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Palcoscenico

Verso una grammatica del sentire: Enrique Vargas e i suoi habitantes

Enrique VargasLa prima volta che sentii parlare di Enrique Vargas e della sua compagnia Il Teatro de los Sentidos fu nel novembre del 2003. Vargas in quel mese avrebbe tenuto un laboratorio presso La città del teatro di Cascina, piccolo comune a due passi da Pisa.
Sin da subito mi sembrò di cogliere l’intento sostanzialmente eversivo del lavoro del maestro sudamericano nella sua traduzione del linguaggio teatrale in un’opera soggettiva volta a sublimare in misura radicale la percezione che di se stesso, solitamente, ha l’individuo occidentale. In quel laboratorio, ma potrebbe dirsi nell’intera produzione teatrale di Enrique Vargas, la rottura con i modelli razionalizzanti appartenenti, io credo, ad una stagione teatrale, e prima ancora filosofica, che comincia ad apparire più che datata era netta. Vargas batteva la strada dell’approccio magico alla rappresentazione teatrale, un approccio che sembrava finalmente metter da parte, attraverso una scansione mai improvvisa ma sempre progressiva e ben calibrata, l’idea che il teatro debba dare risposte allo spettatore, uno spettatore in tal modo incapace di interpretare nella misura in cui quella stessa interpretazione si trovi già vincolata dalla rappresentazione alla quale assiste. Quanto proponeva il regista colombiano consisteva viceversa in un avvicinamento alla pratica teatrale sulla base di una memoria delle emozioni, al fine di sentire, ossia di percepire, lo spettacolo abbandonando colui che guarda nel mare magnum della propria comprensione. Sulla linea di questa rinnovata lettura il teatro non pare dover suggerire che domande, sollevare dubbi e muovere la dimensione istintuale d’ogni soggetto che al suo racconto si abbandona. Il sentimento razionale pertanto sembra esser spiazzato, messo sotto scacco con tutti i suoi sospetti automatismi da una prassi che vuol rendere visibile sempre e solo l’uomo, nel tentativo di percepirlo in ogni sua sfumatura psichica e corporea.

Immagine articolo Fucine MuteLo spettatore di Vargas pare ogni volta doversi perdere affinché in una successione dialettizzata di gesti e parole possa nuovamente ritrovarsi. Il meccanismo della perdita di se stessi per ritrovarsi al termine del viaggio nei meandri immaginifici tracciati attorno a noi a ben vedere vuole essere un presupposto irrinunciabile di questa compagnia. Il Teatro de los Sentidos, infatti, pare assomigliare ad una torre di Babele risemantizzata al positivo, dal momento che i suoi attori provengono da dodici paesi diversi, dalla Colombia, dal Cile, dal Venezuela e ancora dalla Germania, dall’Olanda, dalla Spagna, dalla Francia, ecc. Proprio questa è una delle grandi peculiarità della compagnia diretta da Vargas, il quale in tal modo viene a svelarci, da raffinato antropologo quale è, la ricchezza della differenza spostando decisamente il baricentro del linguaggio drammaturgico su una comunicazione sineddotica e metaforica in cui i codici del linguaggio verbale sono “sacrificati” alla significanza del gesto, dello sguardo, della modulazione che permetta l’apertura all’alterità. Un metalinguaggio che disorienta e forse un poco violenta lo spettatore che è chiamato a stare al gioco, perché di un gioco si tratta, ma che, da ultimo, gli restituisce il senso di tutto ciò che i viaggi sensoriali, nel bene e nel male, possono offrire. Questa proposta stava, io credo, alla base anche dei precedenti lavori proposti da Vargas la trilogia intitolata “Sotto il segno del labirinto” composta dagli spettacoli “Il filo di Arianna”, “Oracoli”, “La fiera del tempo vivo” e “La memoria del vino”, i quali presentavano un unico filo conduttore: il labirinto. Pur presentandosi accomunati da un medesimo tema questi spettacoli sotto il profilo esperienziale si articolano attraverso sentieri drammaturgici del tutto divergenti tra loro. Ne “Il filo di Arianna” lo spettatore-viaggiatore scopriva, nelle vesti di un Teseo dei giorni nostri, quanto la sua immagine mentale del Minotauro non fosse altro che un inganno dei propri sensi, dal momento che il mostro né era realmente suo nemico né tanto meno si trovava fuori di lui. Un riconoscimento ed una scoperta raggiungibili attraverso un itinerario che si snoda all’interno di un labirinto, rappresentato non solo in senso fisico, ma soprattutto emozionale, sensoriale venendo in tal modo a dare ad una simile esperienza la coloritura di un’intima religiosità. La perdita di se stessi, vero e proprio punto archimedeo del regista colombiano, coincide qui, quasi fossimo in un libro di Malraux, con la rivelazione del miglior modo di viaggiare, con il primo passo compiuto sulla via del ritrovamento di se stessi.

Immagine articolo Fucine Mute

Sotto un mutato segno stilistico-rappresentativo si mostrava “La fiera del tempo vivo” un percorso labirintico liberamente ispirato alla festa del carnevale. Se ne “Il filo di Arianna” l’oscurità, il silenzio e la solitudine davano corpo al sentire dello spettatore “La fiera del tempo vivo” pare restituire il tono emotivo che è capace di suscitare un enorme caravanserraglio dove al buio vengono sostituendosi non meno oscure esplosioni di luce, mentre il rumore assordante manda in frantumi ogni forma di silenzio e dove l’agitazione e l’esplosione mimica e gestuale di saltimbanchi e ciarlatani riempie progressivamente di un vuoto pesante ogni spazio lasciato alla solitudine. Dall’interno di questo fantasmagorico caravanserraglio ci par di sentire le parole del Vargas antropologo intento ad “educare” noi spettatori alla grammatica dell’oscurità, del silenzio e, last but not lea st, della solitudine. È per contrasto, dall’interno di un qualsiasi carnevale, che Vargas e i suoi habitantes, così si chiamano gli attori della compagnia, vengono a diagnosticare i mali del nostro vivere in società, quell’incapacità ad esaltare il corpo attraverso il riconoscimento della sua specifica valenza conoscitiva e, parimenti, connessa al piacere. Le parole sono riposte così nei cassetti della nostra memoria, mentre l’oscurità pare chiamata a ricostituire i presupposti per l’espressione di una nuova grammatica, tutta corporea. Così declinata la fisicità acquista un carattere epistemologico che indubbiamente la cultura occidentale non le ha mai riconosciuto. Il non-luogo carnevalesco con le sue luci, il suo fragore e l’irrinunciabile caoticità viene a ricordarci, in un’immagine rovesciata, lo spessore conoscitivo del nostro corpo, perché le mani vedono, l’olfatto sente e ricorda, mentre l’udito può catturare il silenzio. E noi spettatori? Noi siamo chiamati a comprendere, a recuperare il senso, a rimettere la realtà percepita sulle proprie gambe, a cercare di non confondere più.
La sensorialità del teatro vargasiano è a noi di nuovo restituita attraverso la ricerca di un linguaggio del corpo, di una pressoché infinita interpretabilità del gesto teatrale, che qui diviene in modo spontaneo meta-teatrale, così come viene rappresentata dallo spettacolo “Oracoli”. Si ha qui come l’impressione che il teatro abbandoni se stesso, si spogli d’ogni orpello estetizzante per riportare lo spettatore alla densità psico-emotiva del proprio sentire in un lavoro d’intensificazione delle percezioni umane. Sogno e mistero abbracciano, e pure talvolta rischiano di stritolare lo spettatore, inchiodando ognuno al rapporto col proprio Io, come quando pirandellianamente si è sbalzati in una sala piena soltanto di specchi. Sentiamo di sfuggire a noi stessi, ci sentiamo come quel Vitangelo Moscarda che restituito allo sguardo degli altri non poteva più riconoscersi. Noi, come lui, sentiamo di non poterci mai raggiungerci, di esser condannati sempre a sfuggirci.

Con lo spettacolo che ha preceduto “El Eco de la Sombra”, “La memoria del vino”, Vargas sembra uscire dal labirinto teatrale volto a cogliere il suono delle corde dell’umana intimità, metaforizzando il viaggio degli spettatori attraverso il cammino dell’uva, la qual cosa segna un ritorno alle atmosfere proprie de “La fiera del tempo vivo”. L’uva simboleggia l’uscita dei soggetti dal solipsismo biologico a partire dal quale ognuno viene gettato nel mondo, essa è processualità della fermentazione all’aria aperta, e, una volta divenuta vino, ricerca di convivialità come, parimenti, occasione di riflessione, oltrepassamento di ogni limite e pure ricerca dello stesso. Anche qui sono i sensi a giocare il ruolo di protagonisti, è per il loro potenziamento che il vino rappresenta la bevanda preferita dagli dei, il loro nettare. La vendemmia improvvisata dagli habitantes ci riporta alle atmosfere inebrianti che ogni ricordo autunnale di qualsiasi campagna risveglia in noi. Vargas ci allontana così dalle atmosfere asettiche e prive di odori delle nostre città di oggi, in cui la pulizia, l’ordine estetico di coloro che la vivono pare essersi tramutato in freddezza espressiva, se non addirittura in una completa assenza di espressività corporea che nella sua frigida rigidità pare diffondersi a macchia d’olio. Noi con lui respingiamo questa castrazione dal dolore, come d’altronde, val la pena ricordarlo, dal piacere, odorando l’essenza dell’uva, liberi di abbandonarci al sapore acidulo che hanno gli acini pigiati di una vendemmia. Mentre “La fiera del tempo vivo” sembrava ricercare un piano di lettura critico verso alcune manifestazioni ascrivibili al nostro odierno vivere in società, “La memoria del vino” ritengo che si sospinga oltre alla ricerca di una soluzione che permetta all’essere sociale dell’uomo di esaltare in modo autentico la propria convivialità.
Eccoci, pertanto, lungo questa via posti davanti alla proposta di Vargas: un ritorno ai gesti tradizionali, i quali certamente mai difettano di traduzioni sceniche cariche di estro sovversivo e anticonformista. La tradizione riporta alle campagne, al risveglio di sensazioni affidate ormai ai ricordi, al tatto esercitato alla natura, alla diversità, ad uno stupore, non certo privo d’insidie, che coloro che sono cresciuti in campagna custodiscono gelosamente. La vendemmia è la festa del lavoro condiviso con gli altri, la ricerca di un’unità che garantisce la libertà di ciascuno nel rispetto di tutti quelli che si trovano intorno a lui. È qui, nel rito propiziatorio della vendemmia, suggerisce Vargas, che nasce il contatto con Bacco e ognuno, nell’orgia vitale provocata dal Baccanale, riscopre in sé quelle sfumature della divinità, che, una volta di più, sono in grado di rappresentare il sale dell’umano esistere.

El Eco de la Sombra

Immagine articolo Fucine MuteUno spettacolo ricamato sulle sensazioni e per le sensazioni. È stato qualcosa di eccezionale e al livello del sentire difficilmente eguagliabile. Straordinario.
Siamo dolcemente cullati da ogni nostro sentire, la calma, la pace dello spirito s’impossessano di noi e muovono ogni singolo muscolo del nostro corpo. Non vi è inquietudine che non sia della nostra psiche. Sin dall’inizio ogni spettatore è trasportato in un’atmosfera rarefatta ed è come andare, viaggiare, a-ritroso nel nostro tempo. Rimettere indietro le lancette della nostra esistenza e…tornare bambini. È dai libri che parte tutto e dai modi garbati di un moderno Virgilio che ci invita a scegliere il romanzo, non uno qualunque, ma quello della nostra vita. “Sono io ciò che mi manca…” recitano i primi versi del testo da noi scelto e con esso comincia anche il nostro viaggio.
Una dolce cantastorie ci narra l’inizio del libro della nostra esistenza, che ci accingiamo a scrivere, stando sdraiati a sentire le sfumature della voce, il ritmo cullante e come bambini avremmo voglia di prender sonno su quel giaciglio, di chiudere i nostri occhi davanti ai suoi. E invece no. Lo spettacolo, metafora della nostra vita, va avanti.
Si è trasportati in una stanza con al centro una girandola, un’ombra è riflessa su un lenzuolo, e un piccolo uomo ci viene incontro, per disegnare sul nostro libro, noi e il nostro viaggio. Segue il buio, tanto buio e segue la nostra ombra a stagliarsi di fronte a noi, ad inseguirci e noi a ricercarla in un gioco di specchi e sensazioni che d’improvviso ci scopre soli e inquieti. È l’impressione di un attimo, perché come nelle migliori fiabe sbuchiamo, usciti dal buio, davanti ad una minuscola casetta, dove una donna dopo che ci ha invitati a sedere bagna di colla le pagine della nostra vita. Rimane un segno, una traccia tra le pagine delle nostre sensazioni che ce le renderà sempre riconoscibili. La colla è la traccia che segna i confini del ricordo, il ricordo di questi odori, di questi rumori surreali, silenziosi, delle nostre sensazioni.
Sotto un tavolo imbocchiamo una ragazza. Lei aggressiva e noi bambini inquieti che stiamo al gioco, affascinati e quasi senza capire. E il viaggio continua fino a respirare nuovi odori attorno a un albero, noi, l’altra e la nostra ombra. Di qui ancora a giocare col simulacro di noi stessi, che pare ormai indistinguibile rispetto al nostro essere in carne ed ossa come nella favola di Andersen dove si assiste al drammatico capovolgimento dei ruoli tra l’uomo e la sua ombra, a sentire l’eco della sua presenza, a perderci con un grazioso folletto della nostra coscienza, nelle azioni soffici, lente e aggraziate imposteci dal nostro alter ego. Da ultimo non poteva mancare il ponte, e prima di nuovo il buio, mentre i nostri passi si fanno sempre più leggeri, eterei, perché non siamo noi a viaggiare ma la nostra ombra. Essenze orientali da una barchetta di carta ci ricordano l’esperienza anche corporea di questo sublime spettacolo. Arriviamo in una stanza soffice ancor quasi storditi da tanto navigare in mare aperto. Veniamo fatti accomodare su tappeti e cuscini e un oste ci offre del tè.
Chissà se siamo giunti al termine del viaggio, mi chiedo, non lo posso sapere perché come in un gioco di ombre nel quale siamo stati trasportati, non possiamo saper prima di agire ciò che ci aspetta. Io e la mia ombra, infatti, stiamo scrivendo queste righe dai cuscini della stanza nella quale ci siamo silenziosamente accovacciati.

Immagine articolo Fucine MuteSpererei che il viaggio non finisse qui, che questa fosse la nostra dimensione esistenziale quotidiana. Vargas e i suoi è come se ci proponessero uno scambio, scambio che noi non possiamo non accettare. Dacci indietro tutta la tua stanca e reiterata razionalità e prendi questa valigia di sensazioni è con loro che compirai il viaggio. Abbine cura. Restare in silenzio, soli, al buio e mettersi in ascolto. Non c’è più niente da capire, occorre solo mettersi a sentire e… a cercare. Sentire se stessi, ricercarsi infinite volte, rimirando il punto dal quale siamo partiti, ma non la destinazione. È un viaggio nelle nostre emozioni e in esse non esiste la dimensione del Tempo. Esistono loro e noi le sentiamo, e, forse, il prodotto di questo sentire potrà essere anche l’inquietudine.
“El Eco de la Sombra” sembra quasi che voglia educarci e di sicuro vuole essere un monito a rimanere il più a lungo possibile in ascolto di noi stessi. A noi che quotidianamente siamo sbranati dal tempo, lo dividiamo, lo razionalizziamo, divenendone poi consapevoli vittime, Vargas ci mostra una via consigliandoci di vivere la nostra condizione temporale, il nostro esser-gettati, come una durata estesa, immergendoci completamente nel sentire. Perché da ultimo mai abbiamo cancellato dal nostro volto lo sguardo di bambini stupiti, noi come loro possiamo tornare a dimenticarci di vivere nel tempo avvertendo la gioia di quanto ancora sia dolce farlo, leggero e vitale come una sensazione.

Enrique Vargas è nato nel 1940 a Manizales in Colombia, studia drammaturgia, regia e recitazione alla Scuola Nazionale D’Arte Drammatica di Bogotà, e antropologia teatrale in Michigan (U.S.A.). Per quattro anni è stato drammaturgo stabile in uno dei più importanti teatri della sperimentazione mondiale, il famossisimo teatro La Mama di New York e successivamente è stato il direttore e drammaturgo del Gut Theatre ad East Harlem. Con il Teatro de los Sentidos (Teatro dei Sensi) ha prodotto spettacoli-installazione comissionati od ospitati da molti dei più importanti festival del mondo. “Oracoli” infatti, arriva in Italia dopo Londra, Zurigo e Berlino, ma già da anni viene riproposto in versioni ogni volta diverse in altre capitali culturali internazionali.

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