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Cinema

Davide Sordella

A scuola da Mike Leigh

Fucine Mute incontra Davide Sordella, regista di Fratelli di sangue, film presentato a Venezia nella sezione Venice off.

locandina del filmTommaso Caroni: (TC): Come regista italiano hai avuto diverse esperienze all’estero, hai girato pubblicità e documentari e hai frequentato la scuola di cinema di Mike Leigh a Londra, questo ti ha permesso, tornato in Italia, di lavorare senza le aspettative e i timori che spesso limitano i giovani registi al primo lungometraggio, come ti sei trovato a lavorare con più serenità e libertà?

Davide Sordella (DS): Come regista questa è stata la mia prima esperienza in italiano, prima avevo diretto in spagnolo, inglese, qhecua, ma mai in italiano. In questo mio primo film, basato sul lavoro con l’attore, ho riscoperto la potenza e le sfumature della nostra lingua, delle mie radici e della mia vita. Fratelli di sangue non l’avrei potuto girare in un altro paese.
A livello di produzione devo dire che trovo un panorama piuttosto deludente, in questo campo vedo molte, troppe persone, che si lamentano, e devo constatare inoltre che in Italia è molto più facile fare un film che non farlo vedere. Credo che il problema fondamentale in questo paese sia la distribuzione, e strategicamente penso si debba investire molto di più su questo aspetto. Per quanto riguarda il continuo lamentarsi penso sia dovuto soprattutto al fatto che è veramente molto difficile fare un bel film. Fare il regista è un mestiere difficile, maestri non si nasce, e si impara solo lavorando, anche su brutte cose. Io personalmente non vedo tanti bellissimi film, quindi non c’è solo una responsabilità da parte dei distributori e dei produttori, ma anche di noi autori. Semplicemente bisogna rendersi conto che è molto difficile fare un bel film e tutti dovremmo essere più umili nell’affrontare il lavoro e esporre giudizi.

TC: Mi interessa approfondire il discorso legato all’esordire in un lungometraggio dopo varie esperienze video, visto che queste non ti danno la garanzia di essere in grado di girare un film. Un documentario o un cortometraggio hanno una loro struttura precisa, che tuttavia si differenzia da un’opera lunga novanta minuti o più. Tu hai scritto questo film nel momento in cui hai avuto la consapevolezza di riuscire a realizzarlo o sei andato al di là di questo ragionamento?

DS: Credo che questo discorso valga per qualsiasi espressione artistica. Uno fa delle cose per bisogno. Io avevo l’urgenza di fare questo film e non ho potuto farne a meno. Fondamentalmente Arte è una parola grande, ma quando vogliamo comunicare è perché non ne possiamo fare a meno e quindi ci confrontiamo con imprese a volte più grandi di noi, come il realizzare un film. Per me è stata la fine di un lungo percorso iniziato con la regia di documentari, pubblicità e corti, tre capitoli di una serie televisiva, la scuola di cinema e un mucchio di altre esperienze sul set come operatore, direttore della fotografia, fonico, montatore e porta caffè.
Il mio è un film scolastico, nato in una scuola di cinema come saggio di fine corso. Per me è stato importante perché ho avuto la possibilità di mettermi alla prova. Prima di girare una pellicola non hai mai la sicurezza di riuscire a finirla, hai solo la presunzione di poterla finire. Questo comunque capita con ogni progetto personale, perché, realizzato un film, in quello successivo, di cui tra l’altro ho già effettuato le riprese, ti trovi sempre nella stessa situazione. Tra l’altro il lungometraggio che ho appena terminato è molto diverso da Fratelli di sangue, più grande dal punto di vista produttivo e più complesso. Un regista inizia un progetto con la presunzione di avere qualcosa da dire e di avere le capacità per trasmetterlo, in realtà si impara cosa dire facendo il film, lungo il cammino.

TC: A proposito di questo secondo film, di cui hai accennato, come l’hai sviluppato, l’hai sempre scritto tu e girato in Italia?

DS: No, è un film che stiamo producendo e realizzando in due persone. È un’esperienza totalmente diversa da Fratelli di sangue, è una commedia, girata in tre paesi distinti e in dodici città.
Io credo molto nel lavoro con l’attore, e nonostante questo ho usato per il ruolo principale un non professionista. Il film, infatti, racconta la storia di un travestito marocchino che interpreta se stesso. Sono d’accordo con Gifuni, protagonista di Fratelli di sangue, che dice che gli attori non professionisti funzionano in due, tre film e poi al quarto, al quinto perdono la loro particolarità. Un vero attore ha la capacità di diventare qualcun altro e raccontarlo sullo schermo, un non attore può solo essere se stesso. Secondo me quindi si possono usare non professionisti entro quei limiti come ho fatto in questo mio secondo film, di cui comunque sono molto contento e che credo, stilisticamente, sia più o meno quello che voglio fare in futuro.

scena del film

TC: Prima hai citato Gifuni, che è uno dei protagonisti di Fratelli di sangue; quando hai scritto la sceneggiatura esteticamente avevi in mente dei volti o solo delle sensibilità interiori?

DS: Prima di risponderti voglio citarti Barbara Boubolova che è la coprotagonista del film e che spesso mi dimentico di nominare. Io ho scritto questo lungometraggio pensando a Etan Hawke, Uma Thurman e avevo in mente delle facce ben presenti. Durante la preproduzione invece ho avuto la possibilità di scegliere loro, senza dover cercare seconde o terze opzioni. Nel cast avrei voluto per un ruolo femminile anche Sonia Bergamasco, moglie di Gifuni, che però all’epoca delle riprese era incinta.
Il bello di questo mestiere comunque è che ogni passaggio ti permette una trasformazione, scrivi delle cose e poi filmi contro la sceneggiatura, monti contro ciò che hai filmato e poi fai il suono contro le immagini che hai montato. Ogni passaggio è un’evoluzione completamente diversa. Inoltre hai la fortuna di lavorare con degli attori che vanno oltre a quello che gli dici; sono loro in realtà a fare il film, altrimenti sarebbe davvero meglio fare cinema di animazione in 3D. Il cinema grazie a dio è umano e credo che la regia non sia muovere dei pupazzetti animati, ma dare agli attori le condizioni per essere grandi.

TC: A proposito della produzione so che il film è girato in pellicola, era la tua prima esperienza di questo tipo? Pensi che sia un passo fondamentale per un cineasta, come curriculum, esperienza e pratica?

DS: Io ho sempre delle discussioni eterne con i puristi. Ho lavorato in pellicola soprattutto in pubblicità, quasi sempre in 35 mm. Ho girato molto anche in 16 mm e in HD. Per me è solo tecnica; è il come usi la tecnica che è importante. Certo c’è una differenza gigantesca tra digitale e pellicola anche se si sta assottigliando sempre di più.
Secondo me più il cinema diventa democratico meno costerà, soprattutto in distribuzione. Quì a Venezia si è usato quest’anno un proiettore digitale, mentre in Giappone lo usano già da cinque anni e tutti ne parlano come di una cosa avveniristica… io spero che scompaia la proiezione in pellicola perché risparmierebbe dei costi enormi.
Detto questo dico esattamente l’opposto, io ho iniziato a montare in moviola e credo che questa sia una lezione molto utile. Oggi nessuno monterebbe più in moviola, perché è un lavoro molto più lungo rispetto al montaggio digitale, ma il fatto che per effettuare un taglio devi prendere la pellicola, tagliarla, devi mettere lo scotch, rimettere la pellicola nella macchina, far sempre attenzione al sinc, ti fa riflettere di più sul lavoro che fai e quindi prima di fare un taglio ci pensi. Il bello e il brutto dell’Avid e di Final cut è che puoi fare più o meno tutto quello che vuoi e quindi rifletti meno su ciò che fai. Forse la scuola delle pellicola potrebbe essere utile all’inizio, forse il percorso dovrebbe essere l’opposto, bisognerebbe iniziare in pellicola e finire in digitale, perché una volta che hai imparato la disciplina, quella di pensare e poi di fare, credo che il digitale in montaggio sia nettamente superiore. Parlando con una montatrice italiana, la prima ad usare l’Avid in America, mi ha detto che molta gente le chiede se non le manca la sensazione tattile del toccare la pellicola e lei risponde che è come chiedere ad un medico se non gli manca quando amputavano senza anestesia, il lavoro si faceva lo stesso, ma questo piacere purista credo che sia ridicolo.
Chiudo dicendo che l’unica cosa che conta è il film, ciò che la gente vede sullo schermo, come lo hai ottenuto sono fatti tuoi, allo spettatore non gliene deve fregar nulla.

Davide SordellaTC: Su Fratelli di sangue io avevo ancora qualche curiosità. Il fatto che il film sia girato in un solo ambiente, uno scantinato, è legato ad una scelta di sceneggiatura o è stato deciso in un ottica di praticità? Inoltre ti volevo chiedere se il ritorno da Londra del protagonista è stato inserito in prospettiva autobiografica?

DS: Riguardo alla prima parte della domanda sono vere entrambe le tue supposizioni. Mi piaceva l’idea di impormi un limite, con una telecamera e una storia da raccontare avevo solo bisogno di una location. Avere tre persone in una stanza che per un’ora fondamentalmente non fanno altro che parlare è una situazione complessa, ma stimolante da filmare, per mantenere alta l’attenzione dello spettatore ti devi inventare ogni volta qualche cosa. Poi mi piaceva confrontarmi con questo genere, l’hanno fatto un mucchio di registi prima di me, da Hitchcock a Bergman, a Lumet, e io mi sono accodato nel piccolo angolino rimasto vuoto. Nel film successivo, di cui ti ho parlato prima, invece ho fatto tutto l’opposto, non mi volevo specializzare in cinema claustrofobico.
Fratelli di sangue ha un valore personale anche per la storia che racconta, storia che avviene nella testa del protagonista. Io mi sono sempre immaginato la testa come l’inconscio di una persona, qualcosa che sta sotto la pelle, sotto la terra, ed è legata al passato, una cantina quindi mi sembrava il luogo più adatto dove ambientare la storia. È così che immagino la mia testa, non una soffitta aperta verso il cielo, ma una cantina chiusa che sta sotto la superficie, nella quale filtra un po’ di luce, ma che è nettamente oscura e separata dalla realtà.

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