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Omnia

Il teatro attraverso la filosofia di Gilles Deleuze (II)

L’Edipo e la psicanalisi

Con riferimento alla tematica del giudizio e all’affermazione che, a partire dal teatro di Sofocle, si instaura un tribunale, Deleuze e Guattari vanno ad indagare il rapporto tra la tragedia sofoclea per eccellenza, l’Edipo Re, e la psicanalisi.

Già in Logica del senso, Deleuze affronta la questione dell’Edipo, in particolare rispetto alla formazione del linguaggio; è “la tragedia dell’Apparenza”, in cui Edipo agisce come “l’eroe delle superfici” e l’autore se ne serve per delineare il percorso che porta dalle formazioni pre-linguistiche, alla parola e all’organizzazione della superficie fisica, che precede la costituzione della superficie metafisica. “…proprio come la superficie fisica è una preparazione della superficie metafisica, l’organizzazione sessuale è una prefigurazione dell’organizzazione del linguaggio.”.[1] In Logica del Senso, quindi, Deleuze, approfondisce le proprie riflessioni — a partire dall’Edipo — e pur criticando la psicanalisi non si pone in netta opposizione, come accadrà invece in seguito.

Già dall’anti-Edipo, invece, il colloquio con Deleuze e Guattari riportato in Deleuze,[2] l’indagine psicanalitica, per i metodi di cui si è servita finora, viene definita “una messa in scena da teatro che sostituisce semplici valori rappresentativi alle vere forze produttive dell’inconscio”, ossia un processo di personificazione delle macchine di desiderio, che imbriglia il loro potenziale riducendole a “macchine illusionistiche”. Il desiderio, forza positiva e produttiva dell’inconscio, che si esprime tramite un linguaggio delirante, intensivo, appartenente ad una “follia della profondità” dalla quale, come si è detto, proviene l’esperienza teatrale di Artaud, viene qui bloccato e ridotto ad “una scena da teatro”.

La tragedia non rappresenta più un esempio esplicativo della differenza che passa tra romanzo famigliare ed opera d’arte:[3] ne L’anti-Edipo Deleuze e Guattari “rimproverano” a Freud di aver mascherato la produzione desiderante inconscia alienandola nella rappresentazione famigliare di Edipo, e sebbene il loro attacco sia diretto sostanzialmente all’uso che la psicanalisi fa di Amleto e Edipo Re, la portata creativa di questa tragedia sembra messa in secondo piano.

Tuttavia: “Non vogliamo dire che Edipo, o il suo equivalente, varia con le forme sociali considerate. Crederemmo piuttosto, con gli strutturalisti, che sia un’invariante. Ma è l’invariante di un distoglimento delle forze dell’inconscio. è per questo che noi attacchiamo Edipo, non in nome di società che non lo comporterebbero, ma in quella che lo comporta eminentemente, la nostra, la capitalistica.”[4] La nozione di invariante riferita all’Edipo, nel successivo L’immagine-tempo. Cinema 2, ad esempio, rappresenta una delle condizioni essenziali alla conservazione degli ideali trascendenti su cui si fondano i sistemi maggioritari, per cui l’attacco è diretto contro la psicanalisi in quanto sistema o “Strato” repressivo.

La messa in scena nella quale il desiderio viene rappresentato nega perciò il reale e si presenta sotto un’altra luce rispetto a quel teatro della ripetizione come manifestazione della differenza, di cui Deleuze parla in Differenza e ripetizione e al quale attribuisce una valenza eversiva ed un diverso potenziale.

Con la riduzione dei processi inconsci alla scena di Edipo, la “riduzione delle fabbriche dell’inconscio a una scena di teatro, Edipo, Amleto […] Edipo non è affatto una formazione dell’inconscio”,[5] quella che è stata definita una “svolta idealistica” della psicanalisi l’ha condotta a fissarsi sulla nevrosi, impedendole di confrontarsi con la psicosi, e con le manifestazioni inconsce che la originano, se non riconducendole alla scena famigliare e teatrale.

Come conseguenza di questa rimozione, il processo psicotico schizofrenico che per D&G è una manifestazione delle forze dell’inconscio desiderante, per riuscire ad esprimersi non può che costruirsi un linguaggio “altro”, quello della poesia o di una certa letteratura: non a caso, emergono nuovamente i nomi di Artaud e di Beckett. Deleuze e Guattari riconoscono a questi autori la capacità di messa in atto, attraverso la scrittura, di un “procedimento schizofrenico, di decodificazione e deterritorializzazione” ed mettono in evidenza la potenzialità delle loro opere — attraversate da “flussi” o “intensità” — di essere degli “schizo-libri”,[6] di presentarsi al contempo come opere artistiche e rivoluzionarie, nel senso che i due autori attribuiscono al termine.

Giunti a questo punto, mi sembra opportuno fare riferimento al saggio di Pier Aldo Rovatti Il paiolo bucato, dove, a proposito di Logica del senso di Deleuze, segnala la differenza di approccio alla questione dell’Edipo rispetto ai successivi testi scritti in collaborazione con Guattari. Sembra, infatti, che se in Logica del senso il filosofo francese abbia segnalato le oscillazioni tra un’arte più legata alla profondità, e la forza di opere “di superficie”, che si mantengono in bilico tra profondità/altezza — tra cui l’Edipo Re, appunto — nonché la difficoltà di trovarsi in questo equilibrio, ne L’anti-Edipo la questione del rapporto tra queste “due follie” venga invece messa in ombra dall’inconscio desiderante e da una produzione artistica capace di esprimerlo direttamente, come se l’oscillazione tra senso e non-senso agisse ora in profondità.[7]

La questione cambia ancora in Critica e clinica, dove, riguardo al processo artistico di creazione dell’opera d’arte, Deleuze sostiene che: “La nevrosi, la psicosi non sono passaggi di vita, ma stati in cui si cade quando il processo è interrotto, impedito, chiuso”.[8] A questo punto, sembra allora che anche la psicosi, da forza produttiva dell’inconscio, assuma poi le stesse caratteristiche negative della nevrosi di stampo psicanalitico: entrambe sono degli impedimenti alla realizzazione di ogni produzione artistica.

Ed i rimandi proseguono: in Conversazioni, Deleuze fa riferimento alla vicenda di Edipo, tragedia-cesura tra il teatro di Eschilo e quello di Sofocle, che rappresenta il punto di biforcazione tra una forma drammatica slegata dal giudizio e quelle successive nelle quali invece compare e si instaura un tribunale. Qui Deleuze segnala però un’ulteriore separazione, tra l’Edipo Re e l’Edipo a Colono: “Per quel che ci riguarda, abbiamo creduto di vedere nell’Edipo lo sporco piccolo segreto, non certo però l’Edipo a Colono, nella sua linea di fuga, divenuto impercettibile, identico al grande segreto vivente. Il grande segreto si dà, quando uno non ha più nulla da nascondere …”.[9]

Il piccolo segreto, il significante, il fantasma, l’identità, il volto, bloccano qualsiasi scrittura nell’interpretazione, nella storia personale, impediscono qualsiasi divenire: l’Edipo si divide in due, da una parte la tragedia già analizzata da Deleuze e Guattari ne L’anti-Edipo, dall’altra la continuazione della storia che però si apre in una linea di fuga: e forse ora Deleuze colloca la cesura, la biforcazione, in mezzo a queste due opere.

Anche nei due volumi che compongono e completano l’opera pubblicata da Deleuze e Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia,è ripresa ed approfondita (come seguito de L’anti-Edipo)la questione della psicanalisi e dell’apparato edipico che ha eretto come sua struttura invariabile e in base al quale ha annullato la possibilità di qualsiasi produzione inconscia non riconducibile alla dualità nevrosi-psicosi. In Mille Piani gli autori denunciano il blocco del processo di produzione di inconscio, ossia del divenire, di molteplicità che si compenetrano secondo la logica del concatenamento e non dell’opposizione dialettica, di enunciati come “agenti collettivi di enunciazione”,[10] e non come prodotti individuali.

Allo schema edipico, l’invariante dell’interpretazione psicanalitica, elemento dominante di tutta la realtà occidentale, i due autori oppongono la propria schizoanalisi, che non riduce l’inconscio alle sue interpretazioni, ma si configura come produzione, secondo una logica rizomatica.

L’analisi dell’Edipo Re rimette in gioco anche la nozione di viseità, — “macchina astratta” che producendo volti, produce anche identità, significanti, (poiché è uno degli elementi che definiscono la soggettività) — e di tradimento, quando i volti, distogliendosi l’uno dall’altro, favoriscono la formazione di una linea di fuga.

In questo volume, Deleuze e Guattari confermano l’ambiguità della vicenda dell’Edipo Re, caso pressoché unico nel mondo greco di evoluzione di una tragedia la cui prima parte appartiene ad una struttura sociale “imperiale, dispotica, paranoica, interpretativa, pretesca…della significanza e dell’interpretazione”, [11] mentre nella seconda parte, l’Edipo a Colono, come sostenuto in Conversazioni, si dipana quella linea di fuga conseguenza del tradimento, dell’erranza, del sottrarsi all’ordine divino (contemporaneo al suo distogliere il volto), che conduce verso la sopravvivenza e l’autonomia della scelta del soggetto.

Ma l’analisi di Mille Piani prosegue, e sposta la linea di fuga ancora più in là, poiché la direzione che la seconda fase dell’Edipo ha preso porta anch’essa verso una riterritorializzazione, in questo caso nel regime della soggettivazione, con la costituzione di un’altra linea. L’alternativa alla riterritorializzazione è la possibilità di una “deterritorializzazione assoluta positiva sul piano di consistenza, sul ‘corpo senza organi’”,[12] il quale assume su di sé il peso della desoggettivizzazione assoluta, dell’assenza di ogni interpretazione, al contrario di ciò che persegue la psicanalisi.

Il riferimento teatrale più immediato resta anche in questo caso Artaud, uno dei pochi interpreti in grado di spingersi oltre la dialettica dell’“Uno e del Molteplice” verso quel piano d’immanenza-consistenza del desiderio che è il corpo senza organi, o “CsO”. La questione non è qui forse se e come Artaud sia riuscito, anche solo teoreticamente, nel suo tentativo di formulare un’ipotesi di teatro totale, “crudele” e “sacro”, quanto di cogliere nei rimandi che Deleuze e Guattari ne fanno, lungo tutta la loro comune produzione filosofica, un segnale che invita a considerarlo come una figura provocatoria rispetto al comune modo di pensare e produrre arte, una macchina da guerra per l’arte teatrale contemporanea.[13]

Per un breve sguardo più generale sulla questione edipica in Deleuze e Guattari, Maurizio Ferrarsi sostiene che: “si è visto come ne L’anti-Edipo il problema non fosse la rivendicazione del desiderio contro la sua repressione, ma l’affermazione del molteplice contro le istanze negative comportate dal monismo.”[14] Sostanzialmente, laddove la psicanalisi interpreta il desiderio come negatività, servendosi di “griglie simboliche” quali la ragione e l’Edipo, schizofrenia e nevrosi si rivelano invece come due momenti del desiderio, l’uno attivo, l’altro reattivo, e la scelta cade sulla schizofrenia in quanto modalità affermativa della molteplicità del reale, e sulla schizoanalisi come un progetto di critica affermativa, soprattutto dopo L’anti-Edipo: “eccezion fatta per le proposte circa la schizoanalisi, L’anti-Edipo può essere letto come una critica a partire dall’affermativo, e non come una “critica affermativa”. Il suo seguito in Mille Plateaux, annunciato esplicitamente, vi era perciò implicato logicamente.”[15]

Resistenza

L’opposizione ad ogni impedimento al processo creativo dipende in sostanza soprattutto dalla capacità degli artisti minori di riaprire il processo di divenire, necessario alla creazione delle proprie opere e che appartiene altresì ad ogni opera d’arte in quanto tale, compiuta in sé eppure aperta ad ogni utilizzo e manipolazione (in senso positivo come negativo), mediante quella che Deleuze definisce resistenza o “cura di sé”.

In uno scritto precedente a L’Abecedaire [16]Deleuze descrive la complessitá di quest’operazione di critica ovvero minorazione dei classici, diversa da una semplice interpretazione, che implica una radicale trasformazione da parte dell’artista quale macchina da guerra che se ne fa portavoce: in questo caso egli vede in Bene uno degli artisti in grado di realizzare questo progetto — nel cinema come in teatro.

Il lavoro del filosofo è analogo a quello dell’artista, in quanto entrambi affrontano processi di creazione — di concetti come di percetti — e appunto, di resistenza, poiché per l’artista come per il filosofo è necessario resistere — alla volgarità, alla “bestialità” del pensiero, dell’opinione — attraverso la creazione delle proprie opere.[17]

La nozione di resistenza assume quindi le stesse caratteristiche attribuite ad ogni minoranza, di realtà critica di fronte ad ogni pensiero maggiore, stabile, assiomatico, che sostanzialmente si rapporta alla molteplicità del reale con la problematizzazione del soggetto, dello spaesamento e con l’assunzione di una dimensione nomadica. “Questa visione nomadica del mondo e dell’esistere comporta, da un punto di vista etico-politico, la necessità di dover ridefinire il soggetto posto ora nell’ottica di un reale inteso come molteplicità e divenire. Una soggettività che Deleuze ‘progetta’, in sintonia con Foucault, come ‘fuoco di resistenza’ […] un fuoco che si concretizza come ‘diritto alla differenza’ e alla metamorfosi”.[18]

Interferenze ed incontri

Da Differenza e ripetizione a Logica del senso fino a Che cos’è la filosofia? la necessaria autonomia dell’opera d’arte rispetto ai vissuti dell’artistacostituisce un assunto per Deleuze e Guattari. L’opera d’arte è infatti pensata come un blocco, un composto di “percetti” ed “affetti”, esseri dotati di realtà propria, indipendenti ed eccedenti l’uomo, l’artista che li traspone e filtra nella sua realizzazione e che ribadisce la facoltà dell’opera d’arte, in quanto simulacro, di allontanarsi dalla rappresentazione ossia di farsi espressione dell’esperienza reale.

Qui gli autori rispondono positivamente anche all’interrogativo sulla possibilità che i dipinti degli artisti cosiddetti “folli” possano acquisire o meno questa autonomia, necessaria per conferire alle opere stesse la capacità di “stare in piedi da soli”.[19] A certe condizioni, però, proprio perché in questi casi entra in gioco un’altra dimensione espressiva: il caso della follia di un artista rimanda anche alla questione dell’artista come mezzo, si veda Nijinskj, ballerino classico ed autore di un diario in cui emerge il difficile rapporto tra la propria arte e la malattia, come per Artaud, che a sua volta è un esempio della difficoltà di mantenere questo sottile equilibrio. Chiunque sia l’intermediario umano attraverso cui l’arte si concretizza tramite sensazioni, queste non fanno riferimento al soggetto percipiente, alla sua memoria o esperienze personali; di conseguenza la follia diventa un elemento marginale rispetto all’opera stessa.

La persistenza ed autonomia dell’opera d’arte non prescinde, però del tutto dal processo creativo che coinvolge l’artista, come detto in Logica del Senso a proposito della differenza che intercorre tra il romanzo famigliare e l’opera d’arte, ribadita qui tra le nevrosi e le sensazioni, ad indicare una linea sottile ma determinante che definisce la dimensione in cui agisce un’artista in quanto tale.

I diversi momenti del processo di creazione artistica che di volta in volta era stato indagato con l’ausilio delle parole di Proust e di Kafka, della pittura di Francis Bacon, del teatro di Artaud e Bene, solo per citare alcuni autori ricorrenti nei loro scritti, vengono infatti analizzati qui nell’insieme del piano proprio dell’arte e delle sue relazioni con quello della filosofia e della scienza.

In questo processo l’artista crea diventando un tramite, dal momento in cui non parla di sé nella sua creazione: il divenire-qualcos’altro richiede necessariamente, in ogni arte, uno stile: “la sintassi di uno scrittore, i modi e i ritmi di un musicista, i tratti e i colori di un pittore — per elevarsi dalle percezioni vissute al percetto, dalle affezioni vissute all’affetto.”[20]

Ritroviamo qui la nozione di divenire così come quella di stile, caratteristiche necessarie al processo creativo, ed anche l’immagine dell’artista come colui che, allo stesso modo del filosofo, si fa testimone di ciò che sarebbe difficilmente sopportabile per altri, attraverso esperienze che, pur avvicinandolo alla morte, (seguendo un legame sottolineato già in Differenza e ripetizione) gli sono necessarie per vivere.

Ed anche la minorazione e le variazioni che lo scrittore fa subire al linguaggio trovano qui una propria collocazione all’interno dei concetti di affetto e percetto, in quanto questo è proprio il compito del linguaggio dell’arte in generale: “la pittura, la musica a loro volta strappano ai colori e ai suoni i nuovi accordi, i paesaggi plastici o melodici, i personaggi ritmici che li elevano fino al canto della terra e al grido degli uomini: è questo che fa il tono, la salute, il divenire, un blocco visivo e sonoro.”[21]

Ogni artista genera quindi delle variazioni, delle alterazioni nella propria arte, che vanno a confluire in un divenire necessario all’arte stessa (ed all’artista), sostanzialmente in quel divenire-altro più volte descritto da Deleuze e Guattari: d’altro canto, c’è un divenire che concerne anche i concetti filosofici ed il filosofo che li elabora, tuttavia non si tratta dello stesso che è specifico dell’arte. “Il divenire sensibile è l’atto in virtù del quale qualcosa o qualcuno non cessa di divenire-altro (continuando a essere ciò che è), girasole o Achab, mentre il divenire concettuale è l’atto attraverso cui l’evento comune stesso schiva ciò che è.”[22]

Questa affermazione introduce in parte la natura e per così dire le differenze che intercorrono tra i piani della filosofia, della scienza e dell’arte, i modi in cui questi piani si intersecano (di cui un esempio fondamentale è lo Zarathustra di Nietzsche) così come i limiti che si constatano all’interno di questo processo di reciproche interferenze.

Rispetto alle tre interferenze tra i piani — estrinseche, intrinseche ed illocalizzabili — entrambi si sono dedicati più spesso a quella sorta di “scivolamento” di concetti e personaggi concettuali, tra le sensazioni e le figure estetiche, di spostamento relativo dal piano della filosofia in quello dell’arte.

Ma è sull’interferenza illocalizzabile che le riflessioni fatte sinora trovano un punto d’incontro: i due autori affermano, infatti, l’esistenza di una zona d’ombra, un “Non” che accompagna ogni disciplina in tutto il suo percorso, dalla quale attingiamo necessariamente poiché: “La filosofia ha bisogno di una non-filosofia che la comprenda, ha bisogno di una comprensione non-filosofica, come l’arte ha bisogno di non-arte e la scienza di non-scienza.”[23], e che si colloca dove ancora i confini dei suddetti piani non sono definiti.

Il tema delle interferenze che si verificano tra i piani di filosofia, scienza ed arte nelle opere di determinati autori viene ripreso da Deleuze anche nell’ambito de L’Abecedaire; in questo contesto l’autore riprende anche il tema della creazione di concetti, del “fare filosofia” come di un’attività pratica, che comporta l’uscita dalla filosofia stessa, poiché restare dentro un certo territorio implica al contempo uscirne; questo comporta soprattutto l’accogliere e il farsi tramite di stimoli, di sollecitazioni provocate da determinati incontri. Il momento dell’incontro — con oggetti, dipinti, brani musicali, scritti filosofici altrui — è un evento sostanzialmente casuale attraverso il quale la creazione di concetti nasce e si sviluppa: da filosofo, in queste pagine egli descrive in prima persona il processo grazie al quale si è fatto testimone e portavoce di quelle interferenze tra piani, in questo contesto tra quello della filosofia e quello dell’arte, che lo hanno influenzato, segnando il percorso della sua produzione filosofica.[24]

Attraverso un incontro viene infatti concessa al filosofo la possibilità di testimoniare direttamente con la propria filosofia — il proprio mezzo — le contaminazioni possibili tra due piani, “di andare oltre la filosofia attraverso la filosofia”, e di confermarne la funzione pratica (vedi L’immagine-tempo. Cinema 2).

Durante l’intervista Deleuze si riferisce quasi esclusivamente all’arte: l’incontro avviene nel suo caso più facilmente con un dipinto, o al cinema, più raramente a teatro, eccezion fatta per Wilson e Bene. Quello che l’artista può offrire, le idee o le immagini che suggerisce e che il filosofo può accogliere, proviene da quella zona d’indeterminazione, il caos, dalla quale entrambe le discipline — arte e filosofia — nascono e prendono poi forma: ed è forse grazie a quella zona d’ombra che le accompagna sempre, prima ancora che queste assumano una qualunque consistenza, che l’una fa riferimento e “si ritrova” nell’altra nell’incontro successivo tra i rispettivi piani, senza che questo reciproco influsso abbia origine — o termine — in qualche punto preciso.

L’incontro con il cinema: un confronto tra cinema e teatro

I due volumi di Cinema rappresentano un approfondita “incursione” di Deleuze nella sfera dell’arte, dovuta anche al proficuo incontro con le opere di alcuni registi cinematografici, e pur collegandosi ad altre riflessioni fatte in precedenza, costituiscono tuttavia un blocco a sé stante: “è degno di nota che, fatta qualche rara eccezione […] l’enorme batteria di concetti utilizzati in Cinema non ha riscontro in nessuno dei suoi libri precedenti e non avrà una eco diretta in quelli successivi.”[25]

Come già ricordato, l’autore stesso ribadisce l’importanza di fare filosofia anche attraverso l’analisi del fatto cinematografico, di sviluppare cioè le interferenze tra piani diversi; in questi volumi, seguendo la storia del cinema si è infatti occupato anche di storia della filosofia.[26]

Una delle questioni riprese è quella relativa al giudizio, già affrontata a partire da Spinoza e poi riferita al cinema di Orson Welles, a cui è connessa la nozione di falso movimento (o movimento decentrato), potenza del falso che si manifesta attraverso l’artista, colui che non crea verità ultime ma arte, continua produzione di verità.[27]

Nel capitolo Il cinema e il pensiero, invece, Deleuze analizza il rapporto che intercorre tra i vari tipi di immagini cinematografiche ed il pensiero, di cui l’ultimo genere è definito con l’identificazione di concetto e immagine, pensiero-azione, prassi che “designa il rapporto fra l’uomo e il mondo ”,[28] secondo una caratteristica propria del cinema e sconosciuta al teatro, un “movimento che va dall’esterno all’interno”. In questo contesto riappare la figura di Artaud, poiché Deleuze riscontra nella sua ricerca continua di una “vibrazione”, di uno choc necessario a provocare il pensiero, l’indicazione della frattura del rapporto uomo-mondo che emerge nel cinema moderno e non in quello classico.

Ciò che va sottolineato è “l’impensato del pensiero”, il fatto che noi in realtà non pensiamo ancora: la consapevolezza di tale mancanza si ottiene proprio tramite l’aberrazione del movimento, quel decentramento di cui l’autore parlava in relazione a Welles, la rottura dell’immagine senso-motoria che di conseguenza rende visibile l’incrinatura del rapporto tra l’uomo e il mondo ad essa preesistente: “La rottura senso-motoria fa dell’uomo un veggente colpito da qualcosa di intollerabile nel mondo e confrontato con qualcosa di impensabile nel pensiero. Tra i due, il pensiero subisce una strana pietrificazione, che è come se fosse la sua impotenza a funzionare…”.[29]

Artaud si sforza di riconciliare ogni separazione attraverso la riscoperta della dignità del corpo, della carne, alla ricerca dei mezzi tramite cui esso possa esprimersi: in accordo con quest’impostazione, anche per Deleuze il corpo diventa la dimensione nella quale il pensiero deve immergersi per recuperare l’impensato, la vita, per colmare questo legame perduto che è l’origine della nostra nevrosi moderna. Il cinema, dal canto suo, rappresentando il corpo rappresenta anche il tempo che su di esso si inscrive, immagine-tempo: “L’atteggiamento del corpo è come un’immagine-tempo, quella che mette il prima e il dopo nel corpo, la serie del tempo.”[30]

Deleuze afferma che la sua opera sul cinema propone dei parallelismi tra i sistemi filosofici classici e le forme di montaggio tipiche del cinema classico, con le problematiche emerse nel cinema moderno, collegate a quelle della filosofia contemporanea (la rottura dello schema senso-motorio come quella del rapporto uomo-mondo). Inoltre, i filosofi di riferimento sono ancora Kant, Kierkegaard, Nietzsche, grazie ai quali la stessa operazione di accostamento tra concetti filosofici e storia della filosofia con l’evoluzione artistica indicata da Deleuze in relazione anche ad altre arti, tra cui il teatro, è stata possibile.

Facendo un passo indietro, si possono individuare alcuni tra i momenti in cui l’autore specifica le possibilità espressive di teatro e cinema: le differenze emergono soprattutto nell’analisi del rapporto cinema-corpo-pensiero; la ricerca di Artaud viene qui accostata a quella di Bene, poiché sembra che anche quest’ultimo abbia creduto che “il cinema possa operare una teatralizzazione più profonda del teatro stesso, ma lo crede solo per un breve istante […] alla capacità che avrebbe il cinema di dare un corpo, cioè di farlo, di farlo nascere e scomparire in una cerimonia, in una liturgia.”[31]

D’altro canto, secondo Deleuze non è tanto sulla “presenza” dei corpi, che agisce nel teatro, ma non al cinema, che si gioca questa differenza, quanto sulla possibilità propria dell’immagine cinematografica di restituirci, a partire dalla loro assenza, la genesi dei corpi, “di un ‘corpo sconosciuto’ che abbiamo dentro la testa, come l’impensato del pensiero, nascita del visibile che ancora si sottrae alla vista.”[32]

Con quest’affermazione rimanda anche alle riflessioni di Spinoza. Filosofia pratica, riguardo all’importanza accordata da Spinoza al rapporto corpo-pensiero, nel rilevare cioè quanti aspetti sconosciuti del nostro corpo minano la nostra conoscenza in merito, e parallelamente quanto vi è d’inconoscibile nel nostro pensiero che supera la nostra coscienza.[33]

In queste pagine si conferma quindi l’importanza dell’immagine cinematografica che, attraverso la rottura dello schema senso-motorio, ci permette di osservare il nostro corpo in un’ottica finora impensata e parallelamente di confrontarci con la questione dell’impensato del pensiero.

Carmelo Bene indaga le possibilità espressive del corpo nell’immagine cinematografica opponendo invece alla visibilità dell’immagine cinematografica quella cecità dell’immagine che, da cineasta, ha sempre perseguito. Aggiunge un’ulteriore sfaccettatura al legame cinema-corpo-pensiero poiché crea un corpo nel cinema, per il cinema, facendolo passare attraverso un rituale, una cerimonia e poi una decostruzione finalizzata “alla scomparsa del corpo visibile”,[34] alla ricerca di sonorità pure, separate dal corpo che le esprime. “Così come avevo inaugurato un teatro irrappresentabile in cui la presenza-assenza attoriale eccede la visione e il ridire (riferito) del dis-corso nella musicalità della voce-ascolto. Ho sentito l’urgenza di sfidare — frantumandola — l’immagine-corpo…”.[35]

Un’altra caratteristica del cinema riguarda la gestione del sonoro, (in relazione all’immagine visiva) come ulteriore aspetto dell’immagine-tempo: Deleuze prende in considerazione rispettivamente l’elemento della conversazione sonora, l’inseparabilità di voce e rumori in una sorta di continuum sonoro, e la possibilità dell’indipendenza e della prevalenza di quest’ultimo sull’immagine visiva, come tre possibilità espressive che generalmente in teatro non si possono rendere.

In precedenza aveva però affermato che l’operazione di liberazione delle potenze sonore in teatro è la sfida principale che Bene ha raccolto in vista proprio di un suo rinnovamento, e per meglio approfondire questa ricerca in ambito esclusivamente teatrale, servendosi di supporti elettronici, ha abbandonato il cinema, ritenuta un’arte troppo limitata per i suoi scopi.[36] Anche per quel che riguarda la conversazione sonora, Deleuze non esclude la sua realizzazione anche in teatro; Wilson viene citato come l’unico regista in grado di metterla in scena.

Sembra allora che l’inadeguatezza del teatro rispetto al cinema, almeno per quel che riguarda il sonoro, sia relativa, più che ad una qualche mancanza del mezzo artistico in sé, all’esiguità di sperimentatori contemporanei che hanno creduto ed osato un rinnovamento teatrale.

Tra l’altro, anche per quel che riguarda Artaud, l’autore premette che anch’egli, come Bene, si occupò di cinema fino ad un certo punto: “Per un breve momento Artaud ‘crede’ nel cinema […] ma molto presto rinuncia”.[37] Sia Bene che Artaud hanno utilizzato il cinema come un campo entro cui sperimentare la propria creatività, ritenendo però, in ultima analisi, la “settima arte” inadatta a soddisfarla: Artaud dal canto suo, rifiuta l’iscrizione e conseguente appiattimento sulla pellicola di quella vibrazione vitale ricercata tramite il teatro: “Il mondo cinematografico è un mondo morto, illusorio e segmentato. Oltre a non socchiudere le cose, a non entrare nel centro della loro vita, oltre a trattenere solo l’epidermide delle forme e a posizionarsi in un angolo visuale estremamente ristretto, impedisce ogni risistemazione e ogni ripetizione, condizione fra le più necessarie dell’azione magica.”[38]

In conclusione a questo secondo volume sul cinema, Deleuze sembra riannodare le fila ed indicare comunque delle prossimità piuttosto che delle distanze tra teatro e cinema: “Nel cinema moderno, al contrario, [del cinema classico dominato dall’immagine-movimento e quindi legato ad una rappresentazione indiretta del tempo] l’immagine-tempo non è più né empirica né metafisica, è ‘trascendentale’ nel senso kantiano del termine: il tempo esce dai suoi cardini e si presenta allo stato puro.”[39]

Già in Differenza e ripetizione Deleuze aveva fatto riferimento alla forma pura del tempo relativamente alla filosofia kantiana: inoltre, proprio a proposito della funzione dell’attore teatrale, collocava il processo di contro-effettuazione dell’evento di cui l’attore è tramite su quella linea retta illimitata che è il presente di Aiôn, ovvero pura forma vuota del tempo. Ed inoltre, “il tempo esce dai propri cardini” è la frase dell’Amleto utilizzata per indicare un tempo non più subordinato al movimento, così come la riferisce in Cinema 2 con la stessa motivazione: “L’immagine-tempo non implica l’assenza di movimento […] ma implica il capovolgimento della subordinazione; non è più il tempo ad essere subordinato al movimento, ma il movimento a subordinarsi al tempo […] è il movimento in quanto falso movimento, in quanto movimento aberrante, a dipendere ora dal tempo.”[40]

Ed ancora, la questione emersa in Cinema 2 sull’impensato del pensiero, che risalterebbe con particolare evidenza nel cinema moderno, richiama alla mente la nozione di crudeltà artaudiana, citata a partire da Differenza e ripetizione in relazione all’emergere della differenza nel pensiero. Con lo stesso intento, infatti, Deleuze adotta la definizione di “cinema della crudeltà”,[41] a sottolineare la possibilità per il cinema di giungere ad esprimere il pensiero attraverso l’immagine, in virtù dell’immagine automatica, che “esige una nuova concezione del ruolo e dell’attore, ma anche del pensiero stesso […] L’insieme è costituito dal rapporto tra l’automatismo, l’impensato e il pensiero”.[42]

L’immagine automatica pone, infatti, il problema del rapporto con il “fuori”, che è l’impensato: a Deleuze preme indagare le conseguenze dell’introduzione di questo fuori, che chiama l’interstizio tra due immagini, evidenti nel cinema di Jean Luc Godard. “Data un’immagine, si tratta di scegliere un’altra immagine che introdurrà tra le due un interstizio. Non è operazione di associazione ma di differenziazione…E’ il metodo del TRA, ‘tra le due immagini’, che scongiura ogni cinema dell’Uno […] far vedere l’indiscernibile, cioè la frontiera”;[43] non solo, ma questi interstizi si producono anche nell’immagine visiva, nell’immagine sonora, e tra l’una e l’altra.

Dopo l’analisi della crudeltà e l’emergere della differenza, costitutiva del teatro della crudeltà, anche in questo moderno cinema crudele agisce un processo di differenziazione, che si realizza nel montaggio, e che porta ad una ridefinizione del nostro rapporto con il pensiero, come già in Welles.[44]

La rappresentazione secondo Gilles Deleuze

Per indicare un trait d’union fra i libri scritti da Deleuze, sia da solo che in collaborazione con Guattari e con Parnet, ed indicare una questione ricorrente all’interno dell’argomento “teatro”, il termine rappresentazione sembrail più adatto.

In Differenza e ripetizione e Logica del senso, le caratteristiche del concetto di rappresentazione sono delineate in relazione alla manifestazione o meno della differenza e dell’evento, ad aprire numerose questioni che saranno poi riprese ed approfondite nei libri successivi, fino a giungere alle teorie elaborate in Che cos’è la filosofia? riguardo l’opera d’arte in generale.

In Differenza e ripetizione questo tipo di rappresentazione si distingue quale ripetizione mascherata, o vestita, che comprende in sé la differenza, in Logica del senso implica un processo di contro-effettuazione, o mascheramento e rappresentazione-perversione dell’evento puro; la questione della rappresentazione pone anche il problema del tempo a cui entrambe si rapportano, il presente di Aiôn. Sia in Differenza e ripetizione che negli scritti successivi inoltre, la rappresentazione è connessa al movimento, la cui essenza è la ripetizione in quanto distribuzione nomadica, o demoniaca. La rappresentazione invece, come si è visto, viene qualificata in questo testo come falso movimento, in quanto Deleuze la identifica come mediazione del movimento, ovvero quale falso teatro, se teatro in questo caso è inteso come ciò che permette una ricezione immediata e diretta della realtà.

D’altro canto, come già ricordato, in Logica del senso la rappresentazione permette un sapere concreto che “va a cercare il suo oggetto dove esso è”,[45] solo nel caso in cui essa contro-effettui l’evento secondo un movimento di avvolgimento e mascheramento.

L’attore-mimo è “capace di estrarre l’evento dalla circostanza…non riproduce lo stato di cose, così come non imita il vissuto, non dà un’immagine, ma costruisce il concetto”,[46] non imita ma ripete e prolunga un movimento che è di rappresentazione e selezione dell’evento come condizione dell’esperienza reale, che si configura allo stesso tempo come una deterritorializzazione.

Di conseguenza, le condizioni essenziali che distinguono una rappresentazione mediata dell’esperienza reale dall’espressione della differenza in sé quale ripetizione, così come la rappresentazione che rimanda all’evento, contro-effettuandolo nell’istante, è il movimento che ad essa è sotteso, ed il tempo a cui si riferisce.

In particolare, un teatro della non-rappresentazione, ossia che auspichi una rappresentazione non imitativa della realtà e la costituzione di una realtà viva sulla scena, deve farsi carico di queste premesse, perché per quanto si possa aspirare a far “saltare” la rappresentazione, ad eccederla con l’aprire tutti i doppi possibili e con l’illuminare tutti gli interstizi che in essa si aprono (nella concezione del teatro di Artaud così come in quello di Bene, ad esempio), deve poter esprimere quell’evento che qui soltanto si lascia avvolgere, e che, contro-effettuando, rappresenta.

“La rappresentazione deve comprendere un’espressione che non rappresenta, ma senza la quale non sarebbe essa stessa ‘comprensiva’, e non avrebbe verità che per caso o dal di fuori”,[47] ed inoltre: “[l’evento] è ciò che deve essere compreso, ciò che deve essere voluto, ciò che deve essere rappresentato in ciò che accade […] L’attore effettua dunque l’evento, ma in modo ben diverso da quello in cui l’evento si effettua nella profondità delle cose. O piuttosto egli raddoppia tale effettuazione cosmica con un’altra a modo suo singolarmente superficiale, tanto più netta, tagliente e pura per questo, che viene a delimitare la prima, ne libera una linea astratta e serba dell’evento soltanto il contorno o lo splendore: diventare il commediante dei propri eventi, contro-effettuazione. ”[48]

I complessi legami che si instaurano tra rappresentazione, tempo e movimento in opposizione al sistema del giudizio, ovvero alla rappresentazione/falso movimento in Differenza e ripetizione, diventano tanto più evidenti nel cinema moderno, secondo l’ottica de L’immagine-tempo. Cinema 2, laddove in questo caso il termine “falso” in relazione al movimento è definito tale perché si contrappone all’ideale di verità-conformità tipico di un sistema di giudizio, ossia di ogni sistema che si riferisca ad un’istanza superiore, ad un valore trascendente.

Il movimento falso, quand’è “decentrato”, in questo caso si configura come divenire quale potenza del falso e libera la vibrazione descritta da Artaud, che permette di riconsiderare il nostro rapporto con il mondo, sempre mediante un processo di mascheramento dell’evento che l’immagine avvolge: “l’immagine cinematografica, non appena assume la propria aberrazione di movimento, opera una sospensione di mondo, o colpisce il visibile con un disturbo che, lungi dal rendere il pensiero visibile […] si rivolgono al contrario a ciò che non si lascia pensare nel pensiero così come a ciò che non si lascia vedere nella visione.”[49]

Con le stesse caratteristiche Deleuze delinea il movimento demoniaco, sempre all’interno di un sistema maggioritario, il concetto di doppio distoglimento, (a partire dalla tragedia dell’Edipo Re, come si è visto) e la nozione di tradimento, in relazione al processo creativo del divenire.

Per quel che riguarda l’artista e le sue opere, sono coinvolti nei diversi aspetti del divenire stesso — le molteplicità, l’anomalo, le trasformazioni — meglio riconoscibili con il termine di “minorazione”, poiché: “Ogni divenire è molecolare, in quanto il molecolare ha la capacità di fare comunicare l’elementare con il cosmico. Ogni divenire è minoritario.”[50]

Combattere il sistema del giudizio implica il sostenere un processo di creazione ed espressione del molteplice, di contro alla logica dialettica della contraddizione e della rappresentazione/falso movimento così come Deleuze li ha tratteggiati a partire da Differenza e ripetizione.

Il concatenamento rappresentazione, movimento e tempo che emerge da queste pagine, condizione necessaria per ogni procedimento creativo, vede quindi identificato il suo opposto nel blocco della formazione di tali molteplicità; d’altro canto, già a partire da L’anti-Edipo e Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Deleuze e Guattari avevano chiarito ed approfondito i pericoli che queste forme di rappresentazione costituiscono in quanto negazione del reale.

Anche in questo caso è la nozione a fare la differenza, poiché impedisce (o “falsifica”) ogni divenire in quanto movimento non rinchiuso all’interno di una struttura arborescente. Ed in particolare in Mille Piani,con l’introduzione dei concetti di variazione continua, di minorazione, identificata anche come stile, la rappresentazione assume il suo senso più proprio, facendosi espressione di una realtà artistica ed insieme di un pensiero intensivo, creativo, che permette inoltre quelle contaminazioni reciproche tra i diversi piani più volte descritte da entrambi gli autori.

Questo perché la variazione (o minorazione) è un movimento di eliminazione delle invarianti e di destabilizzazione della chiusura per esempio dell’apparato teatrale classico su cui si inscrive la logica maggioritaria, e svela le condizioni della rappresentazione in quanto falso movimento che questa struttura promuove, così come accaduto per l’arte cinematografica grazie ad un certo utilizzo dell’immagine nel cinema moderno.

Carmelo Bene e Gilles Deleuze: un incontro tra teatro e filosofia

Nel percorso sull’importanza che riveste l’arte teatrale in Deleuze, sono emersi alcuni meccanismi attraverso i quali ogni dimensione artistica minoritaria può manifestarsi in quanto tale, e fra questi il processo di variazione continua degli elementi stabili, che porta ad un’assunzione dello spazio in divenire, instabile e problematico, di sperimentazione e di critica.

Fra tutti gli autori e fautori di teatro dei quali Deleuze si è occupato, colui che maggiormente ha tentato di pensare e realizzare lo spazio critico del teatro, e stimolato a riflettere sulle zone d’intersezione con il piano filosofico è senz’altro Artaud: dopo di lui, Bene è stato “uno dei pochi ad aver saputo fare del teatro ciò che Artaud, talvolta, aveva sognato”.[51]

A questo proposito: “Il rapporto tra incompossibilità e virtualità è anche uno dei temi maggiori del testo di Deleuze sul teatro di C. Bene, nella misura in cui per es. l’amputazione di un personaggio maggiore (per es. Romeo) toglie la incompossibilità dello sviluppo di un personaggio minore (per es. Mercuzio)…Così C. B., togliendo l’elemento del potere dalla rappresentazione teatrale, sviluppa la virtualità del teatro come non — rappresentazione, come ‘costituzione’ di personaggi sulla scena (a partire da voci e postura), come una ‘forza non — rappresentativa sempre instabile’, sempre ‘nel mezzo’, (senza inizio, senza fine, senza storia), là dove si trovano ‘il divenire, il movimento, la velocità, il turbine’. Personaggi senza ‘io’ (e senza storia) perché non nascono che ‘in una serie continua di metamorfosi e di variazioni’ (op. cit., pp. 9-12). In generale: la virtualità appartiene al reale, al contrario del possibile che vi si contrappone. Il reale è l’attuale più il virtuale.”[52]

Sovrapposizioni. Riccardo III di Carmelo Bene. Un Manifesto di meno di Gilles Deleuze è il testo di riferimento, in cui è posta la questione della non-rappresentatività e della messa in variazione del testo (e quindi la sua scomparsa come tale).

Deleuze conosce Bene di persona nel 1977 a Parigi, nel periodo in cui quest’ultimo andava in scena con i suoi due spettacoli Romeo e Giulietta e S.A.D.E. all’Opéra Comique. Da quell’incontro nasce una collaborazione ed un’amicizia duratura, fondata su un reciproco riconoscimento, una stima ed un’ammirazione contraccambiata: durante uno degli incontri del dopo-scena, Bene espone a Deleuze un proprio progetto, il Riccardo III, ed è sulla base di quella conversazione che il nostro autore deciderà di scrivere un testo su uno spettacolo che non aveva ancora visto.[53]

Sovrapposizioni viene pubblicato nel 1978, e sarà il primo di alcuni scritti (appendici e prefazioni) dedicati alla pratica teatrale e cinematografica di questo controverso attore/autore: come già ricordato infatti, ne L’Abecedaire, Deleuze lo cita come uno dei due soli autori teatrali capaci di catturare la sua attenzione e trattenerlo per lungo tempo seduto in platea, dandogli quindi la possibilità di effettuare i suoi ‘incontri’ anche in teatro.

E dal canto suo, Bene riassume in una frase tratta dalla sua recente autobiografia: “questi grandi revisori, de-costruttori del pensiero occidentale, (Gilles D.), quando trattano cinema, teatro o arte in genere, in realtà — ed è questo l’importante — è del proprio pensiero che si occupano. S’interessano d’altro, per fortuna. è tra le pieghe del loro proprio ripensamento che frugano. Anche se, naturalmente, la loro prodigiosa ‘indisciplina’ è assai più rigorosa e lucida di qualsiasi materia bistrattata dalle anche ‘oneste’ esegesi dello specifico paraocchiato. E, proprio perché s’intrattengono altrove, ci sono più preziosi.”[54]

È un rapporto di interconnessione: Bene auspica un filosofo come non-critico dell’arte ed una filosofia produttrice di concetti anche attraverso l’arte, e, a sua volta, attraverso la decostruzione dell’opera classica, egli produce una critica/creazione, così come la intende Deleuze all’inizio di Sovrapposizioni, realizzando una sua filosofa teatrale a partire dalle sperimentazioni nel “non-luogo” del teatro.

Se si considera l’osservazione sul rapporto tra incompossibilità e virtualità nel teatro di Bene, così come la stragrande maggioranza delle recensioni e delle critiche, sia positive che negative, si nota che la caratteristica principale che emerge è proprio questa non-rappresentatività del suo teatro, il suo prendere forma grazie ad una serie di esperimenti — la sottrazione, l’amputazione dei personaggi, lo sradicamento del testo, del personaggio-corpo — il cui fine sarebbe appunto quello di escludere la rappresentatività (o stabilità di tutti gli elementi costitutivi della scena “classica”) del teatro nel suo farsi.[55]

Tuttavia, come sostiene Manganaro — poiché non è possibile né corretto inquadrarlo solo dal punto di vista di una delle forme artistiche attraverso le quali si è espresso, né dal teatro, o dal cinema, o dalla scrittura di romanzi, o sceneggiature mai filmate — il problema della rappresentazione è un falso problema.[56]

Ciò che conta, infatti, sono le possibilità di sperimentazione insite all’interno della rappresentazione stessa, l’operazione di svelamento attraverso intensità e dinamiche — attraverso un movimento di variazione, di minorazione — oltre ogni mediazione, l’opportunità quindi per la rappresentazione di farsi espressione del reale.

Il processo di sperimentazione si riconferma un incrocio tra livelli e piani così come teorizzato da Deleuze e Guattari in Mille Piani, che non procede per gerarchie o giudizi ed è definibile sostanzialmente come un processo di critica affermativa, termine con cui si potrebbe riassumere tutta la produzione artistica di Bene.

Uno degli elementi che consentono questo processo di creazione e di critica, e che stabilisce una relazione con l’attore-mimo di cui Deleuze parla in Logica del senso, è perciò proprio quel movimento — di variazione, o sottrazione, o amputazione — che consente una rappresentazione non imitativa, contraria ad ogni presenza, persistenza e visibilità d’identità e ruoli fissi.[57]

“Leggendo un classico, Shakespeare ad esempio, quello che si crede l’autore compie una scelta definitiva, ma nessuno di noi è autore di quel che pensa, uno può pensare un pensiero, ma l’immediato è un’altra cosa…Il testo non è quello scritto. Io leggo l’Amleto in originale, lì l’autore sbaglia, perché è obbligato a compiere una scelta definitiva e questo è il teatro di rappresentazione. Io guardo sempre cosa c’è fuori, accanto, guardo tutte le occasioni mancate che l’autore si è inibito, di cui si è privato. Ma non per comprendere meglio il centro del testo […] non c’è un centro.”[58]

Ogni messa in scena di Bene non riguarda infatti una storia o un’interpretazione di elementi predefiniti, ma si costituisce come l’evento di una “macchina attoriale”.

Sovrapposizioni: Riccardo III di Carmelo Bene
Un manifesto di meno di Gilles Deleuze

“Il teatro e la sua critica” è la prima di cinque sezioni in cui è suddiviso questo breve saggio interamente dedicato alla produzione artistica di Bene. Come già accennato, l’operazione di critica secondo Deleuze non corrisponde ad un confronto o una reinterpretazione sotto una diversa ottica di un testo già dato ed “inviolabile”, ma coincide invece con un processo di sperimentazione che è allo stesso tempo creazione, ed assume quindi le caratteristiche di critica affermativa.

Una delle questioni analizzate in queste pagine riguarda, infatti, la troppa importanza da sempre attribuita al testo originale, fondamento di ogni messa in scena, al quale ogni interprete successivo si limiterebbe ad aggiungere degli elementi; così stigmatizza la questione lo stesso Bene: “Non sarà mai più concepibile una CRITICA che non sia al tempo stesso OPERAZIONE CRITICA, ma OPERAZIONE CRITICA TAUMATURGICA, cioè OPERA D’ARTE […] SI RISCRIVE PERCHÉ NON SI PUÒ SCRIVERE.”[59]

A questo proposito, Camille Dumoulié sottolinea l’opposizione inevitabile tra la critica intesa nel suo ruolo sociale di classificazione ed inquadramento, e la tragedia, laddove questa svolga la sua funzione di “purificazione sociale”, funzione che la critica intende svolgere al suo posto, mediante l’esercizio di un giudizio morale secondo indici di valore.[60] Questa considerazione viene a collocarsi nell’alveo delle denunce al sistema del giudizio cui si è fatto precedentemente riferimento seguendo le riflessioni di Deleuze, e rappresenta quindi un’ulteriore testimonianza del fatto che anche la produzione artistica di Bene costituisce un’alternativa al sistema stesso; sarebbe perciò plausibile annoverarlo nel gruppo di quegli artisti individuati da Deleuze in Critica e clinica. [61]Una macchina attoriale come quella di Bene, infatti, si oppone ed eccede la struttura entro cui l’operazione di giudizio critico è legittimata, ossia ad esempio la struttura del teatro di rappresentazione di Stato, da lui più volte denunciata, contro la quale questa macchina attoriale assume le stesse caratteristiche della macchina da guerra deleuziana.[62]

L’operazione critica com’è qui intesa da Deleuze, e come la intende lo stesso Bene, ha come suo fondamentale presupposto la messa in variazione degli elementi stabili, fissi di un testo, per quanto compiuto come può esserlo un classico al livello dell’Amleto o del Romeo e Giulietta di Shakespeare, e si caratterizza attraverso un procedimento che Deleuze definisce di sottrazione, o amputazione, di alcuni di questi elementi.

Non a caso il riferimento iniziale del filosofo francese è il film Un Amleto di meno, [63]tratto dal testo riscritto dallo stesso Bene, che gioca con ironia con quello di Shakespeare, servendosi soprattutto della “riscrittura” del poeta francese Jules Laforgue, il quale a sua volta sconvolse il testo tradizionale con il suo Amleto, ovvero le conseguenze della pietà filiale. [64]Questo film scritto, diretto ed interpretato da Bene è una delle sette proposte sullo stesso tema da lui realizzate nell’arco di più di trent’anni, e con differenti mezzi artistici, (teatro, cinema, radio e televisione).

Il carattere affermativo della critica è dato dalla costituzione in scena di una realtà nuova, poiché al movimento della variazione, della sottrazione, è collegato l’emergere di un aspetto inatteso, di un personaggio (o di un elemento qualsiasi dello spettacolo) che in conseguenza a questa variazione si sviluppa in un costante divenire, attraverso metamorfosi che coinvolgono tutto l’apparato scenico, (gesti, suoni, luci, parole) e che mettono in discussione la sua identità e quella degli altri coinvolti nell’azione. In questo modo lo spettacolo acquisisce una propria instabile autonomia, quella stessa descritta da Deleuze ad esempio in Che cos’è la filosofia?, necessaria ad ogni opera d’arte in quanto tale; la sottrazione e costituzione di elementi in scena, il rifiuto di rappresentare così come altri presupposti dell’arte di Bene, infatti, permettono a lui e alle sue opere di essere considerati minori, con tutta le implicazioni che Deleuze attribuisce al termine.[65]

Nel Romeo e Giulietta di Bene, ad esempio, accade a Romeo d’essere neutralizzato dalla scena, e di conseguenza Mercuzio si appropria delle sue battute e impersona un nuovo ruolo, diventando così il perno dell’evoluzione di una storia che muta in base a questa scelta iniziale.

Allo stesso modo, nel S.A.D.E.,è il Servo — masochista — a costituirsi in scena, a cambiare in funzione della neutralizzazione dell’immagine sadica del Padrone e non ponendosi come suo contraltare.[66]

La costituzione del personaggio in scena attraverso metamorfosi continue avviene in maniera forse più evidente nel Riccardo III, poiché la sottrazione si riferisce in questo caso a tutto il sistema regale, statale, entro il quale Riccardo penetra e che aspira a scardinare e distruggere man mano che prende forma il suo personaggio. Riccardo incarna la perfetta macchina da guerra, è l’emblema del traditore, dell’anomalo, (già Deleuze in Conversazioni lo definisce anche come lo sperimentatore), colui che fa parte di un processo in divenire, un divenire-altro da sé, elemento demonico per eccellenza che comporta una “doppia cattura”.[67]

Un aspetto della perversione teatrale: il femminile

Ritorna qui anche il doppio legame dato dal distoglimento reciproco di volti, inscindibile dal tradimento stesso, che avviene in Riccardo III con le figure femminili ed in particolare con Lady Anna. Sin dall’inizio dell’opera, nella “Nota generale sul Femminile”,[68] Bene costringe il suo personaggio a numerose metamorfosi, fra cui anche ad un divenire-donna, pur di raggiungere i propri scopi: il tradimento comporta una creazione, ma per creare è necessario perdere la propria identità, assumersi questo divenire-altro, divenire-impercettibile.

Il divenire-donna, quindi, il femminile (una delle tante direzioni che può prendere il personaggio costituendosi) emerge come tratto sino ad allora impensato nel testo “originale”, come un imprevisto del personaggio e dà vita a questa ed altre deformazioni, ad altre minorazioni: “Le donne, qualunque sia il loro numero, sono una minoranza definibile come stato o sotto insieme; ma non creano se non in quanto rendono possibile un divenire, di cui non hanno la proprietà, in cui anch’esse devono entrare, un divenir-donna che concerne l’umanità intera, uomini e donne compresi.”[69]

La variante femminilità per emergere necessita quindi di un processo creativo che coinvolge sia uomini che donne, e che non riguarda l’imitazione dell’uno o dell’altro genere, quanto piuttosto la ricerca di una zona d’indiscernibilità, un “inter-essere” per stare tra i dualismi dei due generi, e trovare la propria linea di fuga.[70] Riccardo in questo caso è costretto a cercare, a sperimentare un femminile di sé che gli garantisca la presenza di qualcuno vicino: dalla sottrazione iniziale operata all’io del personaggio principale la variante minore femminilità emerge per necessità, in risposta ad un bisogno creato dalla nuova situazione scenica.

La scena con Lady Anna rappresenta, infatti, il culmine di questo doppio legame che nel tradimento li unisce e li modifica entrambi, così com’è l’apice di quel continuo processo di metamorfosi di Riccardo e del suo processo di autoconsapevolezza che attraverso le metamorfosi si fa strada, conformemente alla natura creativa delle stesse e del tradimento operato dal suo diventare macchina da guerra. Contemporaneamente al tradimento che Riccardo compie in scena — potenzialità di un testo più volte rilevata da Deleuze — in questa versione egli compie il tradimento della scena, poiché evita ogni rappresentazione-presenza dell’evento (ossia l’azione decisiva secondo la coerenza logica della trama, del testo) che è di continuo differito altrove, non appare mai, non si realizza mai, ulteriore sfaccettatura di una sottrazione in bilico tra l’alternarsi di questa presenza-assenza.

Allo stesso modo, questa femminilità[71] differita sulla scena da Bene raddoppia la metamorfosi del personaggio, poiché appunto non è caratteristica attribuibile solo alle donne, anzi: la ricerca di Riccardo, nel richiamare a sé la presenza delle donne, uscite di scena, è la ricerca impossibile di un femminile che lo porta ad accostarsi — a deformarsi — verso quella negazione del femminile che è la donna stessa, e soprattutto la donna attrice, da quando è stata ammessa la sua presenza sulle scene.

Rispetto ai tempi di Shakespeare, in cui l’esibizione del ragazzo travestito da donna e quindi la presenza-assenza della donna, evocava la nostalgia e il desiderio di quella assenza, ora: “l’avvento della donna sulle scene segna una volta per tutte la scissione tra maschio e femmina, […] cancellando da una parte l’erotismo e dall’altra l’osceno come ‘eccesso del desiderio ’, la perversione che è il teatro nel suo farsi: il fantasma […] Attore e attrice hanno smarrito insomma la femminilità. Ma l’arte è androgina.”[72]

Bene rileva inoltre che questa perversione del teatro costituisce la sua degenerazione ovvero la sua destabilizzazione in quanto “genere scenico ”,[73] genere teatrale, per come è stato definitivamente classificato ed inquadrato a partire dalla rappresentazione post-elisabettiana, ed ora perduto. Soprattutto, ciò che la divisione dei sessi stigmatizza è la separazione e immutabilità dei ruoli e delle identità in scena: anche in questo caso, egli si oppone ad una concezione del teatro in cui all’attore, secondo il suo genere, è imposto un personaggio-ruolo, ed il suo rifiuto di tale fissazione è più evidente nella seconda parte dello spettacolo, dove: “non resterà al duca di Gloucester che […] giocare con l’assenza […] Ma l’assenza del femminile in questo caso è la gestione assurda e ossessiva della sua propria intollerabile presenza d’attore…”.[74]

La sua nozione di perversione teatrale, di cui uno degli esempi è costituito dal teatro elisabettiano, si collega a quella di Deleuze, che la assimila, come si è visto,[75] al mascheramento o contro-effettuazione dell’evento: “Ciò che chiamiamo perverso, è […] quella determinazione a sbalzi, quella differenziazione che non sopprime mai l’indifferenziato che si divide in essa, quella suspense che contraddistingue ogni momento della differenza.”[76]

La rappresentazione-perversione teatrale così intesa, non-luogo in cui la differenza si manifesta, si realizza in scena grazie alla ricerca beniana dell’assenza del teatro, di una scena che rimandi e differisca continuamente l’evento, (la “drammaturgia dell’assenza” si realizza come tale a fronte dell’irrappresentabilità dell’evento) allo scopo di produrre la ripetizione quale “differenza senza concetto ”.[77] Tenendo perciò come punto di riferimento le riflessioni di Deleuze, il teatro di Bene effettua nella prassi, con il togliere di scena e la ripetizione, un unico gesto che si oppone alla rappresentazione: “il fine di una incessante ripetizione è allora quello di trattenersi fuori il più possibile dalla tentazione e persino dalla capacità di rappresentare, e intanto di confinarsi (condannarsi) nel campo delle infinite variazioni di una incontaminata e indefinita differenza.”[78]

Il processo di variazione degli elementi teatrali (sottrazione e costituzione) che garantisce il divenire dell’opera stessa è uno degli effetti di questa drammaturgia dell’assenza, che si realizza col togliere dalla scena tutto ciò che garantisce e perpetua la rappresentazione teatrale in senso classico, il teatro-intrattenimento per un pubblico che ne esige conferma e rassicurazione, secondo determinati passaggi;[79] questo teatro si sviluppa quindi come un operare (l’operazione critica) del non-attore il quale a questo punto è definibile piuttosto come artefice.

A questo proposito, la deficienza-assenza della donna in scena appare come uno dei pre-requisiti necessari del teatro; la ricerca del femminile che da sempre è assente nella donna, scatena una serie di eventi di volta in volta diversi, è un vuoto mai riempito, né dalla donna stessa, ovviamente (“fantasmatica presenza”), come si è visto in Riccardo III, né dall’attore che a partire da tale assenza si confronta con la propria mancanza, e la femminilità si conferma meta necessaria rivendicata da Bene per l’artista-artefice.[80]

Tra l’altro, il blocco dell’identità dell’attore in un personaggio-ruolo, scongiurato dal teatro operatore di Bene, potrebbe essere evitato sempre se l’attore contemporaneo fosse in grado di recuperare, fra le altre potenzialità della sua arte, anche la sua capacità di mentire, di scavalcare l’attendibilità del personaggio, del testo e della coerenza di tutta la messinscena. Non si tratta ovviamente della semplice menzogna, quanto di recuperare quella “derisione” dell’apparato di potere e di certezze che tutta la struttura teatrale rappresenta e che fa parte del teatro stesso nel suo rappresentare, ma che in questo modo egli potrebbe “far saltare”, sovvertire.[81]

Ogni messinscena di Bene che dalla negazione o sottrazione si costituisce per poi dissolvere immediatamente le apparenze di personaggi, di ruoli, d’identità, o d’intrecci così creati, e quindi nuovamente demoliti (derisi) mediante vari artifici scenici — inciampi, protesi, trasformazioni — gioca appunto con quest’alternarsi di presenza-assenza che egli rievoca dal teatro elisabettiano, in un equilibrio teso sul limite che le separa, e sul quale si articola tutto il divenire, il costituirsi dell’opera: “Nel suo non muoversi da quel limite, è un movimento che si muove stando fermo e sospende così qualunque possibilità di rappresentare.”[82]

Alleanze

In queste prime pagine si riconferma l’essere minore sia della scrittura che della prassi scenica di Bene — due momenti in realtà inseparabili della sua attività artistica, poiché non v’è prevalenza dell’uno sull’altro, e lo stesso autore rinnega sempre qualsiasi aderenza ad un testo fissato, “a sé stante” — ed in particolare proprio di questo procedimento di sottrazione (così come la necessità di deridere mentendo).

Personaggi e spettacoli di Bene sono messi più volte in relazione da Deleuze con altri autori — e personaggi letterari o teatrali — minori; si pensi al rapporto che lega la Pentesilea di Kleist alla già citata “Nota generale sul femminile”, ovvero al rapporto tra l’uomo di guerra, Achille o Riccardo, con una deformazione legata ad una scelta iniziale con un altro da sé, il femminile appunto, non riconducibile all’immagine della donna con cui entrambi si confrontano.

A sua volta Bene fa spesso riferimento all’opera di Kleist come testimonia il suo Pentesilea, Ovvero della vulnerabile invulnerabilità e necrofilia in Achille, poesia orale su scritto incidentato versioni da Stazio Omero Kleist.[83] La messa in scena dello spettacolo, sviluppata in due momenti,[84] affronta una ricerca sull’eroe omerico, sull’autodistruzione di Achille, emblema della negazione del teatro stesso, ma è soprattutto una ricerca sul linguaggio, un “attentato al linguaggio”.[85]

Deleuze indica punti d’incontro tra Bene e Carroll, e tra Carroll e Shakespeare, in un alternarsi di rimandi e immagini amplificate anche grazie a questo testo “sbloccato”, alle situazioni rimesse in gioco, quasi a voler dimostrare che fissare un’opera significa sottrarle parte delle sue alleanze con altre e non permetterle di produrre ulteriori concatenamenti.

Tutto ciò che Bene sottrae al teatro con il suo teatro, Deleuze lo individua alla fine di questo paragrafo come una componente del Potere, famigliare, sessuale, di Stato, ossia come “ciò che assicura la coerenza del soggetto trattato e la coerenza della rappresentazione sulla scena.”[86] Il potere del teatro sta infatti nella forma della rappresentazione teatrale, e per quanto ciò che rappresenta possa subire degli attacchi al suo interno, una critica, comunque la rappresentazione resta uno strumento di potere, e lo stesso vale per l’attore, per il testo, il drammaturgo, il regista, per tutti quegli elementi di potere che il teatro di Bene aspira e riesce per l’appunto ad amputare, a “togliere di scena”.

Questo modo di fare teatro assume perciò un’altra forma, un’altra “materia”, rispetto al modo tradizionale, a partire dal movimento che si traduce poi nella sottrazione e prosegue con la conseguente messa in variazione di ciò che è stato modificato, e con la costituzione in scena di una realtà nuova; è un teatro irrappresentabile, in continuo divenire, che sprigiona la sua forza proprio in virtù di quel movimento che lo rende sempre instabile, e sottraendolo al sistema del teatro cosiddetto maggiore, attua un processo che Deleuze qualifica come minorazione.

Nel concludere questo paragrafo, pur sostenendo l’importanza di riconoscere i collegamenti tra le opere di autori minori, Deleuze sottolinea la differenza che intercorre tra il termine “alleanza” e “filiazione”: “Importanti non sono mai le filiazioni, ma le alleanze e le leghe.”[87] Partendo da questo presupposto, sarebbe del tutto errato considerare il teatro della non-rappresentazione di Bene semplicemente come una derivazione dalle precedenti (e contemporanee) esperienze di un Artaud, di Grotowski, di Wilson o del Living Theater. Pare importante sottolineare questa considerazione del filosofo francese al riguardo, proprio perché sebbene Bene condivida con altri — pochi — autori teatrali contemporanei l’aspirazione ad un diverso modo di concepire l’arte teatrale, ciò che va riconosciuta effettivamente è l’unicità del suo stile, il suo essere un operatore o tramite di una prassi artistica — e non solo di una teoria.[88]

Il teatro minore e la Storia

Fin dall’inizio del secondo paragrafo “Il teatro e le sue minoranze”, Deleuze approfondisce i motivi per i quali la teoria e prassi teatrale di Bene si qualificano come minori, e si serve di alcuni concetti fondamentali del suo pensiero per indicare l’importanza e la complessità, oltre alle potenzialità, di questo tipo di teatro.

Il punto di partenza per la riflessione sul tema delle caratteristiche che contraddistinguono un teatro minore da uno maggiore è costituito dall’affermazione che “L’interessante è in mezzo, ciò che succede nel mezzo (au milieu).”[89] La riflessione da parte di Deleuze rimanda alla critica che egli, come Bene, indirizza alla Storia, considerata quale proiezione e trasmissione di eventi selezionati in un tempo stabilito da precise coordinate, opposta a quel divenire a cui invece entrambi si rivolgono, che si produce senza punti di partenza o arrivo e che “si trova”, per l’appunto, nel mezzo.

Il filosofo francese ha fatto più volte riferimento nei suoi scritti a questa caratteristica, evidente in autori quali Woolf o Beckett; il “trovarsi nel mezzo”, il creare intersezioni senza costituire punti di partenza o arrivo si qualifica quindi come parte di un percorso in divenire, di un’evoluzione necessaria ad ogni autore minore.[90] Una tale condizione gli appartiene, è parte integrante del suo stile, ed è indice di un’intempestività che lo colloca in un movimento che va al di là di ogni appartenenza ad un “tempo” storico, e che lo rende concatenamento collettivo d’enunciazione, linea di fuga che intacca i sistemi maggioritari, rizoma.[91]

Il teatro di Bene partecipa senz’altro di questo divenire in cui Deleuze lo colloca; in quanto antiumanista, antistorico e antisoggettivo, esso rifiuta e sottrae ogni fondamento ed ogni ruolo, ogni elemento stabile e rassicurante all’arte teatrale, (e non solo, anche alla scrittura e al cinema) che si tratti del testo, dell’autore, del regista o del linguaggio e della forma dell’arte stessa, e diventa quindi concatenamento collettivo d’enunciazione, negazione di qualsiasi punto d’origine o d’arrivo, di qualsiasi principio significante nelle sue opere.

Il suo percorso artistico lo porta, infatti, sin dall’inizio a scongiurare una rappresentazione teatrale come ri-presentazione, espressione di una realtà scenica ormai privata di qualsiasi immediatezza, e a realizzare invece un teatro dell’irrappresentabile, testimonianza di un evento che in questa scena non si lascia chiudere e che “non ha passato, non ha testo a monte […] Non conosce il prima e non conosce il dopo. è prima del prima e dopo il dopo.”[92]

Il teatro di Bene quindi non si prefigge di “esprimere” qualcosa nemmeno secondo i dettami del linguaggio (così come rifiuta qualsiasi sistema di codificazione formale), e a questo proposito, uno degli elementi che a suo parere lo differenziano da Artaud, è proprio la ricerca di una parola prima delle parole che si configura come “lacerazione ossessiva e inconsolabile rimpianto d’unità originaria ”.[93]

Bene si colloca al di fuori di qualsiasi nostalgia e ricerca di un fondamento su cui il teatro poggerebbe, da ogni tentativo d’espressione, rifiuta il prima e il dopo della parola esercitando sia nei testi che nella prassi teatrale una scrittura disarticolata, che nega se stessa, la propria necessità, il proprio senso, il suo essere “funerale dell’orale”[94] e quindi rappresentazione e rivisitazione della storia, che è possibile solo attraverso il linguaggio.[95]

L’atteggiamento nei confronti della storia si rivela in particolare in due delle sue opere, Giuseppe Desa da Copertino A boccaperta e Lorenzaccio,[96] di cui la seconda in particolare è un esempio dell“essere stranieri nella propria lingua” (così dovrebbe essere ogni scrittura minore, per Deleuze), di minorazione del linguaggio, della storia e del tempo che in essa inscrive e seleziona solo determinati eventi, sulla base della loro successione. Non a caso, sin dalle operazioni critiche su Shakespeare, Bene intende mettere in crisi l’idea del testo in quanto fondamento, ripresentazione “fedele” di un passato rappresentabile poiché attendibile, censurato a scapito di ogni tradizione orale, dei non-detti e delle virtualità lasciate inespresse dalla codificazione storica, che ogni scritto porta con sé e che il suo teatro di fatto lascia emergere.

A boccaperta è una sceneggiatura cinematografica scritta nel 1970 e dedicata a San Giuseppe da Copertino, testimonianza di un santo illetterato et idiota che proprio in virtù della sua inconsapevolezza, devozione e irregolarità vive ai margini del sistema ecclesiastico ed accanto al quale il periodo storico del suo tempo, il 1600, scorre senza riuscire ad inquadrarlo.

La sua avventura personale, la sua mistica così inconsapevole e irriflessiva lo portano a conquistare una grande popolarità (non richiesta), nonostante il rifiuto e la diffidenza da parte del sistema stesso, il quale infatti, non sapendo come trattarlo, attese quasi duecento anni per santificarlo.

Altrettanto rifiutato dalla codificazione storica, poiché la sua vicenda si sottrae ad ogni schema è Lorenzaccio, sulla cui vita Bene sostiene sia stato scritto molto, e male, proprio perché anch’egli resta un personaggio incompreso e scomodo per l’interpretazione storica, in particolare alla storia medicea. Rappresentato a Firenze nel 1986 (dato non trascurabile, la presenza di Deleuze in quel “Ridotto” del Teatro Comunale), Lorenzaccio, al di là di de Musset e Benedetto Varchi è dedicato a Lorenzino de’ Medici, assassino dell’usurpatore e tiranno Alessandro VI, ed è “uno studio sulla impossibile paternità e coerenza di qualsivoglia azione che nell’atto smarrisce il proprio intento. Qui l’aprassia graduale del protagonista sempre in ritardo sui suoi stessi passi (fino a trovar già compiuto il misfatto, prima del suo intervento), sollecita, pure inscritta nella pagina, un’agrafia da leggersi smarginata. ”[97]

Un contributo determinante alla realizzazione di quest’opera che è anche, come si è detto, un’accusa e uno sberleffo alla storia ed alla concezione del tempo entro cui i fatti storici selezionati (le azioni) vengono iscritti e tramandati, è stato dato a Bene proprio dalla riflessione degli stoici sul tempo-Aiôn, ed anche, naturalmente, dalla Logica del senso e dalle successive riflessioni in merito di Deleuze; in particolare Bene si è soffermato sulla questione da lui affrontata della differenza tra il tempo di Aiôn, considerato quale non-storia, e quello di Kronos, sul quale invece sono iscritti i fatti che la storia ha catalogato e giustificato.[98]

Ed inoltre, come spiega Deleuze proseguendo in questo terzo paragrafo, oltre che per la critica alla ragione storica, l’essere minore è attribuibile a qualunque realtà che si discosti dal modello che viene riconosciuto come normale, acquisito; l’esempio in questo caso è dato dalla situazione dei contadini delle Puglie, realtà da cui proviene Bene, ma potrebbe ben adattarsi a qualsiasi popolazione che vivesse al di fuori o nel più totale disinteresse delle abitudini o delle norme di un apparato statale, di una cosiddetta “civiltà”.

A questo proposito, Deleuze, rileva che: “La sua propria minoranza, Carmelo Bene la vive in rapporto alla gente delle Puglie [Quando ne parla] sente che la parola ‘poveri’ non conviene del tutto. Come chiamare povera questa gente che preferiva morire di fame piuttosto che lavorare? Come chiamare schiavi gente che non stava al gioco del padrone e dello schiavo? Come parlare di un ‘conflitto’, laddove c’era ben altro, una bruciante variazione, una variante antistorica! […] Ed ecco che gli si fa uno strano innesto, una strana operazione: sono stati pianificati, rappresentati, normalizzati, storicizzati, integrati al dato maggioritario, e allora sì che ne hanno fatto dei poveri, degli schiavi, li si è messi nel popolo, nella Storia, li si è resi maggiori.”[99]

Nello stesso contesto, in contrasto con la gloria e la dottrina dei teologi (sulla scia del racconto di Bene cui ho precedentemente accennato), Deleuze segnala l’esperienza mistica ed irregolare vissuta da San Giuseppe da Copertino, o da un San Francesco “che balla davanti al papa”. Così come l’etnìa delle Puglie si contrappone all’inquadramento da parte dello Stato, i due santi si collocano oltre il sistema ecclesiastico e la storia cui si associa, e comunicano l’evento nel suo prodursi attraverso e in virtù della difformità, dell’idiozia, dell’essere e comportarsi da anomalo.

E quindi anche attraverso gli scritti dedicati a queste realtà minori[100] — santi e contadini — della sua terra d’origine, Bene si riconferma autore minore, se, come indicato da Deleuze e Guattari in Kafka, nell’opera di un autore minore ogni fatto individuale si innesta immediatamente all’interno di una situazione politica.[101]

Servendosi anche di questi riferimenti, Deleuze evidenzia tra l’altro le conseguenze del processo di normalizzazione di una cultura così come di una popolazione, l’azzeramento dei tratti distintivi e “devianti” a favore dell’omologazione al sistema dominante: “di un pensiero si fa una dottrina, di un modo di vivere si fa una cultura, di un avvenimento si fa Storia.”;[102] ma d’altro canto il filosofo francese sottolinea anche la possibilità di opporsi a quest’operazione di livellamento culturale grazie alla minorazione in quanto apertura ai divenire.

Ritornando su un piano più specificamente teatrale, si può fare riferimento al famoso testo di Denis Diderot, Il paradosso sull’attore,[103] nel quale sono posti i problemi relativi all’identificazione o meno da parte dell’attore con il suo personaggio, (questione sempre aperta per la teoria e la prassi teatrale) per rilevare come il teatro di Bene, con il suo rifiuto dell’interpretazione storica classica, traduca in pratica alcuni temi emersi in Diderot. Per mezzo della minorazione — e della conseguente costituzione del personaggio in scena — infatti, Bene lascia emergere il personaggio, che viene a sovrapporsi alla personalità dell’attore-interprete: secondo un processo già analizzato da Jacques Copeau sempre a proposito del Paradosso, dev’essere piuttosto il personaggio ad imporre i suoi modi, i suoi gesti all’attore, e non viceversa, per decostruire insomma l’identità ed il ruolo di quest’ultimo, e prima ancora, il testo e la sua storia.[104]

Alla virtualità del personaggio che dissolve l’io dell’attore corrisponde la negazione della storia stessa considerata quale memoria di azioni compiute come punti fermi collocati in successione temporale (Kronos); se invece si considera l’evento, l’atto, nel suo dispiegarsi nell’istante come simultaneità dei differenti momenti del tempo (Aiôn), si distingue tra l’evento che eccede la sua effettuazione, e quest’ultima, ed in quest’ottica si compie per l’appunto un teatro come quello di Bene: contro-effettuazione dell’evento.

Ciò che Bene nega, infatti, dapprima nel racconto e poi anche in scena, è la finalità dell’azione (in questo caso lo scopo prefissato del tirannicidio) a favore dell’atto, dell’evento immediato che si compie, che si lascia essere, per così dire prendendo in contropiede l’azione, così come il progetto da cui deriva e lo scopo cui è finalizzata.[105] Stando alle parole dello stesso Bene, lo storico “archivista” non riflette a sufficienza sull’incompatibilità tra atto e azione, sull’oblio che accompagna il gesto, su quel “buco nero del gesto”, eliminato dalla storia, che eccede l’azione.[106]

Allo stesso modo, sarebbe necessario che ogni artista intaccasse le forme della propria arte, alla ricerca del “buco nero”, cioè della propria sottrazione, sia che si tratti di scrittura, che del linguaggio, di musica o pittura, oppure della messa in scena; “Lorenzaccio rinvia alla sensazione. Che se ne prova se non sensazione? Tutto il resto è teatro. Quel che conta è operare buchi neri del linguaggio […] Si deve soprattutto uscire dall’equivoco della scrittura di scena. ”[107]

Questo processo è particolarmente evidente in Lorenzaccio, l’operazione critica teatrale in cui le possibilità estromesse dalla codificazione storica, gli atti orfani delle proprie azioni sono resi in palcoscenico su tre livelli ricreando un continuo differimento tra atto e azione. L’attore tenta allora di precedere un’azione sulla quale sarà sempre in ritardo, complici una serie di mezzi tecnici tra cui il playback, di cui Bene si servirà con sempre maggiore frequenza nel corso della sua produzione artistica.

Questa ricerca di una dimensione che eccede le forme date entro cui ogni arte si “esprime” e viene classificata, spinge Bene a rilevare, tra l’altro, una prossimità tra il proprio teatro, l’aspirazione artaudiana e la pittura di Bacon; ritiene infatti che Bacon sia in grado di comunicare una sensazione che “indicibile, non è ottica, non è tattile ” e, oltrepassando le forme dell’arte pittorica, si qualifichi come un “operare” — nella pittura — così come Artaud e lui stesso hanno operato in teatro.

Anche in questo caso le considerazioni di Bene si rifanno alle tematiche affrontate da Deleuze, con particolare riferimento al suo Francis Bacon. Logica della sensazione;[108] la qualità specifica dell’arte di poter obbedire alla “logica della sensazione”[109] costituisce secondo Bene un’ulteriore dimostrazione della possibilità di sottrarsi agli schemi imposti dalla selezione della storia. In particolare si riferisce alla ragione storica “che traveste ogni segno in un discorso e imbriglia ogni significato nella trama temporale di un racconto”, come accade per l’arte teatrale, privilegiato strumento del potere che si esprime nelle storie, raccontate in teatro e classificate nella Storia del Teatro. Anche attraverso l’incontro con la pittura di Bacon e sempre tenendo presente la filosofia di Deleuze, quindi, è forse possibile affermare che il teatro di Bene — come lui stesso dichiara — oltrepassi la storia verso “una sensazione che assorbe e cancella in sé le sue stesse tracce e che sospende ogni nostalgico rinvio al significato ”.[110]

La rivendicazione di Bene, della priorità della sensazione che attraversa le opere artistiche oltre qualsiasi limitazione imposta da parametri espressivi dell’arte stessa, riporta alle affermazioni di Deleuze in Che cos’è la filosofia?, ed inparticolare a quel capitolo dove, con Guattari, indagano la natura ed i rapporti tra percetti, affetti e concetti. Per quel che riguarda l’arte, si tratta della saturazione del materiale stesso di cui l’artista si serve da parte della sensazione, di desoggettivizzare l’opera stessa: “Estrarre un blocco di sensazioni, un puro essere di sensazione”,[111] questo è lo scopo dell’arte, il suo divenire. Da qui, ci si riaggancia alle alleanze tra autori minori, “intempestivi” perché situati al di fuori della storia, e per questo motivo, come lo stesso Bene, si collocano sempre in una zona mediana che li situa ai margini della cultura cosiddetta maggiore che è storica in quanto rappresentativa del tempo in cui si esprime.

In più occasioni, infatti, Deleuze ha ribadito che i maggiori interpretano il proprio tempo, restano chiusi in quest’ambito di cui si fanno portavoce, al contrario dei minori: Kleist a differenza di Goethe, Laforgue che intacca l’opera di Shakespeare. L’autore minore, grazie alla propria posizione in divenire continuo, non dipende da un tempo preciso, anzi è il tempo a dipendere dalla sua arte. Inoltre, al di là di ogni contrapposizione tra maggiore e minore, la potenzialità di quest’ultimo tipo di cultura è costituita proprio dal processo di sottrazione che le è proprio e che le permette di minorare ogni autore maggiore, di riaprire tutti i “divenire” ormai bloccati all’interno delle loro opere.

Il teatro della lingua

La distinzione tra lingue maggiori e minori, o per meglio dire, la definizione di uso minore di una lingua come opposizione ad ogni sistema maggiore, introdotto da Deleuze a partire dal saggio su Kafka, è ripresa — sempre nel secondo paragrafo di questo saggio — per approfondire quell’aspetto del potere veicolato dalle lingue maggiori che viene a confluire nel potere rappresentato dal teatro stesso. A questo proposito, Deleuze precisa che una lingua maggiore non è necessariamente internazionale o “veicolante”, all’opposto di quella minore che sarebbe quindi a carattere nazionale, vernacolare, secondo una suddivisione esposta già in Kafka; il carattere maggiore della lingua è dato piuttosto dalla sua struttura omogenea e dai rapporti stabiliti tra le invarianti.[112]

Il caso del francese ne è un esempio, perché pur non essendo più la lingua internazionale per eccellenza, resta maggiore in virtù della propria omogeneità e costanti fonologiche e sintattiche. Allo stesso modo, le costanti semantiche della lingua inglese la caratterizzano come maggiore; ad entrambe le lingue Deleuze associa conseguentemente un teatro cosiddetto maggiore, che ripropone gli stessi schemi ed invarianti della lingua utilizzata, secondo un processo di standardizzazione, di uniformità chiarito precedentemente a proposito della critica alla storia.

Qui l’analisi deleuziana approfondisce le connessioni che si stabiliscono tra i vari mezzi attraverso cui il potere si diffonde; dopo la storia Deleuze tratta la questione della lingua, ed individua nella rappresentazione teatrale (in senso classico) indubbiamente uno dei principali veicoli culturali del potere stesso.

Il discorso relativo alla classificazione linguistica di Chomsky, ad esempio, chiarisce che per questa scienza “le variazioni che intaccano una lingua devono essere considerate come estrinseche e al di fuori del sistema, oppure come testimonianze di una commistione tra i due sistemi ciascuno dei quali sarebbe di per sé omogeneo.”[113] D’altro canto, però, Deleuze si interroga sull’uso maggiore, di potere, che sottende e marchia la lingua stessa quale suo strumento, cui contrappone la minorazione quale variabilità continua di una lingua, il suo uso minore, o il suo “teatro”, la sua proprietà creatrice per eccellenza.[114] In Mille Piani, questa proprietà è anche “sottrazione creatrice”, un uso minore della lingua stessa al posto della nozione di sottosistema, o dialetto, o gergo, che agirebbe nella lingua, proposta dai linguisti; in virtù di elementi come i tensori, la lingua in quanto macchina astratta traccia le proprie linee di variazione.[115]

Non è quindi corretto distinguere e classificare le lingue in maggiori o minori, ma utilizzare piuttosto questi termini solo sulla base dell’uso che ne viene fatto nel contesto del linguaggio e della facilità o meno con cui una lingua si adatta alla minorazione, nonché della possibilità che il processo di variazione ne rimetta in gioco le potenzialità creative.

La riflessione sul teatro della lingua — la variabilità continua insita nella lingua se considerata nel suo uso minore — indice quindi di una potenzialità creativa, riporta al Deleuze in Differenza e ripetizione a proposito del pensiero di Nietzsche e Kierkegaard: “Essi non considerano più il teatro alla maniera hegeliana, non fanno più un teatro filosofico, ma inventano, per la filosofia, uno straordinario equivalente di teatro”.[116]

Il “teatro” della lingua, così come quel “teatro” della filosofia indicato anche da Foucault, si riallacciano all’emergere della differenza, alla contro-effettuazione dell’evento differita in scena, all’avventura del mimo com’è descritta il Logica del senso.

 [1] G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 213.
 [2] G. Deleuze, F. Guattari, “Su Capitalismo e Schizofrenia, colloquio con Gilles Deleuze e Felix Guattari”, in AA.VV., Deleuze, Lerici, Cosenza 1976, p. 71.
 [3] G. Deleuze, Logica del senso, cit., pp. 208-209: “tali diagnosi [psicanalitiche] hanno pochissimo interesse, e si sa bene che non è in tal modo che la psicoanalisi e l’opera d’arte (o l’opera letterario-speculativa) possono annodare il loro incontro. […] Non è certo facendo “la psicoanalisi” dell’opera. […] Con il genio di Freud, non è il complesso che ci informa su Edipo e Amleto; sono Edipo e Amleto a darci informazioni sul complesso. Si potrà obiettare che non c’è bisogno di artista e che il malato basta da solo a fare il romanzo, e il medico a valutarlo. Ma sarebbe trascurare la specificità dell’artista, a un tempo come malato e come medico della civiltà: la differenza esiste tra il suo romanzo come opera d’arte e il romanzo del nevrotico.”
 [4] G. Deleuze, F. Guattari, “Su Capitalismo e Schizofrenia, colloquio con Gilles Deleuze e Felix Guattari”, cit., p. 75.
 [5] G. Deleuze, F. Guattari, “Su Capitalismo e Schizofrenia, colloquio con Gilles Deleuze e Felix Guattari”, cit., p. 76.
 [6] Ivi, p. 82.
 [7] P. A. Rovatti, Il paiolo bucato, cit., p. 196: “Ci sarebbero dunque due “follie”? Deleuze risponde di sì. La questione è delicata, ma la risposta di Deleuze è chiaramente leggibile attraverso tutta la costruzione di Logica del senso (tenderà invece a cancellarsi più tardi, almeno a partire da L’anti-Edipo): la “perversione” della superficie si oppone (non solo, dunque, si differenzia) alla “schizofrenia” della profondità/altezza.”
 [8] G. Deleuze, Critica e clinica, cit., p. 16.
 [9] G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 52.
 [10] G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p. 53.
 [11] Ivi, pp. 180-181.
 [12] Ivi, p. 195.
 [13] Ulteriori prospettive rispetto alla posizione di G. Deleuze, F. Guattari, più vicine alle riflessioni di J. Derrida, anche le più recenti interpretazioni dell’opera di A. Artaud, vedi la recensione di A. Bisicchia, Il mio furore è rigore, parola di Artaud, “Il sole 24 Ore”, 291, 1999, a C. Dumoulié, Antonin Artaud, Éditions du Seuil, Paris 1996; trad. Antonin Artaud, Costa&Nolan, Milano 1999: “E’ il ‘furore’ a generare la crudeltà, a produrre il contagio, l’epidemia, a far sì che la scena debba essere intesa come luogo della identificazione per la quale forze oscure elaborano una autonomia della scrittura (rivelata) che riporta lo spirito alla fonte dei suoi conflitti. Per Artaud il teatro è un rituale che consente di gestire la potenza del sacro o che mette la messa in scena nelle condizioni di obbedire alle medesime esigenze del rito. I riti ai quali Artaud fa riferimento sono quelli dei misteri eleusini dove il male si manifestava nella forma più pura o quelli del teatro balinese, adatti alla creazione di una poesia dello spazio scenico che permette di svuotarlo da tutto ciò che non gli è proprio per restituirlo alla sua purezza…”.
 [14] M. Ferraris, Deleuze. Critica, affermatività, sperimentazione, cit., p. 135.
 [15] Ibidem.
 [16] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., pp. 71-72.
 [17] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia ?, cit., p. 214. Cfr. anche M. Foucault, Theatrum philosophicum, cit., pp. 69-71.
 [18] C. di Marco, Deleuze e il pensiero nomade, cit., p. 271.
 [19] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 168.
 [20] Ivi, p. 174.
 [21] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 182.
 [22] Ivi, p. 183.
 [23] Ivi, p. 231.
 [24] Anche in: G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, cit., p. 159: “Può capitare che certi scrittori, poeti, musicisti, registi, anche certi pittori, persino alcuni lettori occasionali, si trovino a essere più spinozisti che i filosofi di professione. E’ questione di concezione pratica del ‘piano’” [il piano d’immanenza].
 [25] R. Bellour, Pensare, raccontare. Il cinema di Gilles Deleuze, “aut aut”, 276, 1996, p. 158.
 [26] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., pp. 102-103.
 [27] Cfr. Capitolo II, 3.
 [28] G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 181 (in corsivo nel testo).
 [29] Ivi, p. 190.
 [30] Ivi, p. 216.
 [31] Ivi, p. 212.
 [32] Ivi, p. 223.
 [33] G. Deleuze, “Sulla differenza dell’etica da una morale”, in Spinoza. Filosofia pratica, cit.
 [34] G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 212.
 [35] C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998, p. 269.
 [36] G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 212.
 [37] Ivi, p. 184.
 [38] A. Artaud, Œuvres completès, Gallimard, Paris, Tomo III, p. 83, cit. in C. Dumoulié Antonin Artaud, cit., p. 53.
 [39] G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 300.
 [40] Ibidem.
 [41] Ivi, p. 194.
 [42] Ivi, p. 199.
 [43] Ivi, p. 201.
 [44] Ivi, p. 203: “In questo senso già in Welles, poi in Resnais e anche in Godard, il montaggio acquista un nuovo senso, che determina i rapporti nell’immagine-tempo diretta e concilia lo spezzato con il piano-sequenza. Abbiamo visto che la potenza del pensiero faceva posto, allora, a un impensato del pensiero, a un irrazionale proprio del pensiero, punto del fuori aldilà del mondo esterno, ma in grado di restituirci credenza nel mondo. La domanda non è più se il cinema ci dia l’illusione del mondo, ma in che modo il cinema ci restituisce la credenza nel mondo.”
 [45] G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 131.
 [46] C. Arcuri, “Le ultime lezioni sono già state fatte, da sempre”, in G. Deleuze, F. Guattari Che cos’è la filosofia, cit., p. 242.
 [47] G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 130.
 [48] Ivi, pp. 134-135.
 [49] G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 188.
 [50] A. Busdon, Lettura di Mille Plateaux, “aut aut”, 187-188, 1982 (in corsivo nel testo).
 [51] C. Dumoulié, “L’evento Artaud. Prefazione all’edizione italiana”, in Antonin Artaud, cit.
 [52] P. Gambazzi, Pensiero, etica. Su alcuni temi della “Logica del senso”, cit., p. 99.
 [53] C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 326.
 [54] Ivi, p. 267.
 [55] G. Dotto, “Carmelo Bene, Shakespeare e l’attore musico nel teatro dell’irrappresentabile”, in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, Feltrinelli, Milano 1981, p. 31: “[l’intento di C. Bene è] annichilire le componenti stabili, omogenee, invarianti che fondano la rappresentazione a teatro” e p. 37: “Nel cuore di scritture sceniche concepite come rigorose partiture è la testimonianza della non-comunicabilità dell’evento che affiora e subito si nasconde. Un teatro dell’irrappresentabile dunque…”.
 [56] J. P. Manganaro, “Il profumo del furore”, in AA.VV., La ricerca impossibile, Marsilio, Venezia 1990, cit. in C. Bene, Opere con l’Autografia di un ritratto, Bompiani, Milano 1995, p. 1495.
 [57] J. P. Manganaro, “Il pettinatore di comete”, in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, cit., p. 61: “Il rappresentarsi di Bene – non foss’altro la sua voce – non è più il campo di una mimesi semplice o doppia […] Così, non sviluppati, gli elementi tornano regolarmente su sé stessi, si rappresentano, ma tale rappresentazione non è mai uguale alla precedente, aggira nuovi ostacoli o vi s’incaglia volontariamente per sottolineare la propria inefficacia.”.
 [58] C. Bene, G. Fofi, Io non sono un teatrante. Conversazione con Carmelo Bene, “La porta aperta”, 2, 1999.
 [59] C. Bene, L’orecchio mancante, Feltrinelli, Milano 1970, p. 169 (in maiuscolo nel testo).
 [60] C. Dumoulié, in C. Bene, Il teatro senza spettacolo, cit., pp. 26-27.
 [61] Lo stesso Bene pur non considerandosi un seguace di nessuno, afferma in più contesti di trovare il proprio posto lungo un asse ideale di autori quali Diderot-Wilde-Meyerchold-Artaud, che furono artefici ed operatori teatrali, secondo quella rete di alleanze – non filiazioni! – individuata anche da Deleuze.
 [62] C. Dumoulié, in C. Bene, Il teatro senza spettacolo, cit., pp. 24-26.
 [63] Cinecittà, produzione C. B. e “Donatello cinematografica”, Italia 1973; AMLETO: “Avevo cominciato con il dovere/di rammentarmi l’orrido orrido evento/per esaltare in me la pietà filiale/per far gridare l’ultimo grido al sangue di mio padre/per riscaldarmi il piatto della vendetta./Ed ecco invece ho preso gusto all’opera/Poco a poco mi scordai che si trattava/di mi padre assassinato/di mia madre prostituta/del mio trono…/Andavo avanti a braccetto con le finzioni/ di un bell’argomento…/E l’ARGOMENTO è bello!…”.
 [64] J. Laforgue, Moralités légendaires, Gallimard, Paris 1977; trad. Moralità leggendarie, Guanda, Milano 1977, cit. in E. Baiardo, R. Trovato, Un classico del rifacimento. L’Amleto di Carmelo Bene, Erga, Genova 1996, p. 61.
 [65] P. Klossowski, “Cosa mi suggerisce il gioco ludico di Carmelo Bene”, in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, cit., p. 11: “Da questo punto di vista, Carmelo reinterpreta l’opera secondo le movenze e le esigenze, i dubbi nascosti del drammaturgo, prima che questi non abbia pronunciato il proprio giudizio sull’esistenza attraverso l’uno o l’altro dei suoi personaggi, prima dunque che abbia eliminato i loro ‘doppi’ […] Ma, reinterpretando l’opera, al di là di una ri-improvvisazione ‘letteraria’ del testo, Carmelo restituisce il significato metafisico del teatro…”
 [66] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 70.
 [67] G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 8.
 [68] C. Bene, Riccardo III, in Sovrapposizioni, cit., p. 7: “Ogni qualvolta si sentiranno gemere voci di neonati, di tra le quinte, le signore impegnate in scena son tentate d’uscire e talvolta se ne vanno davvero – in quanto madri apprensive…Toccherà perciò a Riccardo deformarsi, per così, da civetta, divertire quei piccini davvero inopportuni, se non vorrà restare da solo a recitare.”
 [69] G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p. 153.
 [70] Ivi, pp. 403-404.
 [71] F. Zourabichvili, Deleuze e il possibile (sul non volontarismo in politica), “aut aut”, 276, 1996, p. 65, n. 16 “E se, in un altro registro, Deleuze e Guattari possono dire che anche le donne devono affrontare un divenire-donna, è per il fatto che la femminilità non è un dato essenziale, ma un evento o l’oggetto di un incontro.”
 [72] C. Bene, Opere, cit., p. 1039 (in corsivo nel testo).
 [73] Ivi, p. 1036.
 [74] C. Bene, Riccardo III, cit., p. 10.
 [75] Cfr. Capitolo I, 3.
 [76] G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 247.
 [77]C. Bene, Opere, cit., p. 1039.
 [78] P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 1997, p. 71.
 [79] C. Bene, Opere, cit., p. XIII: “squartamento del linguaggio e del senso nella discrittura scenica (de-composizione cartacea-orale-musicale del testo)/ disarticolazione del discorso succubo del significante / togliere di scena (contro la confezione culturale della “messa in”…) /demolizione della finzione scenica = dalla identità immedesimata o delazione epica “straniata” del simil-attore re-citante che, nella ottusità del ruolo, si preclude l’infinità dei doppi, dell’arredamento della regia critica…”.
 [80] C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 99.
 [81] C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, cit., p. 51.
 [82] G. Dotto, “Carmelo Bene, Shakespeare e l’attore musico nel teatro dell’irrappresentabile”, in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, cit., p. 36 (in corsivo nel testo).
 [83] C. Bene, Opere, cit., p. 1319.
 [84] Pentesilea la macchina attoriale-attorialità della macchina, momento n. 1 del progetto-ricerca Achilleide, da Stazio, Kleist, Omero e post- omerica, voce solista C. B., Milano, Castello Sforzesco, 26 luglio 1989 e Pentesilea, cit., momento n. 2, voce solista C. B., Roma, Teatro Olimpico, 19 maggio 1990.
 [85] C. Bene, Il teatro senza spettacolo, cit., p. 164.
 [86] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 72.
 [87] G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., p. 74.
 [88] G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., pp. 10-11: “Vorrei dire ora cos’è uno stile […] E’ un concatenamento, un concatenamento di enunciazione. Uno stile significa riuscire a balbettare nella propria lingua. […] significa innanzitutto la linea di fuga o di variazione che intacca ogni sistema impedendogli di essere omogeneo.”
 [89] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 73.
 [90] G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, cit., pp. 35-36.
 [91] Ivi, pp. 33-34: “Nel divenire non c’è passato né avvenire, neanche presente, non c’è storia.”
 [92] C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 72.
 [93] C. Bene, Opere, cit., p. 3.
 [94] Ivi, p. V.
 [95] Ivi, p. 1235: “Tutta la storia è storia della phoné. Si dà rappresentazione solo nella pagina scritta; la storia redatta, che non è più quella storia. Ogni storia redatta è immaginaria. Puoi rivisitarla unicamente attraverso il linguaggio. (Ri)viverla “originalmente”, quale messa in crisi del linguaggio.”
 [96] C. Bene, A Boccaperta, Giuseppe Desa, S.A.D.E., Masoch, Einaudi 1976; riedizione del solo A boccaperta, Linea d’ombra, Milano 1993; Lorenzaccio, con saggio critico di M. Grande, Nostra Signora Editrice, 1992².
 [97] C. Bene, Opere, cit., p. 4 (in corsivo nel testo).
 [98] G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p. 380: “Aiôn, che è il tempo indefinito dell’evento, la linea instabile che conosce solo le velocità e contemporaneamente continua a dividere quel che avviene in un già qui e un non-ancora-qui, un troppo-tardi e un troppo-presto simultanei, qualcosa che simultaneamente sta per accadere ed è appena accaduta. E Chronos, al contrario, il tempo della misura, che fissa le cose e le persone, sviluppa una forma e determina un soggetto.”
 [99] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 90.
 [100] Per quel che riguarda i riferimenti di Bene al meridione ed al salentino, dove nacque, si possono citare l’autobiografia Sono apparso alla Madonna, i romanzi Nostra Signora dei Turchi (e le relative edizioni teatrali e cinematografiche), e Credito Italiano V.E.R.D.I., la citata sceneggiatura A boccaperta, e lo spettacolo S.A.D.E. ovvero libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina, ora in C. Bene, Opere, cit.
 [101] G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit., p. 30.
 [102] G. Deleuze, Un manifesto di meno, cit., p. 75.
 [103] D. Diderot, Paradoxe sur le comédien, Flammarion, Paris 1967; trad. Il paradosso sull’attore, P. Alatri, (a cura di), Editori Riuniti, Roma 1989².
 [104] P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., pp. 98-101.
 [105] C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 234: “Lorenzaccio è quel gesto che nel suo compiersi si disapprova. Disapprova l’agire. E la Storia Medicea, dispensata, non sa di fatto stipare questo suo (?) enigma eroico […] Ma le cose son due: o la Storia, e il suo culto imbecille, è una immaginaria redazione esemplare delle infinite possibilità estromesse dalla arbitraria arroganza dei ‘fatti’ accaduti (infinità degli eventi abortiti); o è, comunque, un inventario di fatti senza artefici, generati, cioè, dall’incoscienza dei rispettivi attori […] che nella esecuzione del progetto, […] quel progetto stesso smarrirono, (de)realizzandolo in pieno.”
 [106] P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 162: “L’azione ha bisogno del passato e del futuro giacché è intenzione prima e rappresentazione poi, mentre è solo nel […] presente che (ac)cade l’atto […] In quel tempo – o in quel punto – l’attore non è più autore di nulla, nel senso che non controlla, non progetta (prima) né verifica (poi) l’atto o la parola. Vive insieme a loro un eterno istante, ma non ha il tempo (il chronos) di opporre ad essi la propria identità.”
 [107] C. Bene, Opere, cit., p. 1273 (in corsivo nel testo).
 [108] Ibidem: “Eccedere le forme. Per muovere i primi passi devi uscire dal tuo cammino, smarrirti, rinunciare al tuo modo, se vuoi pervenire a ciò che non ha più modo. Evadere ogni forma d’Arte, o quantomeno, avvertirne l’imbarazzo. Artaud, se fosse vissuto ancora un poco, avrebbe ravvisato in Francis Bacon il pittore che, finalmente operando, frusta – eccome! – l’idiotismo espressivo del dipingere.”
 [109] P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p. 93.
 [110] Ibidem.
 [111] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? cit., p. 171.
 [112] G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit., p. 42.
 [113] Ivi, p. 77.
 [114] Ibidem.
 [115] G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, cit., 1, p. 144: “Il tensore quindi non si lascia ridurre né a una costante né a una variabile, ma assicura la variazione della variabile sottraendo ogni volta il valore della costante…”.
 [116] G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 17.

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