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Cinema

Edo Bertoglio

Drogato di volti

Downtown 81Tommaso Caroni (TC): Volevo iniziare parlando del suo primo lungometraggio Downtown 81, l’ho trovato particolarmente interessante perché sembra quasi un manifesto sul modello dei primi film della Nouvelle Vague, un film iniziatico e non fine a se stesso. Lei sentiva, quando lo stava girando, di inaugurare e trasmettere agli altri l’esistenza di questa comunità che viveva nella Downtown?

Edo Bertoglio (EB): L’intenzione di Downtown 81, che all’epoca si chiamava New York Beat, era quella di avere un documento di ciò che stava succedendo a New York in quegli anni. Seguire una giornata tipo di un artista, come ce ne erano tanti in questa comunità, e di vedere come si evolveva in questo ambiente e in questa città. Le camminate di Basquiat erano un po’ le mie. Arrivato a New York mi ricordo che facevo delle gran camminate, assolutamente affascinato da questa città che con una camminata ti permetteva di attraversare decine di quartieri diversi, di odori diversi e di colori diversi, e ho voluto inserirle apposta nel film. C’era veramente l’esigenza di un documento, di questo momento magico che poi è finito nell’aids e nella droga, che restasse. Devo dire che sul set di Downtown 81 non c’erano droghe, faceva ancora parte di quel momento particolare, magico appunto.

TC: Nel film Basquiat, che è morto di overdose otto anni dopo averlo girato, rifiuta la droga che gli viene offerta durante la sua giornata; pensavo che lei avesse voluto intenzionalmente escludere questo aspetto, mentre invece non lo ha descritto perché non faceva ancora parte del vostro modo di vivere?

EB: Esatto, era già apparsa con qualche esperienza, ma non era ancora diventata quella cosa a cui facevamo capo tutti per dinamicizzare ancora di più l’ambiente. Non che ce ne fosse bisogno, perché come ho detto diverse volte quella comunità era come un fiume in piena, non c’era separazione tra lavoro e tempo libero, però con l’apparire della coca prima e dell’eroina dopo si è ulteriormente dinamicizzato il tutto, era veramente “usata” in società, nel senso che la usavamo per caricarci. Poi, uno si sveglia al mattino e si rende conto che dopo mesi su mesi di assunzione queste droghe così dure non le gestisci più.

graffiti

TC: La bellezza di Downtown 81, ciò che lo fa avvicinare ai film della Novelle Vague è la genuinità. Si vede che Basquiat è un ragazzo di 19 anni ed è bello che disegni i suoi graffiti, che poi sono stati il suo primo modo di esprimersi, in modo estremamente naturale. Da precursore, è come se lei avesse filmato quella che poi sarebbe stata la storia dell’arte.
Come mai la storia del film è stata così travagliata? Lei non ha sentito, una volta terminato, l’esigenza di mostrarlo al pubblico? Il film è rimasto bloccato per diverso tempo, perché non è riuscito a proporlo subi

EB: Non si è riusciti perché ad un certo punto avevamo un premontaggio di due ore e sono finiti i soldi, la società di produzione è svanita nel nulla, praticamente non ha avuto più la possibilità di darci soldi per finirlo. Per questo è per altre ragioni è rimasto chiuso in un cassetto per Venti anni, finchè per una serie di circostanze abbastanza fortunate siamo riusciti ad avere soldi per finirlo.
Venti anni dopo è stato selezionato a Cannes, nel 2000, e da lì Downtown 81 ha una vita propria.
Ora, da quando ci sono state le grandi mostre di Basquiat è sempre mostrato nei musei, poi uscirà anche il dvd in versione europea.

Walter Steding fotografato di fronte al suo dipinto; icona di Face Addict

TC: Face addict invece, il suo secondo lungometraggio, passato a Locarno e poi a Venezia, l’avevo immaginato diverso, più incentrato sull’arte, in realtà è un film molto personale anche doloroso, ed è un autentico percorso come a chiudere un cerchio per ritrovare una propria origine. Sembra quasi un work in progress, andando avanti non si sa dove si andrà a finire, ma si sente che c’è bisogno di andare avanti, è stato costruito in quest’ottica?

EB: Non lo so, so che avevo l’esigenza di tornare a New York dopo 15 anni di lontananza, di vedere cos’era rimasto di quella comunità, esigenza diventata molto forte proprio con l’uscita di Downtown 81. Man mano che si girava Face addict, che è stato realizzato sul periodo di due anni in tre viaggi diversi, mi sono accorto che io dovevo assolutamente parlare di quella che era stata la mia esperienza artistica e anche di quella che è stata la mia esperienza con la droga. Face addict è stato terapeutico per me, perché per poterlo fare ho dovuto finalmente aprire i miei archivi di fotografie di quegli anni, cosa che non ero mai riuscito a fare. Tornando sul mio passato di fotografo non solo sono riuscito a fare Face addict, non solo sono riuscito a stampare delle fotografie che mi sono servite per andare a trovare i personaggi che sono nel film, ma soprattutto sono riuscito a ritrovare quell’energia e quell’impulso necessari a fare quello che io ho sempre voluto fare, e che avevo dimenticato a causa dell’uso di droghe pesanti.

TC: Lei ha avuto un percorso fotografico molto legato ai ritratti, ai visi, se vogliamo anche unproprio stile glamour. Lei adesso continuerà sempre a fotografare le persone che conosce come è stato per tanti anni oppure cercherà percorsi diversi?

EB: Quello che voglio fare adesso è riprendere il filone dei ritratti, perché dopo Face addict ho ricominciato a innamorarmi ogni cinque minuti quando vedo una sguardo che mi parla. Quindi adesso lascerò un po’ da parte il cotè glamour che era presente in tante delle mie fotografie di allora, proprio per la presenza di personaggi che adoravano mettersi in scena, con dei riferimenti cinematografici della Hollywood degli anni ’40 e della Nouvelle Vogue, per lavorare molto più sullo sguardo e sul viso.

Manhattan BridgeTC: New York è stata la fonte artistica dell’ultimo secolo, a partire dagli anni Quaranta con l’astrattismo, poi nella letteratura, con la pop art e poi con voi, adesso si capisce che il mercato con la globalizzazione sta un po’ intossicando la città. Si sta intossicando l’arte in assoluto oppure si stanno soltanto spostando i luoghi in cui possono nascere realtà come la vostra?

EB: Una realtà comunitaria come la nostra dubito che possa rinascere, lo spero, ma non vedo proprio come, visto che non c’è più, soprattutto a New York, quell’ambiente amichevole nei confronti degli artisti. Gli affitti sono talmente alti che fanno sì che i giovani artisti che vengono a New York debbano fuggire da Manhattan e andare sempre più lontani dal cuore della città, e questo li disperde e non gli permette di vivere in un territorio abbastanza ristretto da essere in contatto tra di loro tutto il giorno tutti i giorni.

TC: E su altre piazze?

EB: Non lo so bisognerebbe andare a Shangai a vedere cosa succede, per vedere se è possibile che gli artisti siano vicino gli uni agli altri in modo che ci sia una grande condivisione di intenti e informazioni di scambio. Non lo so, sono un po’ pessimista.

John LurieTC: Nel film lei ha detto che ha avuto molta difficoltà ad intervistare John Lurie, lui non aveva voluto parlargli per parecchi anni, questo mi ha fatto ragionare sul momento in cui lei è stato messo su un aereo per andare via da New York, gli altri artisti come hanno reagito a questo suo allontanamento? Si sono sentiti traditi oppure hanno rispettato questa sua scelta?

EB: No non c’è stata assolutamente una situazione del genere, semplicemente perché la comunità aveva già incominciato a disfarsi verso il 1983/84 e quindi ci siamo dispersi, salvo casi di grande amicizia. Per quanto mi riguarda io dalla metà degli anni ’80 ho vissuto in questa solitudine in questo tunnel della droga dove mi nascondevo per la vergogna, anche perché non producevo quasi più niente e la mia vita era rivolta esclusivamente a cercare la roba. Quindi, siccome ci siamo distaccati tutti più o meno per lo stesso problema, ognuno è andato per la sua strada. Il mio problema di droga si è protratto per così tanto tempo che praticamente nessuno si era più accorto della ma assenza.

TC: Su internet ho scoperto che lei ha prodotto un documentario girato a Cannes in cinque giorni che si chiama Homo Cinematograficus, ero curioso di sapere che progetto era, visto che lei ha girato solo questi due film, che ruolo ha avuto in produzione, mi sembra abbia anche fatto l’operatore?

Edo BertoglioEB: No io ho fatto solo l’operatore, e sono anche nella produzione perché ce lo siamo prodotti in tre. Il progetto non era mio, ma di Alberto Veronese, il regista, l’idea era sua. Siamo andati a Cannes ed è stato molto bello, abbiamo cercare le star o comunque le persone che appartengono al mondo del cinema e le abbiamo intervistate per sapere che cosa fosse il cinema, è stata una meravigliosa esperienza, faceva un po’ parte di tutto quello che era per me il recupero delle mie passioni, dopo o durante la ricostruzione della mia vita.

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