, sono persone molto precise. Quelle che conobbi io, erano impeccabili, nonostante fossero operai e banditi. Lavoravano a regola d’arte e il loro aspetto, risaltava sempre per ordine e perfezione. Mio zio Mattutino, ad esempio, costruiva case, le migliori e più belle case di Castelnuovo. Un mastro muratore che a differenza dei colleghi, aveva tre aiutanti alle sue dipendenze, tanto ci teneva a lavorare bene. Era uno che le cose le faceva, perfino la dentiera si costruì da solo. Una dentiera d’acciaio, e quando mangiava pareva un’officina.
La mia famiglia è così. Io sono figlio di Maria, nonostante suo padre le avesse imposto il nome di Adorna, tanto era affezionato ad una mula dal nome identico. Forse per questo, mia madre crebbe con il dovere d’essere testarda quanto una mula.
Mio nonno? Stessa pasta. Lo chiamavano Garibaldi, d’altro canto come potevano soprannominare un anarchico vissuto in un paese che contò a centinaia i compaesani caduti per la libertà dei popoli, in qualsiasi buco del culo del mondo accadesse. E lui, da buon Garibaldi, si sentì in dovere di venir su alto, fiero e un po’ puttaniere… no, non ho nessuna intenzione di denigrare la memoria del nonno, ricordo mia nonna, mentre trascina per mezzo paese, tirandola per i capelli, una tizia che aveva osato apprezzare le beltà del Garibaldi. La nonna si chiamava Genoveffa, ma per tutto il paese, faceva Anita… moglie di Garibaldi.
La nonna Anita pur nascendo in una famiglia rivoltosa, rimase sempre legata alla materia e alla praticità delle cose. Affermava che nella stagione della vangatura, da buoni anarchici, gli uomini sparivano, ma poi d’inverno, non ce n’era uno che non mangiasse la minestra a casa sua.

Immagine articolo Fucine Mute

Ricordo l’estate del 1963, quando morì Togliatti. Lungo l’Aurelia stava passando una gara ciclistica quando Tinfela, segretario del partito comunista, edicolante e venditore di bombole per il gas, si mise a gridare come un matto che era morto Togliatti. Siccome l’amante di Togliatti, ai tempi, era la Nilde Iotti — fervente comunista — e gli anarchici vedevano con sospetto i comunisti, la nonna Anita sospettò che fosse stata la Iotti a far fuori Togliatti…un po’ perché amante e un po’ perché comunista. Ma come aveva fatto ad ucciderlo? Con un caffè più forte del solito!
Con la nonna andavo sempre a prendere l’acqua alla fonte. A quei tempi ogni paese aveva la propria fonte dell’acqua. In epoca ellenica, si credeva fossero salvaguardate dalle ninfee, ma con l’avvento del cristianesimo s’iniziò ad affidarle alla cura dei santi. Quella di Castelnuovo godeva della protezione di Santa Lucia, la santa rappresentata con gli occhi nel piatto. La nonna mi portava sempre con sé, un po’ per farsi aiutare, e un po’ per spruzzarmi negli occhi l’acqua benedetta da Santa Lucia, che a suo dire, avrebbe migliorato la mia vista, già allora deficitaria.
Per anni incontrammo nei pressi della fonte il vecchio Baculin, il più famoso degli anarchici di paese. Odoravo con piacere il profumo del trinciato forte che usava per farsi le sigarette. L’elegante Baculin, camicia bianca, cravatta rossa e completo nero dal cui taschino tirava fuori la scatoletta di latta del trinciato forte. Il vecchio Baculin compiendo gesta eroiche, durante le guerra civile nella città di Barcellona, aveva importato il moto “Todos caballeros”, ed amava ripeterlo quando io e la nonna Anita, ci approssimavamo alla fonte, per l’acqua e per gli occhi.
“Todos caballeros”, perché tra gli anarchici, tutti venivano considerati cavalieri, signori e re.
A quel tempo pensavo che il moto fosse stato coniato dai guerriglieri passati sotto la macina della Guerra Civile, ma sbagliavo. Molti anni dopo, scoprì che la frase era stata presa soltanto in prestito da Baculin. Cervantes l’aveva coniata appositamente per una scena del suo Chisciotte, quando sfoderando la spada in una fumosa taverna della Mancha, benedice puttane, beoni e mendicanti con quel “Todos Caballeros”. Quell’immagine è stata una folgorazione. Quale potenza si librava nell’idealismo dell’Idalgo, se riuscì ad osannare la feccia della terra con il titolo “Todos caballeros”!
“Todos caballeros” apparirono di fronte ai miei occhi, anche i ragazzi di Tuzla, anarchici che nessuno al mondo conosceva o sapeva chi fossero, che vite avessero condotto, prima dell’ultimo e mai ultimo massacro.
Così è divenuta passione per me, la città bugomilla di Tuzla, piombata senza appello, senza quasi volerlo, nel mio viaggiatore notturno.
Simile destino “passionale” ha colpito un’altra piccola città del mondo, Ilio. Vi è mai capitato di vedere una fotografia delle mura di cinta di Ilio. È piccolissima! Cartagine, a confronto, era venti volte più grande, un porto fenicio ben più civile della stessa Roma che ne decretò l’oblio… da allora, nessuno ha saputo più nulla di Cartagine, poca memoria ne è rimasta. Ben diverso è per la città di Troia. Ma perché?
Perché qualcuno si trovò in mezzo alla battaglia, e ne rimase talmente impressionato da appassionarsene per sempre. Vide le gesta eroiche ed il sangue, la grandezza dei guerrieri e la bellezza delle donne per le quali quegli eroi si sfidarono a morte. Tutto ciò che fu visto e vissuto per esperienza diretta divenne grandioso. Ecco spiegata la gloria di Patroclo, di Ettore e Achille. Fu la passione di quel testimone oculare a tramutare la cronaca in racconto, e una volta ritornato a casa continuò a raccontare con maggior passione ancora.
Sapete come funziona la storia del pesce, no? Un amico pesca un pesce da trenta centimetri e racconta il fatto ad un amico che a sua volta lo racconta ad un altro. Di bocca in bocca il pesce diventa lungo un metro. Così avvenne per Ilio. Chi narrò le gesta della guerra di Troia, affascinava il pubblico che desiderò saperne di più, non voleva assolutamente che il racconto si fermasse, nemmeno per un attimo. I cantastorie, allora, finirono per essere mantenuti, perché essendo obbligati al racconto senza tregua, non potevano lavorare per guadagnarsi da vivere. Alla fine queste storie arrivarono all’orecchio di un tizio che si rese conto quanto fosse buona quella raccolta di leggende e canti…
Io mi sento simile a quell’uomo, perché raccontare è la mia passione, il mio talento, non potrò mai farne a meno… simile ad un viaggiatore notturno.

____

L’applauso è lungo, passionale, prolungato e sentito. Maurizio se ne esce dal convento di San Francesco con quell’aria timida ed anarchica all’unisono. Firma con dedica i libri del suo Viaggiatore notturno che “todos i caballeros” gli allungano tra le mani. Gli faccio notare che a Pordenone — quasi per caso — esiste l’unica comunità Tuareg presente in Italia… sorpreso, mi chiede come sono finiti i Tuareg a Pordenone. Gli spiego che una mia carissima amica — Ludovica Cantarutti — da anni si preoccupa di promuovere culture diverse tramite l’associazione culturale di “Via Montereale”. Tutti re e signori, alla resa dei conti… lei sicuramente saprà spiegarglielo! Ne resta sorpreso, ma ancora di più, quando gli consegno il regalo che Ludovica Cantarutti e Scilla Raffin mi hanno chiesto di consegnarli. Scilla è figlia di Ludovica ed è autistica. Meraviglioso è che abbiano scritto assieme un libro stupendo come Le parole del silenzio, libro ormai giunto alla terza edizione. Lo scruta avvicinandolo millimetricamente agli occhiali tondi, con la curiosità di un miope.

Sulla copia del mio Viaggiatore Notturno, Maggiani scrive:
Ecco, ancora per strada,
ancora incontrarsi,
fa buon viaggio, Paolo!

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