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Omnia

Turn on, Tune in, Drop out! (I)

La controcultura Hippie degli anni Sessanta in America

«If all the Hippie cut off all their hair.
I don’t care, oh I don’t care…
I’ve got my own life to live…
So let me live my life the way I want to»
(Jimi Hendrix, If Six was Nine,1967)

Immagine articolo Fucine MuteIn piena era Hippie, con questo celebre passaggio Jimi Hendrix (1942-1970) afferma la sua appartenenza alla tribù degli anni Sessanta, la prima generazione postbellica, la prima a percepire la propria condizione giovanile come una «stagione perenne» libera dai vincoli imposti dall’anagrafe. Erano gli anni dei figli dei fiori, «dell’eterno amore degli adolescenti per le prove, le sfide, le droghe; le orge e il dolore di sentirsi fuori dalla società; il rifiuto e al tempo stesso il desiderio di farne parte», scriveva François Truffaut sui «Cahiers du Cinéma». In If Six was Nine di Hendrix e nelle parole di Truffaut troviamo tutta la contraddizione di questi anni: l’esaltazione collettiva per il nuovo che avanza e al tempo stesso il desiderio di affrancarsi da quel mondo e recuperare una dimensione intima. Scrive Leslie Fiedler (1917-2003) in Love and Death in the American Novel (1960) che l’evasione dalla costrizione del rapporto paritario con gli altri, dalla socialità o da una forma costrittiva della civiltà è una variabile costante nel percorso storico di questo paese. L’esplosione del fenomeno Hippie ha sicuramente contribuito alla creazione del mito della controcultura.
I Sixties sono gli anni della controcultura in America, idealizzati in canzoni, pellicole, opere letterarie e teatrali e in molti simboli: le magliette del «Che», i variopinti furgoncini-alcova della Volkswagen lanciati da Allen Ginsberg (1926-1997); l’ormai introvabile adesivo «Vagabond» e le chitarre rock come quella di Dylan dove c’era scritto «Questa macchina uccide i fascisti, i razzisti, i bigotti, i sostenitori della guerra fredda, i generali troppo zelanti, il Ku Klux Klan, i politici corrotti, il clero compiacente». Questi anni hanno messo in scena il tentativo da parte di alcune decine di migliaia di giovani d’innalzare la vita ad utopia, la disperazione a speranza, la tragedia a riscatto, il silenzio a rivolta. Mai come in questi anni in America si è combattuta l’istituzione «democratica» e il suo ordinario avvicendamento dentro lo stesso tipo di potere o si è così profondamente materializzata nella musica, nella letteratura e nei costumi l’estraneità dei giovani col mondo degli adulti. Questi Sixties hanno realmente rappresentato la fine di un orizzonte generazionale condiviso.
Per capire questo decennio è necessario penetrare quelle contraddizioni della società americana che hanno originato la cultura della controcultura. È nelle voragini create dal benessere degli anni venti e trenta, nella falsa immagine di società multiculturale del dopoguerra, nel richiamo del comunismo in opposizione al consumismo o nell’imperialismo degli anni Cinquanta e Sessanta che si sviluppa il germe della controcultura Hippie in America. L’incapacità del pensiero americano dominante a considerare quelle contraddizioni reali che spaccavano il paese in bianchi e neri, ricchi e poveri, Yuppie e operai, ha paradossalmente agito da collettore principale ai movimenti di protesta. All’interno di questi angusti spazi Bob Dylan, Allen Ginsberg, Timothy Leary (1920-1996) e tanti altri hanno inserito come un cuneo la loro protesta, contribuendo sia alla costruzione dell’immaginario utopico delle irrealtà della controcultura americana sia all’ingrandimento di un concreto momento di frattura. Per capire il mondo degli Hippie è necessario muoversi all’interno di questo spazio, tra quelli che hanno tradotto quel dissenso in musica, cinema, teatro o letteratura; con quelli che il dissenso l’hanno visto dal di dentro senza farne moda; assieme a chi ha fatto dei propri strumenti culturali non mezzo per un’uscita soggettiva da quel mondo, ma mito della comunicazione collettiva.
I punti di riferimento sono solo quattro, proprio perché potrebbero essere altri cento: la rivolta dei costumi con il Rock’n’roll, la fuga dal presente attraverso l’assunzione di sostanze allucinogene, la resistenza degli studenti di Berkeley e la comunicazione mass-mediatica grazie ad un signore di nome Allen Ginsberg. Il punto di partenza è un autobus dell’Alabama in una qualsiasi giornata del 1955; il punto d’arrivo, il vomito maledetto nel quale Hendrix è affogato nel settembre del 1970. Le tappe intermedie prevedono i reading poetici Beat a partire dalla fondazione della prima libreria di tascabili, la City Lights Books di Peter Martin e Lawrence Ferlinghetti; il flower power; il guru psichedelico Timothy Leary; lo Human Be-in del 1967 a San Francisco e, da una strepitosa idea di Michael Lang, il megaraduno di White Lake dell’agosto 1969. La materia è complessa e non si presta certo ad una coerente elaborazione storica, quindi, lo schema interpretativo adottato sembrerà assomigliare più ad una jam session stile Grateful Dead o ad un riff alla Keith Richards, tanto per intendersi. I Sixties non erano forse un’immensa jam session alla quale tutti potevano contribuire liberamente con i propri riff?

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Per capire o cercare di capire il mondo degli Hippie, quello che hanno prodotto, i modelli culturali che hanno elaborato, bisogna risalire le circostanze che hanno preceduto la nascita del movimento, gli eventi che hanno modificato il rapporto tra la società americana e la sua componente più giovane. Insomma, bisogna indagare quel processo di maturazione spirituale che ha attraversato la società americana prima, europea poi, nel corso degli anni Sessanta. La ricostruzione di questo mondo deve passare tra le innumerevoli proteste civili degli anni Venti e Trenta, la definitiva esplosione del Rock come strumento della contestazione collettiva, la consacrazione della letteratura on the road e l’utilizzo di micidiali psichedelici come mezzo per il ricongiungimento al proprio pseudo-Dio.
Non deve apparire strano che gran parte dei contenuti di questo movimento sia ben presente nella società americana degli anni Venti, Trenta, Quaranta e Cinquanta. Due cose erano evidenti a Woody Guthrie (1912-1967) quando cantava No Depression in Heaven della Carter Family: il sogno americano era annegato da un bel pezzo «Vado dove c’ è depressione / in quella bella terra senza problemi / lascerò questo mondo di fatica e di sofferenza / la mia casa è in cielo / e io vado lassù» e l’America era un cumulo di New Lost City Ramblers, come Mike Seeger e John Cohen descrivevano gli «ultimi» nel 1964. Guthrie, musicista di frontiera e nomade della grande depressione americana, queste cose le aveva imparate da un lustrascarpe nero che gli insegnava a suonare l’armonica. Con l’armonica Guthrie si guadagnava qualche soldo ai margini delle strade impolverate o nei saloons dell’America degli anni trenta. Per loro stessa ammissione, Chuck Berry, Bob Dylan e Bruce Springsteen hanno imparato a scrivere e interpretare la musica da questo folk singer di Okema, Oklahoma. Per inferenza, è come dire che gran parte della musica Rock di protesta la si deve ad uno sconosciuto lustrascarpe! Guthrie insegna a tutti che esistono tante americhe parallele, quella dei neri, quella solita dei lavoratori sottopagati della grande industria, quella dei poveri, degli hobos e dei disoccupati, ma lo fa con una chitarra ed un’armonica, senza armi e tritolo. Il fatto eccezionale, che ha reso veramente indimenticabili gli anni Sessanta, risiede nel processo di massificazione di queste istanze politiche, sociali e culturali, attraverso gli strumenti della protesta come i grandi raduni Hippie, il vagabondaggio, la musica Rock, la letteratura Beat e le sostanze psichedeliche.
A dirla tutta, quando è riuscita ad esaltare l’estensione multidimensionale del fenomeno Hippie, la (cattiva) memoria popolare ha attribuito agli anni Sessanta peculiarità che non gli appartengono propriamente. Ad esempio, se è vero che alcuni grandi eventi di lotta a favore dell’estensione dei diritti civili sono avvenuti negli anni Sessanta e precisamente in America, la richiesta d’uguaglianza razziale e sessuale ha origini ben più remote e in Europa. In definitiva, i Sixties sono stati un enorme veicolo catalizzatore dei problemi e delle frustrazioni dei giovani e meno giovani che, grazie all’utilizzo di strumenti nuovi come la comunicazione massmediatica, le droghe e il Rock, sono rimasti impressi nella memoria collettiva come simbolo del processo di affrancamento dalle miserie della vita quotidiana. I Sixties sono una fucina di idee nel mezzo di una società perlopiù muta di fronte al disagio giovanile; sono un movimento anarchico in cerca di organizzazione. Ecco la forte similitudine di questo con altri periodi, se si esclude il deciso mutamento delle forme della protesta collettiva e quindi della più variegata composizione di quel collettivo nel corso degli anni Sessanta. A questo pensava forse il giovane Mick Jagger nel 1972 quando, assieme agli odiati Rolling Stones, in esilio per scappare dalle perfide maglie del fisco di Sua Maestà, nella sua cantina sulla Costa Azzurra (su quella Costa Azzurra, non su questa!) registrava Exile on Main Street.

Andiamo per ordine. Siamo nel dicembre del 1955, ad un anno dalla sentenza della Corte Suprema sulla base della quale le autorità del Kansas sono costrette ad eliminare la separazione tra bianchi e neri nelle scuole pubbliche. Stanca da un’altra massacrante giornata di lavoro, Rosa Parks (1913-2005) è multata — la multa mai pagata era di 10$ — per avere occupato un posto riservato ad un bianco su un autobus nella città di Montgomery, Alabama. I 381 giorni nei quali la comunità nera, sotto la guida spirituale di un giovane Martin Luther King (1929-1968), boicotta i mezzi pubblici sono il preludio ad un percorso di liberazione razziale che non avrebbe trovato termine nemmeno nel corso degli anni Sessanta. Al megaraduno di Woodstock dell’agosto del 1969 — a due anni dal famoso discorso di King a Wahsington DC «I have a dream…» — gli Sly & The Family Stone sono l’unico gruppo nero invitato e nell’immaginario controculturale Hippie oltre a Hendrix i soli neri ricordati sono Tina Turner e Otis Redding (1941-1967).

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Il linguaggio Rock degli Hippie, la loro semantica non violenta, la scelta di libertà sessuale e i loro sogni sono già stati teorizzati da Allen Ginsberg negli anni Cinquanta, nel suo famoso decalogo che parla di liberazione a tutti i livelli: sessuale, omosessuale, femminile, religiosa, razziale, ma anche di solidarietà con i popoli oppressi e di rispetto ecologico. Il suo celebre articolo-manifesto sulla nonviolenza creativa come strumento di autodifesa ipotizza in anticipo sui tempi l’utilizzo dei mezzi mediatici. Se vogliamo spingerci ancora più indietro nel tempo, i Sixties hanno un prologo nelle forme della protesta della fine degli anni novanta del Secolo XIX. Precisamente nel 1886, quando a New York viene inaugura la Statua della Libertà. Ai suoi piedi una scritta ancora oggi recita «datemi i vostri uomini distrutti, le vostre folle pigiate ansiose di respirare liberamente, i miserabili rifiuti dei vostri prolifici paesi; mandate a me i senzatetto, gli uomini sbattuti dalle tempeste. Io alzo la mia lampada davanti alla Porta d’Oro». Non sembra forse questo un proclama Hippie? Nel momento della cerimonia la Porta d’Oro è sbarrata per tutti quelli a cui era stata dedicata: i poveri, gli anarchici e molti altri indesiderati. I Sixties avrebbero potuto cominciare a questo punto, ma non è andata così.
Il germe della controcultura americana sembra proprio intrinseco nella sua stessa cultura. Una canzone di propaganda elettorale di Thomas Jefferson (1743-1826) del 1800 diceva: «Qui stranieri di cento nazioni, costretti dalla tirannia dell’esilio, troveranno tra abbondanti ricchezze, una patria più nobile e felice». Questa previsione si è sicuramente avverata, ma nel segno di una distribuzione diseguale delle ricchezze, che la generazione degli Hippie non tarda a cogliere. Se n’era già accorto quello che involontariamente sarebbe diventato il primo vero teorizzatore anarchico della controcultura Hippie. In On the Duty of Civil Disobedience (1849) e Walden (1854) Henry David Thoreau (1817-1862) aveva teorizzato gli strumenti dell’azione diretta e l’obiezione di coscienza ma al contempo l’immersione nella fisicità del corpo e della natura, il rapporto con la terra e con l’acqua.

In ogni caso, molto di rado gli Hippie sono sulla strada in cerca di lavoro, come era stato nel caso degli hobos, i bumps o i tramps: i vagabondi al tempo di Woodie Guthrie, negli anni trenta e quaranta. Se gli hobos si radunavano per disperazione nelle jungles (gli accampamenti alla periferia delle città americane; ricoveri di fortuna fatti di scatole di latta e cartoni) gli Hippie si radunano al ritmo della musica, ballano, cantano e si fanno di droga. Rimane in comune la convenzione dei punti d’aggregazione attorno ai fuochi e le lunghe discussioni su politica e religione. Molte delle ballate country degli anni venti e trenta — l’età d’oro della country music — sono nate e sono state tramandate da padre in figlio proprio attorno ai fuochi. Questa catena s’interrompe per via del procedere del processo di banalizzazione commerciale che fa di autori come Jimmie Rodgers (1897-1933), John Carson (1925-2005) o Clarence Ashley (1895-1967) veri e propri divi popolari grazie ai quali la musica dei proletari meridionali viene spogliata della necessaria violenza degli oppressi per modellarsi sui canoni della ballata consolatoria, rigorosamente della durata massima di tre minuti per canzone. In modo analogo, i primi film western degli anni trenta sono tutti incentrati sulla corsa dei contadini verso l’Ovest a seguito dell’approvazione dello Homestead Act (la celebre corsa del 16 Settembre 1893 per la conquista delle terre vergini immortalata in Far and Away dal regista Ron Howard,) o sulle aspre lotte tra coltivatori indipendenti e le grandi compagnie ferroviarie. Sono i western di John Ford (1895-1973) per intenderci (3 Bad Man, 1926; Stagecoach, 1939), dove il cowboy è colui il quale lotta contro la fame e i ricchi possidenti terrieri. A questi ben presto succedono i grandi colossal epici interpretati da John Wayne (1907-1979) & Co. dove le gesta epiche degli sterminatori d’indiani sono mitizzate e mischiate a romantiche storie d’amore.

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Il centro di questi raduni spontanei, negli anni Trenta come negli anni Sessanta, rimane quello spazio tra San Francisco e Los Angeles. Los Angeles — LA per qualsiasi americano — è la città che negli anni trenta inventa il blocco totale contro gli immigrati rigettati dalla polizia sulla celeberrima Route 66 (esaltata nei versi di un giovane Bruce Springsteen) perché privi del Do-Re-Mi: il denaro, nella omonima celebre canzone di Guthrie. Questa stessa città negli anni Cinquanta e Sessanta vede nascere la contestazione giovanile dal suo centro geometrico, ovvero l’Università di Berkeley. Per non lasciare nulla alle spalle è bene ricordare che George Berkeley (1685-1753), vescovo di Clone e filosofo antimaterialista, risulta uno tra i primi oppositori della scienza newtoniana. Un anarchico, si direbbe oggi, per il quale «essere è percepire o essere percepiti», secondo il quale l’Universo contiene solo due generi di entità: le idee e gli intelletti. San Francisco dista qualche centinaio di miglia da Los Angeles. «If you’re going to San Francisco, be sure to wear a flower in your hair» cantava Scott McKenzie al Monterey Pop Festival del 1967 (San Francisco è di John Phillips dei Mamas & Papas), quando Haight District era ancora la meta Hippie per eccellenza, e non un polo d’attrazione turistica com’è diventato ora. San Francisco è la terra dei San Francisco 49ers, la mitica franchigia della «National Football League», ma è anche la casa della comune pseudo-Hippie di Charles Manson, responsabile di una serie di omicidi tra i quali quello di Bel Air a pochi giorni da Woodstock, nel quale l’attrice Sharon Tate (1943-1969) viene massacrata. La storia di Manson (condannato a morte, con sentenza commutata in ergastolo nel 1972) è in uno splendido libro di Ed Sanders, The Family. The Story of Charles Manson’s Dune Buggy Attack Battalion (1971). Nei sobborghi di San Francisco si svolge anche l’irruzione della natura nel paese della comunità protetta di Bodega Bay in The Birds (1963) del grande Alfred Hitchcock (1899-1980), nel quale la mancanza di una colonna sonora, che Bernard Herrmann (1911-1975) compone con sole grida deformate di gabbiani e corvi, rende inquietante l’assalto degli uccelli ma sembra pure funzionare come monito per gli uomini a vivere in modo più solidale e fraterno.
Ritornando a bomba, i nuovi Tom Joad — il protagonista di The Grapes of Wrath di John Steinbeck (1902-1968), rievocato in decine di canzoni country e un paio di film, il più celebre dei quali di Henry Fonda (1905-1982) —; i nuovi fuorilegge degli anni Cinquanta-Sessanta, emergono da una condizione sociale per la quale il nuovo proletario è ormai pienamente legittimato come subalterno agli interessi del grande capitale privato e dello Stato americano, impiegato nella gestione geopolitica della guerra fredda. Nei primi anni Sessanta la Beat generation, con i suoi Jack Kerouak (1922-1969), William S. Burroughs (1914-1997), Henry Miller (1891-1980), è quasi materia per gli storici e i primi nuovi musicisti/cantautori di protesta post-Guthriniani sembrano limitarsi a chiedere il rispetto delle regole che la società si da. L’individualismo Beat, contrario all’attivismo politico, la battaglia on the road insomma, che si svolge verso l’interno della coscienza, nasce da un certo elitarismo per il quale quel vagabondare eterno si manifesta in una trasposizione degli stereotipi dell’America degli anni Cinquanta. Qualcosa di tutto ciò si scorge in Stand By Me (1986) di Rob Reiner, un film con lo sfortunato River Phoenix (1970-1993) che Truffaut avrebbe sicuramente apprezzato o in Chappaqua (1966), mediometraggio di Conrad Rooks, dove appaiono Burroughs, Ginsberg e il suo segretario-amante Peter Orlovsky, impreziosito dalle musiche di Ornette Cloleman che attraggono l’attenzione di molti figli dei fiori.

In ogni modo, gli oppressi al tempo di Kerouak sono trasformati dagli autori Beat in fenomeni da cartolina. Nella cultura Beat non c’ è una protesta violenta contro il sistema, ma un rinnovato interesse verso l’indipendenza nei confronti del modello sociale di riferimento. Perfino nella sostanza reazionaria dei paladini della Lost Generation Beat si cela lo stereotipo populista, come quando nel suo eterno pellegrinare Jack Kerouak omette la descrizione delle miserie del mondo, concentrato com’è sulla prossima puttana a buon mercato. Analogamente, il credo nonviolento che Joan Baez canta in We Shall Overcome (1967), il ripudio della guerra ma nel senso del pacifismo retorico di JFK «Those who make peaceful revolution impossibile will make violent revolution inevitable» (quelli che impediscono una rivoluzione pacifica rendono inevitabile una rivoluzione violenta), il progressivo imborghesimento della società americana e la rapida fuga verso il «personale» della generazione Hippie, sono sintomi del ripudio delle armi della protesta violenta.
A questi si uniscono quelli che tacciono completamente. È il caso di Bob Kaufman (1925-1986), poeta Beat di colore che dalla morte di JFK fino alla fine della guerra del Vietnam (circa dodici anni) non dice più una parola. Nulla a confronto della performance del guru preferito da Pete Townshend dei The Who, Meher Baba (1894-1969), che non proferisce alcuna parola dal 1925 fino alla sua morte. Il ritorno alle armi è affidato ai proclami dei Blacks, critici nei confronti di un pacifismo dilagante e incapaci di spiegarsi in termini della società, impiegata nelle sue lotte intestine. «Chi ha mai sentito parlare di una rivoluzione dove si prendono sottobraccio e cantano We shall Overcome? Non sono cose che si fanno in una rivoluzione. In una rivoluzione non c’è tempo per cantare, c’è troppo da fare a picchiare». È la protesta nera di Malcolm X (1925-1965), Julius Lester e Bobby Seale (1936-1966) nel 1966.

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Dal torpore della nonviolenza, con due brani come The Lonesome Death of Hattie Caroll e Master of War, Bob Dylan pesca dal suo prolifico cilindro i temi che avevano già fatto grande Woody Guthrie, alcune volte copiandone perfino la tecnica (si deve al Guthrie di Hard Travellin’ l’introduzione dell’armonica in accompagnamento alla chitarra). Rompendo con tutte le mediazioni della nonviolenza, il primo Dylan, quello che canta la protesta senza essere pienamente attivista e che non si è ancora chiuso del tutto in una dimensione intimistica e personale in memoria del suo passato, punta diritto verso il centro del sistema per criticarlo, maciullarlo e chiamandosi fuori dell’ideologia dell’americanismo, mettere in risalto le sue profonde contraddizioni. La nostalgia per il ragazzo che parlava a ruota libera (freewheeling significa proprio questo), che sedeva dalla parte del torto e apriva frantumandole quelle finestre, si allunga fino ai nostri giorni.
Il novello Walt Whitman (1819-1892) propone la fusione all’interno dei codici del Rock di un testo di protesta con la musica, esperimento che i Beat avevano già provato con il Jazz. A differenza di Walt Whitman, che in Song of Myself aveva esaltato la libertà del verso poetico attraverso un liberatorio urlo barbarico yawp «a wop bop aloom op awop bam boom», che Little Richard trasforma nel ben più noto «a wop bop a lu bop a wop bam boom» di Tutti Frutti (1955), Dylan è nel contempo poeta, musicista e attivista defilato, interessato alle campagne di protesta degli studenti. Dai celeberrimi Sotterranei kerouachiani del Greenwich Village (il Cafè Wha?, il Gaslight Cafè o il Fish Bar), fortemente influenzato dalle opere di Ginsberg e Borroughs (e dalle decine di bottiglie di vino Thunderbird), per buona parte degli anni Sessanta Dylan rimane suo malgrado uno dei simboli del movimento Hippie. Bruciando il passato, fossilizzato sulla musica pop radiofonica (le Tin Pan Alley Songs, che dovevano il nome al grattacielo di New York dove venivano composte) o sul folk alla Pete Seeger, per intenderci, Dylan introduce una serie di «innovazioni» che erano già state sperimentate da Guthrie (l’armonica alternata alla voce e suonata assieme alla chitarra) e da Chuch Berry (che aveva imposto la chitarra acustica come strumento del Rock, marginalizzando per sempre il piano di Fats Domino, oramai relegato alla sinistra del palco).

Siamo nell’anno 1963, l’anno dell’assassinio di JFK; 1l 28 agosto a Washington DC sulle scalinate del Lincoln Memorial ci sono Joan Baez e Dylan — in attesa di suonare Only a Pawn in Their Game e Blowin’ in the Wind — che ascoltano Martin Luther King pronunciare il suo famoso discorso. L’anno seguente Dylan avrebbe incontrato John Lennon (1940-1980) all’Hotel Demonico, inaugurando il processo di reciproca contaminazione Dylan/Beatles e iniziando all’uso della marijuana i Fab Four, che fino a quel momento si erano limitati a Scotch liscio e cocaina. Era passato un secolo esatto dalla ratifica della legge a favore dell’emancipazione degli schiavi da parte del presidente Abraham Lincoln. L’anno successivo sarebbe iniziata l’era dell’LSD, grazie ad una serie di pubblicazioni divulgative di un eccentrico professore ad Harward, Tymothy Leary (che il Presidente Richard Nixon, ovviamente prima dello scandalo Wategate, indicava come il personaggio più pericoloso in circolazione) e ad una idea dei Merry Prankesters di Ken Kesey (1935-2001) che, oltre ad avere scritto One Flew Over the Cuckoo’s Nest (romanzo su come il potere emargini i diversi, tradotto in pellicola da Miloš Forman e vincitore dei quattro Oscar principali alla cerimonia del 1975), ha il merito/demerito di avere lanciato la moda delle comunità viaggianti su coloratissimi autobus. Su Further, un International Harvester School Bus del 1939, nel corso di un pazzesco attraversamento del continente americano dal ranch di Kesey a La Honda a quello di Leary a Millbrock Kesey inaugura la moda degli acid test. Tom Wolfe si occupa della storia e scrive The Electric Kool-Aid Acid Test (1968). Anche i Beatles di Magical Mystery Tour ringraziano il Day-Glo bus di Kesey. I seguaci teatranti di Kesey sono scrittori come Neal Cassady (1926-1968) o gruppi Rock come i Grateful Dead, sui quali vale la pena soffermasi almeno un attimo. Assieme ai Jefferson Airplane/Starship, i Grateful Dead stanno agli Hippie come Elvis sta agli anni Cinquanta! Poco pubblicizzati dai mass media, per tutto il corso della fine degli anni Sessanta quest’incredibile jam band (samurai dell’improvvisazione libera e fluente) riempie gli stadi di tutti gli Stati Uniti. Il loro incredibile album Live/Dead (1969) è considerato a ragione il manifesto sia della musica psichedelica sia delle comunità viaggianti degli Hippie di San Francisco nonché uno degli album migliori della musica Rock. Nel corso degli anni ottanta ai Grateful Dead si unirà anche Dylan. Accompagnando la musica all’assunzione di sostanze allucinogene, i Dead fanno loro l’esperienza degli acid test, grazie ai quali oggi abbiamo una bellissima Dark Star o Turn On Your Love Light: minuti di vera trance comunitaria in cui Jerry Garcia (1942-1995) & co. riescono a far calare il pubblico. Per maggiori informazioni, si rimanda al cult-movie Animal House (1978) di John Landis, che mette in orbita un gigantesco e ineguagliato John Belushi (1949-1982) o a Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni, dove ai Grateful Dead si alterna la psychedelic blues jam band di John Cipollina (1943-1989), quei Quicksilver Messenger Service a cui è concesso il merito di aver tenuto in vita il Bo Diddley di Who Do You Love? con una suite di 25 minuti nell’album Happy Trails (1969).

In questo turbolento 1963, la Philips mette in commercio la prima cassetta audio, il mangiacassette e il sistema Dolby per la riduzione del fruscio di fondo. Si inaugura la «trasportabilità» della musica e si sancisce l’inizio della fine del Juke Box. Bob Dylan esce con The Freewheelin’Bob Dylan, il suo secondo LP che avrebbe cambiato per sempre il volto della musica popolare. Liberamente ispirato dalla lettura di Howl, celeberrima poesia di Ginsbgerg, che al reading pubblico del 13 ottobre 1955 alla Six Gallery aveva scatenato il putiferio tra i benpensanti (mentre era ancora caldo il corpo giovane di James Dean, morto il 30 settembre sullastrada per Paso Roble a Chulame, San Francisco), Dylan introduce imponendola di schianto la sua voce cacofonica. Da quel momento le porte delle case discografiche si sarebbero aperte ad una serie interminabile di cantautori poco fonogenici.

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Se nella famosa Cherokee Strip Land Race del 16 settembre 1893 le ballate di veglia attorno al fuoco si mischiavano al sudore dei braccianti, la variopinta marcia psichedelica degli Hippie verso la «casa accogliente in cima alla collina», evocata da Jim Morrison (1943-1971) in The Celebration of the Lizard (1967), segna il connubio tra il Rock e il venticinquesimo acido (lisergico-dietalminico) sintetizzato nei laboratori della multinazionale svizzera della chimica Sandoz e assunto per la prima volta dal suo scopritore Albert Hofffman. È soltanto un’ipotesi, ovviamente, perché se è vero che la storia delle utopie comunitarie in America è antica, allora l’esercizio più difficile e forse inutile è perdere tempo per capire da cosa cominciano i Sixties e come si differenziano tra loro i vari movimenti multicolori che hanno animato questi anni. Comunque, ad un certo punto, le metropoli dell’Est e soprattutto della California diventano punto d’incontro dei giovani experienced (così li chiama Hendrix). Con la loro musica, la loro poesia e i loro costumi, gli Hippie innescano quel processo di pittoresca codificazione d’istanze più disparate e affrancamento dal reale. Le nuove espressioni di cultura sono il reading letterario e poetico; l’happening teatrale, famosi quelli di Tuli Kupferberg e di Ed Sanders, animatori dei Fugs; la comunità errante dei gruppi Bikers, tra i quali gli Hell’s Angels; la comune degli artisti; i collettivi artistici d’avanguardia; il moltiplicarsi di gruppi Rock quasi sempre legati alla psichedelica come i Jefferson Airplane o i Big Brother & the Holding Company,il gruppodi Janis Joplin (1943-1970). Centro di queste attività sono Los Angeles, San Francisco e New York. In questo spazio, pescando dal passato senza per questo raschiare il fondo del barile come per molti sarebbe accaduto nel corso degli anni Settanta, si sperimentano nuove forme comunicative. È l’esempio dei Living Theatre di Julian Beck (1925-1985) e sua moglie Judith Malina, già sulla scena dagli anni quaranta, ma solo ora capaci di identificare e talvolta idealizzare il modello di comunità artistica, grazie a nuove forme di provocazione estetica e politica attraverso l’uso della corporeità come fonte di resistenza alla violenza.
Sono gli studenti a sventolare questa fiaccola multicolore della libertà e della giustizia, a partire dal movimento studentesco universitario, nato agli inizi degli anni Sessanta dalle ceneri dei gruppi d’opposizione alle attività della House for Un-American Activities Committee, la celeberrima Huac: Commissione parlamentare per la repressione delle attività antiamericane, che a partire dalla sua fondazione nel 1937 (Richard Nixon era stato suo attivo membro) aveva investigato sulle c.d. attività antiamericane, impedendo a numerosi registi ed attori di lavorare per Hollywood.

Tra i temi delle battaglie portate avanti da gruppi come lo Student for a Democratic Society, non manca certo la lotta a tutte le forme di povertà e disuguaglianza sociale. Le sedute della Society culminano con l’accordo sulla Dichiarazione di Port Huron, Michigan, nel 1962 e portano alla ribalta Tom Hayden, in seguito importante leader del Partito Democratico Americano. Tra i tanti contributi sulla povertà come condizione di molti US citizens, rimossa dalla cultura dominante e consumistica degli anni Sessanta, va citato il volume di Michael Harrington (1928-1989) Other America. Poverty in the United States (1962): manifesto dell’ipocrisia dell’ideologia dominante tanto per la New Left Americana quanto per numerose comunità Hippie. Non mancano nemmeno dotti e interminabili sermoni sulla miseria e delusione del sogno americano, ispirati alla Rivoluzione del 1776 o al Continental Congress del 1787 che promulgava la Costituzione Americana. L’esplodere di questi movimenti nel 1964 è ancora una volta un atto di controcultura. La protesta parte dagli studenti di Berkeley, uniti contro il coinvolgimento dell’Università nel complesso militare-industriale americano, diventa ben presto lotta contro la decisione del senato accademico di vietare ogni attività politica all’interno del Campus. La costituzione dello Free Speech Movement da parte del carismatico leader Mario Savio (1942-1996) è il preludio al ricorrente utilizzo dello strumento dell’occupazione. Oppressi da decenni di lotta per la sopravivenza, operai sostenuti da studenti si organizzano in gruppi anarchici. In queste occasioni viene dimostrato come l’uso della forza indirizzata allo scioglimento delle manifestazioni pacifiche sia capace di generare un ciclo perverso che tende ad incrementare la violenza. Il massacro presso l’Università del Kent — la Piazza Alimonda degli americani —, in seguito all’annuncio del Presidente Nixon circa l’imminente invasione della Cambogia da parte delle truppe americane impiegate in Vietnam, segna l’epilogo di questa spirale perversa. Il 4 maggio 1970 per soli tredici secondi la Guardia nazionale apre il fuoco contro gli studenti; sul campo rimangono quattro giovani e sessantuno pallottole ne feriscono altri nove. Un massacro che ricorda la strage di Ludlow del 1914, quando la Guardia nazionale aveva sparato sui minatori scioperanti per disperderli, provocando la morte di venti persone, tra le quali due giovani madri e tredici bambini.Ludlow Massacre è l’omaggio di Guthrie a questo drammatico evento.

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L’assassinio di Malcolm X nel febbraio del 1965, seguito da quello di Martin Luther King nell’aprile del 1968 hanno forse impedito l’incontro tra le istanze dei Black con quelle degli Hippie. Nel corso degli anni seguenti gli afroamericani — gli Invisibile Men (1952) descritti nel romanzo di Ralph Eleison (1914-1994) — iniziano il processo di isolamento dalla vita sociale del paese, rinnegando il Peace and Love di King. Da questa dottrina nascono gruppi violenti come il Black Phanter Party for Self-Defense, impegnato nel sociale ma costantemente in assetto da guerra. La loro popolarità all’estero è indissolubilmente legata alla protesta dei velocisti Tommy Smith e John Carlos, quando nel corso della cerimonia di premiazione alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, a testa bassa alzano il pugno rinchiuso nel guanto nero di protesta contro l’oppressione dei Black da parte del governo americano. Il Black Power, nome attribuito da Stokely Carmichael (1941-98) al movimento nazionalista nero, non agisce in opposizione alla cultura Hippie della nonviolenza, ma semmai in contrapposizione ai confusi principi pacifisti del Flower Power, di cui ci occuperemo in seguito.

fine prima parte

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