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Omnia

Il Leone sbiadito non ruggisce più

Immagine editoriale Fucine MuteDa che anno esiste questa meravigliosa invenzione del cinematografo? Da quanti anni la pellicola non trema più, è limpida come uno stagno di montagna e racconta le piccole e grandi cose di questo mondo? Da quanto tempo l’universo in tutte le sue forme trova spazio e dimensione nel cinema? Partito alla fine dell’Ottocento, lo sbiadito cinematografo dei fratelli Lumière ha trovato il sonoro negli anni Venti, i colori negli anni Trenta, poi è arrivata la televisione e il cinema ha scoperto nuove sensazioni con gli effetti speciali del digitale. I fantasmi del passato – lenzuola con i buchi e tanto fumo di carbone – oggi rivivono nel lavoro a tavolino dei maghi della DreamWorks. Ci siamo allontanati un abisso dal cinema dei fratelli Lumière, ma poi ci ritroviamo sempre li, vicini quanto basta, quando si spengono le luci e inizia lo spettacolo, come se nulla fosse cambiato da quella sera del 28 dicembre 1895 al Salon Indien del Grand Café di Parigi. Come accade tutti gli anni, da ormai 63 anni, verso la fine di agosto, quando non è né caldo né freddo, al Lido di Venezia si consuma l’innocente evasione della Mostra del Cinema. In questi giorni della Mostra, l’incorreggibile desiderio di confronto con il cinema del passato – quando non esisteva il colore e il sonoro era prodotto da un registratore sincronizzato ad orecchio con la pellicola – penzola sopra le teste dei giovani esordienti cineasti.

Un signore, ormai nel pomeriggio inoltrato della sua vita, ex comunista ed ex attrezzista di Cinecittà, seduto in riva al mare dove il Lido di Venezia diventa spiaggia, ricorda ad un pugno di giovani in cerca di quella nostalgia per un tempo che non hanno vissuto, quando scorrevano gli anni Cinquanta-Sessanta e lui c’era e c’erano anche Roberto Rossellini, Michelangelo Antonioni e Lucchino Visconti, che si portavano a casa il Leone d’Oro sul battello per Piazzale Roma confusi fra la gente.

Sono passati quarantacinque anni dal Leone d’Oro di Alain Resnais con Marienbad, ma è ancora lui a incantare pubblico, critica e giuria aggiudicandosi il Leone d’Argento per la migliore regia di Private Fears in Public Placet. Il vecchioMario Monicelli scava nella sua giovinezza e firma la sua 92° pellicola Le rose del deserto, girata nel deserto africano tra enormi difficoltà tecniche. Il nostro illustre amico ci fa sapere che lui li ha conosciuti tutti i maestri del cinema “Con alcuni ci ho mangiato assieme, che tempi quelli… forse sono passati tanti anni, ma guardali qua Monicelli e Resnais, non sono ancora fuori moda”.

Jia Zhang-Ke

Lasciamo il nostro nuovo amico mentre ancora parla del Lido e degli anni Cinquanta e andiamo a guardarci, per fortuna fuori concorso, la storia nuda e cruda di due poliziotti portuali scampati dalle macerie del World Trade Center. L’intervento a Venezia di John McLoughlin (ancora zoppicante per i postumi dell’attentato alle Twin Towers) e Will Jimeno, in luogo degli inconsistenti Nicolas Cage e Michael Pena, limita le critiche ad una delle più mediocri opere dell’autore di Platoon, dato per disperso da oltre un decennio (Natural Born Killer, 1994). Pochi giorni dopo il Leone d’Oro, quello vero, se lo aggiudica Jia Zhang-Ke con Still Life, una pellicola sponsorizzata dal Sol Levante, presentata a sorpresa solo il 4 settembre, come è ormai tradizione per la Mostra. Il film del fondatore del gruppo cinematografico sperimentale giovanile cinese – la prima organizzazione indipendente del genere in Cina – proiettato per la stampa in zona REM e visionato all’alba del giorno dopo dai giurati, decreta l’abdicazione della Mostra allo Yuan e allo Yen. Questa deriva è condita da piacevoli sorprese, come la produzione internazionale che ha reso possibile La stella che non c’è di Gianni Amelio. Il regista di Il ladro di bambini si presenta in compagnia della giovanissima e splendida protagonista Tai Ling che passa accanto al nostro vecchio saggio. Lei si offre giovanissima e piena di speranza di fronte a questo retaggio dal passato nostalgico e rimpicciolito per l’età. «È bella questa ragazza, eccome se lo è! Come tutte le stellette del cinema. Tutto deve essere bello, affascinante, intrigante nel cinema d’oggi, nel mondo d’oggi». Chi ha mangiato non per abitudine, ma per fame vede più chiaro di quelli che vanno a tartine e champagne. «Ma lo vedete che fanno questi? Pur di non ammettere pubblicamente quello che sappiamo tutti, s’inventano un Leone d’Argento Rivelazione per Nuovomondo di Emanuele Crialese». Il vecchio ha ragione, la sottomissione ormai quasi totale del cinema italiano alle esigenze commerciali della televisione è tutta nel fatto che Crialese sia già al suo terzo lungometraggio: come se Del Piero vincesse la coppa per il miglior giocatore esordiente al Trofeo di Viareggio!

Indiscusso rimane il solo Leone alla carriera che sarà assegnato a David Lynch. Secondo il nostro amico avrebbe fatto cosa saggia se ci avesse risparmiato la fatica di assistere al suo interminabile lungometraggio Inland Empire. David Lynch è un grande, così come è grande il richiamo commerciale di una prima mondiale alla Mostra, ma che dire di una serie di attori, autori e registi italiani dimenticati dalla giuria? Il vecchio saggio la sa lunga e in testa a questo elenco mette Monica Vitti; una delle più grandi interpreti della commedia italiana, gravemente malata, quindi tagliata fuori proprio dalle logiche commerciali che impongono sontuose conferenze stampa, vero Mister Croff und Herr Mueller?

David Lynch

In attesa di Lynch, il pubblico di Venezia, sul quale varrà la pena soffermarsi, osanna uno straripante Spike Lee, che presenta When the Leeves Broke. A requiem in four Acts! un (ennesimo) je t’accuse contro l’amministrazione Bush, colpevole di avere sottovalutato prima il pericolo che incombeva su New Orleans e poi la portata del disastro causato dall’uragano Kathrina. Il nostro amico non capisce questo Lee. «Ma come puoi protestare contro gli Yankees e andare in giro con un berretto dei New York Nets?». Cerchiamo di spiegargli che oggi si protesta così. Lo aveva già scritto Kubrick sull’elmo di Full Metal Jaket, dove accanto a Born to kill c’era il simbolo della pace.

«Comunque troppi premi», commenta l’amico, e ha ragione. Come tutti i Festival del Cinema, anche la Mostra di Venezia ha moltiplicato le celebrazioni nel corso degli anni. La prima edizione degli Academy Awards assegnava soltanto cinque statuette, mentre la memorabile performance degli animatori digitali che, nella pluripremiata trilogia tolkeniana diretta da Peter Jackson, hanno dato vita all’infido Gollum, ha indotto i giurati dell’Accademy ad interrogarsi sulla opportunità di istituire una ulteriore statuetta (la ventesima?) per il miglior personaggio virtuale animato. Tornando a Venezia, su un totale di circa cento film presenti nei vari concorsi, sono stati assegnati quasi cinquanta premi! Se, come dice Gianni Ippoliti, ogni anno al mondo vengono prodotti al massimo cinque o sei film di valore assoluto, raschiare dal passato e pescare pellicole da restaurare, spesso censurate al momento della loro distribuzione, è una buona strategia per non darla vinta al dilagare del mediocre.

Nikita MikhalkovMeritava il prezzo del biglietto la rassegna sulla Storia Segreta del Cinema Russo, seguita da un fedele circolo di nostalgici comunisti in divisa, nascosti tra critici cinematografici italiani e noi, assieme al nostro caro vecchio amico. La Fondazione Prada, istituita da una delle più importanti griffe internazionali del lusso, in collaborazione con l’Agenzia Federale per la Cultura e la Cinematografia e Sovexportfilm di Mosca, ha restaurato diciotto lungometraggi presentati al Festival da Nikita Mikhalkov e Andreij Koncalovskij. Chi ha avuto pazienza, ha potuto gustare l’incredibile Volga-Volga di Grigorij Aleksandrov, già collaboratore di Ejzenstein, con Solomon Mihoels il quale pagò con una condanna al Gulag la sua splendida interpretazione; Cheriomushki di Gerbert Rappaport musicato da Dmitrij Shostakovich; Salvate l’uomo che annega! di Pavel Arsenov, che costò al regista la condanna all’oblio; La combriccola allegra di Grigorij Aleksandrov, trionfatore a Venezia nel 1934.

Infine, come sempre, il via e vai di personaggi poco noti in cerca di pubblicità, mischiati tra una folla impazzita alla ricerca di mezzi busti televisivi da fotografare, attori alle prime (e uniche) armi da toccare, produttori senza il becco di un quattrino, agenti-marpioni dello spettacolo con tanto di tesserino ben in vista all’occhiello, giovani fanciulle dagli occhi pieni di speranze e gambe molli, gentildonne in fase avanzata di maturazione accarezzate da microscopici e trasparenti tailleur color verde pisello, personaggi che il vecchio definisce come tipi da «Quello è famoso, io l’ho già visto da qualche parte» che nulla hanno da dire nonostante quanto si diano da fare, e una miriade di eleganti giornalisti italiani sottopagati, col loro badge off limits lucidato ogni mattina, schiacciati come piccioni al camping del Lido per discutere tutta la notte con i mal vestiti colleghi europei, equipaggiati di cellulare aziendale, portatile mignon e buoni pasto prepagati.

Insomma, chi ci ha guadagnato a questo Festival; per il futuro condannato a rivaleggiare contro la ricca Festa del Cinema di Roma? Forse alcune pellicole italiane troveranno mercato in Asia, oppure qualche pellicola asiatica troverà spazio in Italia? Cosa ne sarà di quella sporca dozzina di lungometraggi che mantengono sopra il livello di guardia il mare di Venezia? Insomma, a cosa serve un Festival del Cinema dove le vere star sono un regista straniero con un mediocre film sponsorizzato meglio della Coca-Cola, una capricciosa attrice di origine scandinava e una italica show girl dalle indiscutibili incapacità recitative? Perché le varie istituzioni sponsor della Mostra non hanno trovato meglio da fare che iniziare a litigare sul futuro delle fatiscenti e inadeguate strutture del Lido proprio in occasione della mostra? Se nemmeno il prode Lisandro si sottraeva alle Panatene, cosa poteva giustificare l’assenza alla Mostra del sindaco eponimo di Venezia? E poi, a cosa serve assegnare il Leone alla carriera ad un grande regista internazionale: ha un senso artistico o è solo speculazione commerciale? Infine, il nostro amico ci chiede di condannare «su quei giornali che non si possono sfogliare, dove scrivete voi giovani» quelli della società di catering che hanno trasformato l’area antistante il Palazzo del Casinò in una discoteca stile Milano Marittima, così come al nostro amico non va giù che il socio di Bill Gates ormeggi il suo panfilo a tre metri da Piazza San Marco. Il vecchio saggio forse non comprende lo scorrere del tempo, ma ha ragione quando si lamenta del fatto che sono stati ridotti gli spazi di discussione con registi, attori e operatori del cinema. «Io a Roma vado al Cinema d’Essai di Silvano Agosti, dove parliamo prima, durante e dopo il film… e dove non ci sono le patatine e la Corazzata Potemkin è un capolavoro e non una cagata pazzesca».

Silvano Agosti con Mario Monicelli

Hai ragione, caro amico, ma la Mostra del Cinema di Venezia rimane una di quelle rare occasioni dove è ancora possibile combattere con un accredito stampa, un invito o un biglietto, contro la tirannide della distribuzione cinematografica: una censura che non riesce ancora ad operare sul momento creativo, ma che confina alla clandestinità innumerevoli opere del presente e del passato. Questo è il lento abbandono al potere assoluto della distribuzione, che impone i suoi ritmi al cinematografo, sconfitto dalla noia strutturale della programmazione televisiva. Noi resistiamo e non ci accontentiamo del downloading a bassa risoluzione; sogniamo ancora sale cinematografiche tappezzate di rossa moquette e seggiolini di legno dove alla fine del primo tempo prima o poi tutti abbiamo fatto l’amore, perché non eravamo divisi da lattine e barattoli di pop-corn e consideriamo la via d’uscita un consiglio e non un’imposizione e andiamo a vedere i film solo quando un amico ce ne ha parlato bene.

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