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Scrittura

Umberto Piersanti

Dalla provincia dell’impero la riscossa della poesia

Le scoperte del mondo che c'è stato

Immagine articolo Fucine MuteLuigi Nacci (LN): Umberto Piersanti: poeta, romanziere, critico, docente universitario, film-maker, autore per la televisione, insomma, una vocazione artistica e intellettuale dal sapore pasoliniano. Pasolini scriveva in Poeta delle ceneri che non c’è altra poesia che l’azione reale e che avrebbe voluto essere scrittore di musica per poter comporre musica, ovvero l’unica azione espressiva indefinibile come le azioni della realtà. Anche Piersanti vorrebbe essere scrittore di musica?

Umberto Piersanti (UP): Sì, quello che dice Pasolini è vero.
Perché ho cominciato a fare del cinema? Io nomino spesso le piante: il favagello, la vitalba, lo scotano… a un dato punto non volevo solo dire: “quel ceppo di rosa canina”, avevo bisogno di farla vedere, di buttarci sopra la camera. È così che mi è nata la voglia di fare del cinema, con tutti i mezzi possibili uno cerca di esprimersi. Rimane il fatto che la mia vocazione primaria è la parola e persino all’interno della parola la poesia predomina sulla narrativa. Io sono stato molto contento che Mario Luzi su “Venerdì” di “Repubblica” avesse scritto che L’estate dell’altro millennio era il romanzo più bello di quel periodo, magari avrei preferito che l’avesse detto delle mie poesie — gliene sono gratissimo ugualmente.
Quello è un romanzo vero, in genere i poeti scrivono brutti romanzi, perché magari fanno troppa prosa poetica oppure si dimenticano di essere poeti. Nel mio romanzo il protagonista guarda il mondo, gli alberi, le cose, la guerra (si svolge nella seconda guerra mondiale con l’occhio del poeta). Per concludere: tutte le cose mi attraggono profondamente, ma la vocazione primaria rimane la parola.

LN: Nella sua poesia un ruolo centrale è rivestito dal rapporto tra soggetto e luogo, laddove il luogo è prima di tutto la natura (marchigiana), una natura che, come afferma Galaverni, “non ha bisogno di essere antropomorfizzata, bensì è sentita nella sua dura presenza, nel suo carico di vita pulsante e erotica, senza mai scivolare nella facile pacificazione del verso bucolico”. Lei ha lavorato assieme a Doplicher, un poeta che ha fatto della metamorfosi una delle proprie figure principali di poetica: metamorfosi del luogo, della materia che lo compone, liquidità magmatica del paesaggio, mondo-discarica in cui il ferro e la ruggine prevalgono sul dato naturale, modificandolo, rinnovandolo. Doplicher, intellettuale immerso nel suo tempo, ha esplorato lo spazio delle periferie, delle bidonville contemporanee. Piersanti come fa a rimanere intellettuale del suo tempo, immerso nel suo tempo (e lo dimostrano anche tutte le sue attività) pur cantando uno spazio antico, quasi anacronistico? Non c’è il rischio che questo avventurarsi per i suoi colli, i suoi luoghi persi, [titolo del suo volume di versi pubblicato per Einaudi nel 1994] si trasformi ad un certo punto in una fuga dalla realtà, una sorta di de-responsabilizzazione?

UP: Paolo Volponi una volta disse che in Italia “locale” fa rima con “universale”, non “localistico”, e aveva aggiunto: come potremmo spiegarci un Pascoli senza Romagna e Garfagnana, un D’Annunzio senza Abruzzo e Versilia, un Pavese senza le Langhe, un Saba senza Trieste, un Montale senza Liguria, etc.? Anche a livello della grande letteratura mondiale: ho finito di leggere Walcott, Walcott è radicato nell’isoletta di Santa Lucia, e lasciamo perdere Gabriel Garcia Marquez. Le radici sono un elemento importante. Naturalmente non per tutti, ma per una grande parte della poesia. Seamus Heaney ad esempio è radicato anche lui nella sua torbiera. Il problema però è che troppo spesso i luoghi diventano superficiali o consolanti, idillici — anche se io non odio la parola “idillio”.
Ci sono due parole che gli intellettuali italiani hanno messo al bando: “idillio” e “elegia”. L’idillio (ripreso da Leopardi con senso diverso) era nato con Teocrito da Siracusa ed era una cosa stupenda: un quadro campestre perfetto, l’elegia una tenerezza. Non trovo che le parole “idillico” e “elegiaco” dovrebbero avere un significato negativo in sé. È la cultura marxista e cattolica, è la superstizione dell’impegno ad ogni costo che ha caricato queste parole di un senso negativo. Però io non sono idillico in questo senso.

Immagine articolo Fucine Mute

Cosa sono le “Cesane”? Non le ho scoperte io, le ha dipinte Piero Della Francesca, Paolo Uccello, Raffaello Giovane, Raffaellin del Colle, Luca Signorelli, le ha cantate Pascoli in una famosissima poesia (Campane a sera) e Volponi c’ha ambientato uno dei suoi romanzi più importanti, Corporale. Poi sono arrivato io e ne ho fatto una mia ossessione…
Cosa sono le “Cesane”? Sono una serie di colline tra Urbino e Fossombrone. Sono molto belle, si vedono tre o quattro regioni: l’Umbria, la Toscana, la Romagna, l’Appennino da una parte, il mare dall’altra. Ma ci sono luoghi anche più belli, le Alpi Apuane ad esempio. Non bisogna amare i propri luoghi alla Bossi. Non è che le tue radici sono tutto e quelle degli altri sono delle coglionate. Dio ce ne scampi…
Mi spiego con un breve raccontino: nel 1948, quando avevo sei anni, andavo alle Cesane; era un buio assoluto perché non c’era la luce elettrica (qualche lume a petrolio). Il mio bisnonno mi raccontava: “Sai Umbertino, cosa mi è successo oggi? Andavo giù per il fosso di Chespasso, santa madonna ho visto un cagnetto nero, m’ha fatto compassione e l’ho messo dentro al birroccio. Appena l’ho messo nel birroccio, i buoi non andavano più avanti e il cagnetto diventava ogni minuto più grosso e più nero e mandava i lusini e i lampi dal pelo. Allora gli ho detto: per il tuo Dio, ma tu sei il diavolo! Gli ho dato una frustata, lui ha messo le ali ed è volato dietro al monte della Conserva”. Il mio bisnonno mi raccontava queste storie come per dire “ho preso un caffè con un amico”, etc. Io appartengo a quella generazione che ancora ha fatto appena in tempo a intravedere un mondo totalmente altro.

Quando io ho fatto il mio primo viaggio in una treggia, carro senza buoi, con due stanghe sotto a mo’ di slitta e c’era il sacco di farina che perdeva — questo spettacolo è più vicino al 1200 che al 2005. Però attenti: poesia di natura e di campi è un luogo comune e facile, che tra l’altro mi ha comportato l’antipatia di tutti i poeti metropolitani, in particolare di vari milanesi. Sono in buona compagnia perché anche Leopardi (io sono un po’ — parecchio — di meno, eh) andò a Milano e gli dissero: “perché non scrivi come Berchet?”. Questo scrive “donzelletta” come Monti, viene da quel borgo marchigiano, è fuori dalla modernità. La natura è piena di inganni. Se io comincio a dire: com’era bello quel tempo, mangiavamo il granturco che non era transgenico, l’aria era buona, davanti al camino si raccontavano le storie… era un mondo anche durissimo, un mondo in cui una donna che aveva abortito doveva ritornare nel campo a tagliare il grano. Quando mi dicevano: “Umbertino non passare davanti a Chespasso perché lì c’è una vecchia che se ti guarda ti fa il malocchio!”. Allora io facevo quattro chilometri per non passare di lì…
Era un mondo anche duro. Però è un mondo che c’è stato, e ciò che è stato è irrevocabile.

Altra piccola storiella (la gioco come quando faccio le letture di poesia pubbliche, per un pubblico che non è avvezzo alla poesia — lo faccio spesso): quando io ero piccolo mi mandavano in colonia, quella dei preti e quella dei comunisti, l’importante è che mi davano da mangiare, non gliene fregava niente ai miei quale era l’impostazione ideologica della colonia. In quella dei preti si facevano peccati solitari, in quella dei comunisti lo stesso… la differenza era che in quella dei comunisti non ci si confessava, in quella dei preti sì. Non c’erano altre differenze profonde. In quella dei preti, che guarda caso era in Romagna, a Misano Mare, m’innamoro di una bambina, tutta bellina, di Firenze, Lucianina, e il prete, invece di farmi mangiare vicino alla bambina, mi fa mangiare sempre vicino a un ragazzetto di Cesena, mostruoso, con la faccia tutta butterata.
Allora io dicevo: “Padre Franco, io vorrei mangiare con la Lucianina”… “No”, diceva, “tu devi mangiare là, perché più soffriamo nella terra, più saremo ricompensati in cielo”. Ed io che ero già abbastanza loico, gli ho risposto: “ma siccome m’avete detto che c’è anche chi va al’inferno, metti caso che io c’ho la sfortuna di andare all’inferno… soffrirò in futuro, ché nessuno mi salva e soffro anche adesso!”.
Quando però questo bambino è andato via mi ha detto: “ciao Umberto, non ci vediamo più” — ho provato un tuffo al cuore.

Immagine articolo Fucine MuteQuesto vale per ogni cosa che scompare. Nel raccontare un antico mondo contadino, dal momento che, una volta passati, sogni e ricordi sono la stessa cosa: la memoria ha compiuto una differenza, è diventato uno spazio dell’altrove. Ecco cos’è il luogo perso, è uno spazio dell’altrove, ecco cos’è un tempo che precede, è un tempo che precede la tua nascita e accompagna parallelo la tua vita. In questo io sono l’opposto esatto di Fabio [Doplicher]: quando facevo i filmati la mia ossessione era che se c’era il filo della luce più inverosimile, io obbligavo l’operatore a fare i salti mortali perché non volevo un filo della luce, un campanello, un pezzo di latta arruginito, perché queste Cesane per me erano diventate uno spazio mitografico.

Immagine articolo Fucine MuteMitografia, mitologia… come per esempio quella di Conte: egli prende gli dei o altro, seppur in modo molto intelligente, e li mette adesso. La mitografia è trasformare un luogo in un mito, in una dimensione diversa, che è il compito più difficile. Dice Galaverni: “fare di un luogo un luogo poetico”. È facile parlare dei nostri luoghi, è molto difficile farne una patria poetica. Io spero d’esserci riuscito. Le mie Cesane sono un luogo diverso, dove il pastore incontra la fata, che è la bellezza assoluta; non sa se c’ha fatto l’amore perché l’assoluto è imprendibile, se è un sogno o altro; tenta di salire nell’arcobaleno, che è l’indicazione dell’assoluto, però il mio protagonista ritorna a terra, perché sceglie sempre la terra.

Sono un poeta non metafisico. Anche la parola “spirituale” mi rompe, mentre credo di avere una forte percezione “emotiva e spirituale” delle cose. Ecco allora che Umberto Piersanti poeta delle Cesane non è il poeta del buon tempo antico ma è il poeta di un mondo dell’altrove, un mondo che si è visto sgretolare tra le mani e in questo mondo c’è sia l’uccelletto che viene mangiato, divorato dalla vipera nel suo primo volo; c’è la crudeltà, la paura, la morte; ci sono quelli che uccidono il mugnanio il giorno che è andato a far festa.
Non è una natura completamente serena, tutt’altro, come è la natura; gli etologi ci dicono che è giusto che la tigre mangi la gazzella perché è il ciclo della vita, però alla gazzella non piace essere mangiata dalla tigre. Questa è la mia invenzione, un luogo e uno spazio colti come una realtà che è diventata anche simbolica ma che è partita da un dato più che reale di un mondo oramai completamente perso. La fortuna di un titolo come I luoghi persi sta proprio in questo: contro ogni facile ecologismo, contro ogni facile banalizzazione della natura.

Sulla lingua: io appartengo alla tradizione centrale, non sono né settentrionale, né meridionale, non sono né barocco come spesso sono i meridionali, e non sono né con l’abbassamento prosastico come imperano i milanesi che ormai dettano legge a tutti — per cui tutti in Italia si adeguano alle volontà di chi dirige le grandi case editrici. Io c’ho nell’orecchio questi suoni: c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d’antico, io vivo altrove e sento / che sono intorno nate le viole. Oppure: Silvia rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / e tu, lieta e pensosa, il limitare/ di gioventù salivi?. O Ancora: I cipressi che a Bólgheri alti e schietti / Van da San Guido in duplice filar… Galaverni dice: Piersanti è anacronistico… In Italia hanno tutti paura di essere anacronistici. Il terrore in questo paese vecchio è di essere definiti vecchi. Però il mio ancronismo è questo: c’ho ancora un canto, un ritmo e un suono che so che naturalmente deve misurarsi col presente e c’ho un mondo di immagini a cui voglio dare una compiutezza. Voglio individuarlo come un altrove. Niente è più banale del parlare dei luoghi in modo semplice. Ho vinto la scommessa? Non lo so, io dico di sì.

La differenza con Doplicher: Fabio ha in presa diretta la modernità, la soffre, e allora c’ha il catrame, i dolori, il petrolio; nello stesso tempo è attratto profondamente dalla natura: Come i biancospini di Montebello / oggi accecati di edifici… e poi Doplicher è triestino: è una lingua di un italiano perfetto (fa anche le poesie in dialetto triestino ma c’è arrivato molto dopo), un italiano di quelli di frontiera, che sono anche molto precisi, il mio invece è un italiano che non è quasi mai dialettale, però c’ha una koiné centro-italiana che tutti possono capire dalla Calabria al Cadore: la biscia “sguilla” tra l’erba, non scivola: tutti mi capiscono. Doplicher è ossessionato dalla modernità, la affronta, è inquieto, c’ha un più forte senso del sociale del sottoscritto. Io un tempo ho fatto anche poesie un po’ impegnate, ma tanto io sono uno di sinistra che ama poco la sinistra italiana, non perché dico che è troppo poco di sinistra, ma perché è troppo sinistra e troppo scema, ha creduto ad ogni ideozia: nel ’45 ha creduto a Stalin, durante la rivoluzione culturale cinese — che adesso sanno che è costata 50 milioni di morti — trovatemi un intellettuale italiano che non è stato per Mao; oggi vedono solo Bush ma i tagliatori di teste non li nominano mai. Allora, se D’Elia mi fa le poesie sul Kosovo mi deve raccontare delle fosse. Oramai ho una grande diffidenza verso l’impegno, primo perché in genere nascono le poesie peggiori, per esempio Gianni [D’Elia] è un poeta che stimo ma non tanto nella versione dell’impegno quanto nella rappresentazione di una generazione che ha trovato le sue inquietudini, le sue angosce.
Fabio [Doplicher] era impegnato socialmente, non era ideologico, c’aveva questa volontà di dire, credeva in questa poesia… io invece credo ormai — come una delle possibilità della poesia, perché essendo laico fino in findo non credo che nessuna delle strade sia risolutiva — che la mia scelta è stata quella di percepire ancora il mondo con stupore, di ricordare non in modo politico e sociologico, ma neanche idillico-agreste, raccontando le inquietudini, le dimensioni, ma anche questa percezione magica della natura, che però è una natura che prima o dopo dovremo perdere, che non ci toglie il senso della perdita. Tra l’altro credo che lo scontro di ogni poeta e di ogni artista non è con la storia, è con il destino. Lo diceva perfino Marcuse, che era il massimo dell’impegno. Per cui io credo in questo momento di avere uno spazio mio e isolato. Sono il poeta che più parla di natura, adesso poi che non c’è più Bertolucci… Zanzotto è un’altra cosa.

Immagine articolo Fucine Mute

Sono il poeta che ha ancora la percezione del canto. Sono il poeta che si inventa una sua mitografia. Sono un poeta non amato e non popolare (c’ho i miei estimatori), tra i giovani non vado forte, però sono destinato ad essere sempre più valutato, col tempo, perché comunque sono andato controcorrente sul serio, ma non per fare quello che va controcorrente… per raccontare un mondo inattuale, ma, per questo, ancora più profondo e importante, perché nello scontro col mio mondo inattuale è nata la civiltà d’oggi. Io ho raccontato e sto raccontando questo passaggio. Mi sono trovato una strada difficile, perigliosa, ho la fortuna di avere anche dei grandi editori, situazioni forti, però ripeto: è una strada isolata. Nonostante qualche esclusione qua e là, Umberto Piersanti è destinato a mio parere a crescere: le mie poesie si imporranno sempre un po’ di più — lasciatemi finire con questa sparata… non sono un vanitoso. Credo che la poesia è una cosa straordinaria ma bisogna sempre ricordarsi che camminare tra gli alberi, mangiare la mortadella, e far l’amore in mezzo ad una macchia è rimasto sempre il senso vero delle cose.

LN: Nel 1982 in un intervento per il convegno internazionale di Fano organizzato dalla rivista “Stilb”, lei auspicava, di contro alla prospettiva di un mondo letterario “calderone di favori, di controfavori, banalità”, etc., la nascita di una vitalità nuova grazie alla provincia italiana, intesa come “luogo attivo e concreto che si proietta nel locale e nell’universale”. Si guardi indietro: ciò è avvenuto? La provincia italiana ha davvero evitato il tracollo dell’ambiente letterario? Oggi, se dovesse auspicarsi qualcosa per il futuro della nostra poesia, cosa auspicherebbe?

UP: Una volta ho fatto uno studio su Radio3, che pure è la radio migliore e che dà più spazio: se vediamo le presenze dei romani e dei milanesi sono assurde — insieme formano più dell’80% delle presenze. Roma e Milano rappresentano due centri di grande potere, Milano con l’editoria e la grande stampa e Roma con la grande stampa, la televisione e oggi anche con un’editoria che si sta cominciando ad affermare. La provincia è vero che è vitale: siamo in Romagna, la poesia dialettale romagnola è stata una delle grandi componenti, Mengaldo addirittura dice che Baldini è il più bravo di tutti. Siamo a tre passi dalle Marche: c’è la mia presenza, c’è quella di D’Elia, di De Signoribus, Scataglini (grosso poeta scoperto dopo), Paolo Volponi (poeta e grandissimo romanziere), con una differenza: Paolo Volponi come i più vecchi andava a Roma o Milano, gli altri marchigiani sono rimasti nelle Marche: è una regione buona per la poesia.

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Tu sei triestino, non è più la Trieste di un tempo ma qualcosa si muove. La Toscana non è più quella di Mario Luzi però ancora c’è qualcosa. Il Sud è messo un po’ male anche perché c’è questa emigrazione su Milano e questo appiattirsi sulla televisione: ogni iniziativa del Sud se c’è la televisione son disposti a pagare i milioni… c’è questa svendita paurosa… invece la gente risponde benissimo: io sono stato nel Gargano e nel Salento, ho venduto molti libri, però gli amministratori e i poteri forti sono molto peggio dei nostri.
Bologna, che con la Niva Lorenzini è il peggio dei peggi, e aveva dato il non plus ultra degli sperimentalismi più idioti, oggi col Centro della poesia si sta muovendo. La provincia esiste, è vitale, non tutta allo stesso modo: le Puglie non sono le Marche. Ne parlo sempre col mio amico Salvatore Ritrovato che dice: “un esempio, le Puglie”. In poesia è mezzo vero. E poi c’è un bacino di utenza nella provincia.

Sai cos’ho fatto la scorsa estate? Io, due musicisti, un violinista, e un chitarrista, una donna bellissima vestita di nero (due tette da morire da sotto il palco, wow, che ti schiantano) e io in mezzo con le poesie… poi mi facevano le domande: “cos’è un poeta, a cosa serve”, e io andavo a dire che il poeta non è un cantautore, non è che andavo a solleticare i gusti del pubblico. Nove piazze marchigiane, paesi piccolissimi, alla fine: 20 copie vendute nella media per ogni lettura. A Numana una ragazza di Treviso mi ha detto: “è il primo libro di poesia che compro in vita mia, se non l’ascoltavo non l’avrei mai comprato”.

C’è un pubblico che dobbiamo andare a cercare, non con la poesia bassa o con l’infinità di autori locali che leggono i loro dialetti da quattro soldi (c’è la grande poesia dialettale ma c’è anche quella mostruosa). Bisogna però andare a cercarlo, a conquistarlo un po’. I romani e i milanesi non sono interessati, gli interessa essere su Fahrenheit e sulla televisione e avere la recensione sul “Corriere della Sera”, non tutti: Loi è uno pronto ad andare dappertutto, come lo era Luzi, anche Giampiero Neri, anche se non gli dai una lira.
La Patrizia Valduga bidona sempre tutti. Dice che viene poi non ci va, vuole un mucchio di soldi, è proprio questo che l’ha resa personaggio in Italia: se dici che Leopardi non vale niente e che Penati è un grande scrittore… se sei uno che non ha nessuna entratura al “Corriere della Sera” sei distrutto, ma se hai entrature al “Corriere della Sera” sei anche raffinato.

Io ho portato la poesia a un pubblico diverso. Se lo provassimo a fare? La provincia potrebbe essere anche questo. Se vado a leggere a Milano o Roma mi ritrovo sempre con qualche altro poeta che pensa: “ma Piersanti…”, c’è la battutina dietro… chi mi vuol bene, chi mi vuol male…
Io sono un sociologo della letteratura: 6 milioni di finlandesi leggono più libri di poesia di 58 milioni di italiani — finché non rovesciamo questa situazione è disperante. Non dico che dobbiamo arrivare alle masse, io sono contro ogni demagogia, ma a un pubblico normale: invece di avere 8-10 mila lettoria di poesia, arrivare a 40-50 mila lettori come le nazioni civili, questo sarebbe il grande salto vero della poesia. Non ci riusciamo.

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Una volta viene una ragazza da me, mi fa: “Professore le devo far leggere il mio libro di poesie”. Io l’ho sentita per telefono, è una donna, magari è anche bona… facciamola venire. Arriva, era anche carina, pesarese, un po’ stronza, dopo un po’ mi legge le sue poesie e io le dico: “ma perché lei mi ha scelto per farmi sentire?”. “Eh”, dice, “così…”. Ed io: “M’hai mai letto?”. “No” dice lei, “io leggo solo me stessa e i classici”. Allora le ho aperto la porta e nonostante fosse bona l’ho buttata a calci nel culo giù per il corridoio.
Anche quelli che scrivono poesie non leggono gli autori. Non si leggono neanche tra di loro, questo è il dramma. Se riusciremo ad avere un pubblico normale, non solo ultraelitario, senza per questo credere che arriveremo mai ad avere le masse, avremo migliorato la dimensione della poesia, non saremo più in balia di certi critici che in Italia hanno il naso ultra raffinato, per cui per molti critici funzioni se sei ultra sperimentale, se lavori sul significante, se non racconti quasi nulla… io non dovrei dirlo perché c’ho una parte di critici che hanno scritto anche bene di me.

Vedi questo festival di Riccione [Parco Poesia]? Riesce tutto bene e perfetto, ma dobbiamo aggiungere a questo le letture nelle piazze, nelle serate, nei teatrini, sperando di conquistare un pubblico diverso. La poesia non può avere le masse ma non può accontentarsi di un pubblico d’archeologia.
Cosa spero per la poesia futura? Spero che in tutta Italia ci si muova e si scriva, che la Mondadori non pubblichi i soli padani, che Fahrenheit non sia solo in mano ai romani, che ci sia un’attenzione a tutti gli autori italiani, che ci sia più vivacità, che i giovani siano meno ruffiani, che siano anche più disponibili e soprattutto: che questa linea dell’abbassamento prosastico padano sia una tra le possibili linee italiane, anche magari la più forte, ma che ci sia una libertà di ricerca e di intelligenza seguita con intelligenza e benevolenza non gratuita da parte dei critici, i quali dovrebbero imparare a non fare più solo le recensioni di favore o a non chiudersi più solo nelle università, a diventare dei critici normali.
Ci sono state delle antologie in cui, se andate a vedere gli interventi dei critici, ognuno ha messo i poeti che mancavano, tra i poeti che mancavano ognuno ha messo qualcuno che lo sa solo lui ed è suo amico.

Voglio sperare in una vita un po’ più onesta. Vivo nell’università che è il luogo più disonesto della terra dove ogni concorso è falso — compreso il mio — per cui spero per la poesia una dimensione più onesta, un’attenzione un po’ più vasta, una capacità di leggerci un po’ di più almeno tra di noi, e un’attenzione regionale non di tipo bossiano, non per i celti o le sagre saracene, ma per quello che l’Italia delle sue varie parti produce.

Nel parco di Villa Lodi Fè, a Riccione, ogni anno a Settembre si tiene  PARCO POESIA. Readings, laboratori, conversazioni, proiezioni e incontri, per incontrare da vicino i poeti. Durante le tre giornate, il pubblico di PARCO POESIA si trova a diretto contatto con gli ospiti e con i molti giovani autori che partecipano ogni anno al festival. Molte manifestazioni permettono di incontrare gli autori, parco poesia permette di parlargli, di conoscerli davvero, non solo nell’attimo in cui l’autore fugacemente firma un libro, ma nel corso delle intere giornate, in cui i poeti  siedono tra il pubblico, partecipano insieme al pubblico al buffet come ai molti momenti di dialogo che parco poesia propone.


I poeti a PARCO POESIA si offrono con la loro opera ma anche con il loro volto, come uomini oltre che come autori. Nell’atmosfera informale del parco, molti scrittori hanno la possibilità di incontrarsi e rincontrarsi, di guardare insieme il panorama sempre in fieri della poesia emergente, di dialogare tra loro e con i propri lettori. Molti giovani poeti hanno occasione di consegnare a mano i propri manoscritti, molte persone che amano la poesia o che ne sono anche soltanto incuriosite, hanno la possibilità di ascoltare gli scrittori, di avvicinarsi e parlare con loro, di porre domande agli ospiti come ai giovani autori.
A PARCO POESIA ogni anno nascono amicizie, discussioni, qualcuno litiga, qualcuno si entusiasma, qualcuno scopre qualcosa… e quando tornano a casa… tutti hanno qualcuno a cui scrivere, qualcosa di cui continuare a discutere… qualcosa che rimane.

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