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Cinema

Kiyoshi Kurosawa

Sakebi

locandina del filmKiyoshi Kurosawa è tra i registi horror nipponici più conosciuti in ambito mondiale. Con l’utilizzo di intriganti, avvolgenti e trascinanti storie, il regista cinquantenne nato a Kobe, ha tradotto tradizionali racconti giapponesi in elementi internazionalmente comprensibili. Con successi quali Kyua (Cure, 1997), Karisuma (Charisma, 1999) e Kairo (Pulse, 2001), egli rappresenta una generazione di artisti nipponici che, senza patteggiare con l’inflazionato gusto occidentale, suggerisce un nuovo, ma molto attuale, modo di suscitare paura. Abbiamo incontrato il regista all’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il suo nuovo film Sakebi (Retribution), è stato presentato Fuori Concorso.
La storia narra le vicissitudini di un meditabondo e solitario investigatore che, confrontato con ambigui massacri di un metodico serial killer, è costretto ad affrontare antiche paure e demoni oramai sepolti, che spesso non scaturiscono dall’immaginazione. Kurosawa ha usato il bravissimo attore, e da tempo vecchio amico, Kôji Yakusho per il detective Yoshinoka. Il suo stile è lineare e piano, l’atmosfera è cruda e tesa, e il percorso verso i climax spigolosi è, come sempre, impeccabile. Kurosawa ha un debole per delle location adattissime e particolari allo stesso tempo, e ancora una volta, dimostra come la semplice grazia di depositi abbandonati, terminali ammuffiti e puzzolenti scarichi possano incidere sull’atmosfera angosciante che il regista vuole creare. Nella seguente intervista, il regista parla di tradizionali elementi dell’horror giapponese, dell’insistente proliferazione di remake americani e delle sue ispirazioni artistiche.

Martina Palaskov Begov (MPB): In questo film lei sembra avere un approccio molto più personale, non soltanto verso il tema, ma anche nei confronti dei personaggi, nel modo in cui si relazionano alle situazioni. Come ha lavorato i dettagli della narrazione e del film durante la fase della pre-produzione? Come ha lavorato con gli attori?

Kiyoshi Kurosawa (KK): Non ho usato tecniche o metodi particolari. Si tratta di un film di genere, un film dell’orrore, con un fantasma, ma il fantasma non è un entità mostruosa o extraterrestre. Ho scelto una bellissima attrice e il personaggio che lei interpreta è, o meglio, è stato, vivo. Ma il punto del fantasma nella storia non è di spaventare i viventi. Ho parlato con l’attrice (Riona Hazuki) a proposito delle intenzioni. Volevo esplorare la densa e complicata relazione tra il fantasma, i morti quindi, e i viventi. Ho provato a mantenere questa mia intenzione costante per tutta la durata del film. Non posso dire di aver usato tecniche in particolare. Chiaramente ogni attore ha una sua personalità e la propria individualità. Abbiamo parlato della storia, dell’intreccio e dei personaggi e gli attori hanno contribuito molto allo sviluppo delle espressioni umane dei personaggi e ai diversi modi di rapportarsi a loro. Volevo che una cosa in particolare fosse chiara: il realismo del fantasma. La sensazione che il fantasma fosse stato una persona viva era molto importante per me e ci ho lavorato duramente.

Ichise Taka, Kiyoshi Kurosawa e Riona Hazuki

MPB: Ci racconti della sceneggiatura e di quanto fedelmente ha seguito le indicazioni del testo.

KK: La sceneggiatura c’era e abbiamo cercato di seguirla abbastanza fedelmente, soprattutto per la principale fotografia del film. Tuttavia, una volta sul set, l’atmosfera, la sensibilità dell’attrice, il fatto di girare presso una location non ricostruita in studio, i cambiamenti meteorologici, le luci, sono tutti elementi che si prestano alla soluzione inaspettata e a volte il risultato è completamente diverso. Ho spesso la sensazione di girare un documentario quando sono sul set, proprio perché questi elementi sono complici e influenzano la mia creazione. Anche la reazione spontanea degli attori mi fa spesso cambiare idea. Parlo in senso positivo, a volte gli attori mi lasciano a bocca aperta: si inventano parole ed espressioni  che non sono state scritte nella sceneggiatura. Non lo fanno consciamente, succede così, e spesso non posso e non voglio controllarli. Penso sia questa la sostanziale differenza tra il lavoro che un regista fa per un film, con attori veri, rispetto al lavoro che sta dietro l’animazione.

Kôji Yakusho

MPB: Parliamo di Kôji Yakusho, un attore molto talentuoso che lei ha usato in tanti film. Pensa a lui come a un suo alter ego?

KK: Dico sempre questo di Kôji Yakusho. Amo molto lavorare con lui, andiamo molto d’accordo. Inoltre, per coincidenza, abbiamo la stessa età, e condividiamo un sacco di interessi, e il nostro umore spesso combacia. I nostri valori sono molto simili. È una persona con cui è molto semplice lavorare, ci intendiamo alla perfezione, senza parlare troppo. Ho fatto film di tutti i tipi con lui e devo riconoscere che, di tanto in tanto, mi identifico con i personaggi dei miei film, in questi casi, solitamente, il personaggio ha una doppia personalità. Alcuni dei miei personaggi sono ossessionati dal modo di vivere contemporaneo, coltivando un senso di incertezza, un timore nel vivere la propria vita. Questo sono decisamente io. E quando il protagonista si carica di queste sfaccettature (non si tratta di tutti i miei film), allora tendo a voler utilizzare Yakusho, perché capisce bene quello che voglio fare con il personaggio. È mia intenzione sottolineare l’esistenza di queste tipologie psicologiche e con lui l’operazione è semplice. Lui ha la straordinaria capacità di interpretare molto bene la sensazione di essere sperduti, che io, come regista, faccio fatica spesso ad esprimere in parole o angoli di ripresa. Inoltre, poiché mi appoggio alla sua esperienza di attore, è interessante notare come il personaggio invecchi come invecchia Yakusho. Non sono sicuro che questo connubio possa funzionare ancora per molto. Spero di poter lavorare con lui il maggior tempo possibile perché non ho intenzione di recitare nei miei film. Quindi, si è vero, quando Yakusho recita nei miei film, lui e il personaggio rappresentano parte di quello che sono e di quello che voglio esprimere.

scena del film

MPB: Parliamo del genere: il film dell’orrore. Nonostante i film giapponesi e le fenomenologie di genere facciano parte della storia e della tradizione giapponese, c’è stato, negli anni Cinquanta, un particolare interesse nello sviluppo del genere e delle narrazioni di genere (kaidans, “storie di strane cose”). Quanto hanno influenzato il suo lavoro questi classici del cinema giapponese? E come posiziona la sua opinione rispetto al proliferarsi di remake americani: fra questi anche il remake del suo classico e bellissimo Kairo (Pulse, 2001)? Crede che la realtà molto specifica del cinema giapponese — soprattutto di genere — possa perdersi nei remake statunitensi?

KK: Storie tradizionali di fantasmi sono state molto popolari ancora prima che la cinematografia nazione si sviluppasse. Negli anni Cinquanta c’è stato un grosso boom e anche il film di genere si è sviluppato con delle caratteristiche molto specifiche. Io ero troppo giovane, e non ho avuto la possibilità di vedere tutti i film dell’epoca sul grande schermo, ma ammetto che i film usciti prima degli anni Sessanta, anche quelli italiani, mi hanno influenzato molto. Tra i registi cito: Mario Bava, Terrene Fisher e le produzioni Hammer, dalla Francia il film di Franju, Gli Occhi senza volto e anche un sacco di registi dagli Stati Uniti, come Roger Corman…

scena del film

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