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Cinema

Sul Trento Filmfestival 2006

Immagine articolo Fucine MuteUna volta tanto il resoconto di una manifestazione cinematografica comincia con un’anticipazione. Nel chiudere la cinquantaquattresima edizione del Trento Filmfestival Montagna-Esplorazione-Avventura il direttore artistico Maurizio Nichetti ha svelato il piccolo segreto che custodiva gelosamente. Ad aprire l’edizione del prossimo anno ci sarà la copia restaurata del capolavoro di Charlie Chaplin “La febbre dell’oro” (1925) con l’accompagnamento musicale dal vivo dell’orchestra Haydn diretta da Timothy Brock in cui Charlot si aggira frastornato tra le montagne dell’Alaska. Decisamente un bel colpo che immediatamente porta ad un’associazione visiva. A vederlo muoversi freneticamente a Trento tra un’iniziativa e l’altra Nichetti ricorda, per la corporatura minuta e la mimica facciale, il genio inglese. Un’impressione di non sola simpatia. A Nichetti infatti va riconosciuto il merito di aver cercato di “svecchiare” il Festival arricchendolo con molteplici proposte. Con un pizzico di sarcastica ironia l’artista milanese ha voluto intitolare il suo pezzo d’introduzione al catalogo “un Festival imperfetto”. 
Il concetto è il seguente: un Festival  perfetto fortunatamente non esiste. Ma questa condizione d’imperfezione rappresenta un fatto positivo perché consente un margine di miglioramento che rappresenta la molla per perseguire traguardi sempre più ambiziosi. Ed allora vediamo che cosa la manifestazione ha proposto ai tanti appassionati e ai numerosi ospiti che si radunano ogni primavera nel capoluogo trentino.

La serata d’apertura si è svolta all’insegna del balletto con una “Danza verticale” proposta dall’omonima compagnia svizzera, diretta dalla coreografa Erika Engler, che ha come scenario un palcoscenico verticale costituito da una parete d’arrampicata su cui si cimentano alpinisti,danzatori e acrobati. Il giorno seguente si è avuta la prima delle tre serate che il Festival ha voluto dedicare
all’alpinismo. Protagonista Alberto Peruffo con uno spettacolo intitolato “Ventimila piedi sotto il mare”. L’ispirazione deriva da una spedizione compiuta l’anno scorso sulla cima del Rakaposhi in Karakorum lungo lo sperone NW, il più lungo del mondo e tuttora inviolato. Nelle intenzioni dell’alpinista, ma anche editore, Peruffo c’era il desiderio di rendere omaggio al grande Jules Verne unito alla volontà di partire dalla perlustrazione degli sconosciuti ghiacciai del Rakaposhi e dei Batura per raccontare il valore universale del concetto di esplorazione.

Il secondo appuntamento con i protagonisti delle maggiori imprese alpinistiche ha radunato sul palcoscenico dell’auditorium del centro S. Chiara nomi molto conosciuti ed apprezzati. Tra essi figura anche il quarantenne tedesco Stefan Glowacz che fu scelto quindici anni fa da Werner Herzog per interpretare “Grido di pietra”, ambientato sulla difficile montagna del Cerro Torre in Patagonia. E proprio la Patagonia è stata la meta della sua ultima spedizione compiuta assieme a Robert Jasper lo scorso novembre. Stessa destinazione anche per il celebre alpinista trentino Ermanno Salvaterra, unico ad avere aperto quattro nuove vie sul Cerro Torre. Mentre il francese Yannik Graziani ha raccontato al folto pubblico la sua ultima impresa sulla cima nord e centrale del Ciomo Lonzo in Tibet. è toccato poi ad Elio Orlandi descrivere il raggiungimento di un’impresa a lungo inseguita sull’imponente parete nord est del Chalten, resistendo alle tempeste patagoniche.
Lo svizzero Ueli Steck ha invece portato a termine due eccellenti salite in solitaria nella regione nepalese dell’Everest. Seguendo il filo di una narrazione ironica il sudtirolese Cristoph Heinz ha tracciato la sua ascensione alla Torre Trieste. Tra tanti uomini c’è stata anche giusta gloria e meritato apprezzamento per un’atleta come Anna Torretta, considerata la maggior specialista di arrampicata sul ghiaccio e molto abile a portare a termine salite estreme come su El Capitain nel parco dello Yosemite (California). L’ultima serata ha avuto come protagonista assoluto Kurt Diemberger, nato a Salisburgo una settantina di anni fa e testimone di prima grandezza dell’alpinismo degli ultimi cinquant’anni. è lui l’unico alpinista vivente a poter vantare due prime ascensioni assolute oltre gli 8.000. In due ore di affascinante racconto Diemberger ha raccontato gioie e dolori della sua lunga vita in montagna: da quel lontano 1957 quando, assieme a Hermann Buhl, raggiunse, senza portatori e senza ossigeno, gli 8.048 metri del Broad Peak, a quella tragica scalata di trent’anni dopo che costò la vita a molti suoi compagni di cordata tra cui la sua compagna Julie.

Immagine articolo Fucine Mute

E veniamo ora a parlare del concorso che ha proposto cinquanta opere provenienti da ventiquattro paesi selezionate tra le duecentosettantasei inviate al Festival. La giuria composta dagli italiani Eugenio Alberti Schatz, Luisa Iovane e Carmen Tartarotti, dalla slovena Marjeta Kersic e dal canadese Carlos Buhler, ha assegnato i seguenti riconoscimenti. Tre menzioni sono andate ai seguenti film: “Bezad’s Last Journey”, un video di un’ora dell’irlandese John Murray che segue il tragitto di 500 chilometri che ogni primavera Bezad, un umile pastore iraniano, compie per trasferire il suo gregge verso gli alti pascoli estivi. Poi “Made in Italy” del belga Fabio Wuytack che in trenta minuti compie una curiosa operazione partendo da un filmato storico girato cent’anni fa dagli operatori legati ai fratelli Lumiere a Carrara per documentare un’escursione nelle Alpi Apuane odierne, dove i cavatori lavorano i blocchi di marmo. Terza menzione a “Les Femmes du Mont Ararat” del francese Ervan Briand che riprende la vita nel Kurdistan di un gruppo di ragazze guerrigliere aderenti al PKK, ma del tutto autonome dalle formazioni maschili. Lungo i 90 minuti del filmato scopiamo aspirazioni e desideri di queste combattenti coraggiose ed idealiste.

Il premio speciale della giuria è stato assegnato a “Zdroj — The Source” (75 min.), un documentario del regista praghese Martin Marecek che esplora il territorio di Baku, in Azerbaigian, dove la scoperta di giacimenti petroliferi ha convogliato le grandi compagnie petrolifere. Peccato che l’oro nero non abbia giovato alla maggioranza della popolazione che continua a sopravvivere in condizioni di estrema miseria. La Genziana d’argento per il miglior contributo artistico è andata a “Tameksaout” (95 min.) del regista francese Ivan Boccata che testimonia il dissolvimento della cultura berbera attraverso i ritratti di un’anziana coppia di pastori nomadi dell’Atlas marocchino, il cui unico patrimonio sono le capre che rappresentano la loro ragione di vita.

La Genziana d’argento per la miglior produzione televisiva ha visto il prevalere di “The Giant Buddhas”, un bel documentario di 95 minuti dello svizzero Christian Frei che documenta la distruzione da parte dei talebani di due enormi buddha medievali scavati nella valle Bamyan. Al viaggio del regista in Afghanistan si affianca quello di una donna di Toronto che ricerca spiritualmente i luoghi che diedero i natali a suo padre. La Genziana d’oro per il miglior cortometraggio è toccata a “Hotel Infinity” (33 min.) dell’inglese Amanda Boyle che come in una favola ci porta in un albergo tra le montagne. L’hotel del titolo, nonostante i continui ampliamenti, non riesce a soddisfare tutte le richieste. Ovviamente si tratta di un paradosso che rimanda ad una metafora sull’espansione senza limiti e sulle sue conseguenze.

Il premio Città di Bolzano e la Genziana d’oro è stata attribuita a “Jenseits von Samarkand” (44 min.) dei tedeschi Thomas Wartmann e Lisa Eder, struggente storia d’amore. Protagonista è Zumbula, una ragazza uzbeka diciassettenne, facente parte di una famiglia numerosa e in procinto di sposarsi. Nel corso di un lungo monologo veniamo a conoscere i suoi valori, le sua aspirazioni, le sue paure e i suoi dubbi. Con decisione un po’ sorprendente la giuria di quest’anno ha deciso di non assegnare il Premio Club Alpino Italiano- Genziana d’oro per il miglior film sull’alpinismo, in quanto non ha riscontrato opere particolarmente significative. Gran premio Città di Trento — Genziana d’oro per il miglior film in assoluto è stato assegnato a “Conflict tiger” (60 min.) dell’inglese Sasha Snow. Mescolando sapientemente fiction e documentario quest’opera ci restituisce il paesaggio desolato ma non privo di fascino della Russia orientale , dove facciamo la conoscenza con Yuri Trusch, uno specialista nello stanare e nell’uccidere le tigri che manifestano una crescente aggressività nei confronti dell’uomo. Parallelamente siamo infornati sulle dure condizioni di vita della popolazione che abita quelle remote foreste ai confini con la Cina.

Da segnalare ancora alcuni notevoli film nella sezione intitolata “Eventi”. Ricordiamo “Il cane giallo della Mongolia” (Germania, 2005) di Byambasuren Davvaa, che ci racconta il profondo legame che si instaura tra una bambina nomade e un cucciolo di cane, inizialmente rifiutato dalla sua famiglia. Poi “La piste” (Francia, 2006) di Erik Valli, con protagonista un’altra bambina che, dopo aver trascorso un’infanzia felice nell’Africa australe, riparte verso la civiltà moderna assieme alla madre. Ma la nostalgia per il padre si fa sentire negli anni successivi, cosicché lei decide di tornare nei luoghi delle sue origini. Sul versante sportivo si è visto “Overcoming” (Danimarca, 2005) di Tomas Gilslason, che ha puntato la sua cinepresa sulla più celebre corsa ciclistica del mondo, il Tour de France, e sulle imprese di un forte campione come Bjarne Riis.
E “Sky jumping paris -Road to Torino 2006” (Giappone, 2006) di Richard Massima e Masaki Kobayashi che cita fin dal titolo una nuova disciplina ammessa all’ultima edizione delle Olimpiadi e che consiste nel salto di due atleti sullo stesso paio di sci. Infine, nella serata conclusiva, è stata proposta l’opera più recente di un grande maestro come Werner Herzog che ultimamente sembra maggiormente interessato ad esprimere la sua visione poetica attraverso storie di vita reale.

Immagine articolo Fucine Mute

E una figura come Timothy Treadwell non poteva che affascinarlo. L’uomo aveva, infatti, deciso di consacrare la sua esistenza allo studio degli orsi Grizzly che si aggirano nella selvagge lande d’Alaska. Nel corso degli anni egli aveva realizzato parecchi filmati su questi imponenti animali. Per sua disgrazia Treadwell ha perso la vita, ucciso e divorato, proprio da uno di quegli esemplari che egli trattava come figli. Herzog si conferma lucidissimo esploratore dei comportamenti umani più rischiosi. Con negli occhi questo notevolissimo film, Trento ha congelato il suo numeroso e partecipe pubblico dando l’arrivederci all’anno prossimo.

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