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Omnia

Viaggio nel mondo dei Tuareg

Uomini blu, uomini liberi, uomini abbandonati da Dio. Tanti nomi per indicare un unico popolo: i Tuareg.

tuareg nel deserto

Poco conosciuti, ma molto fantasticati, i Tuareg nascono in un mondo distante dal nostro, dove le dimore sono distese di sabbia ed i tetti infiniti cieli stellati.
Padroni incontrastati della zona sahariana, questo popolo di origine berbera ha trasformato la desolata distesa che si estende tra Libia, Algeria, Mali, Niger, Burkina Faso, Nigeria e Ciad nell’alcova di una cultura affascinante che si è mantenuta praticamente intatta nei secoli.
Nati liberi, vissuti nomadi, hanno imparato ad orientarsi tra le monotone lande del deserto con l’aiuto delle stelle, vivendo di pastorizia e del commercio di sale, spezie e avorio. Il silenzio ha insegnato loro ad “ascoltare il canto dello spazio ”,a far tacere i mormorii dell’anima e a sentire gli spiriti dell’acqua e del vento. L’isolamento ha permesso alle donne di ritagliarsi un proprio spazio nella società e nel matrimonio, facendo emergere sprazzi di modernità in un mondo antico.
A partire dal Settecento inizia la lunga battaglia contro gli arabi e i Tuareg finiscono per convertirsi all’Islam, interpretando tuttavia a modo loro la dottrina di Maometto e conservando alcune tradizioni animiste. Riescono a mantenere integra la loro identità, la loro lingua e il loro alfabeto, il Tifinagh, costituito da forme geometriche scritte in orizzontale, verticale, da destra a sinistra, dall’alto in basso, ribadendo ancora una volta la creatività e la libertà di questo popolo.
Allo scoccare del XX secolo anche la storia dei Tuareg però cambia. Con la colonizzazione francese dell’inizio del secolo, gli uomini del deserto vedono limitato il loro spazio; con la decolonizzazione degli anni Sessanta vedono imposta la frontiera. Sono obbligati ad imparare il significato di parole fino ad allora sconosciute, come sedentarietà ed emarginazione.
Inutili sono le ribellioni degli anni Novanta in Niger e Mali, soffocate nel sangue. È necessario adattarsi alla nuova situazione, ma è difficile in luoghi dove l’acqua scarseggia e lo sfruttamento incalza. Si vive di espedienti, di piccoli lavori saltuari; oppure si emigra, con la speranza di trovare altrove almeno parte di quello che si è perduto.

donna TuaregArriva così a Pordenone una piccola comunità Tuareg, unica in Italia, formata da donne, uomini e fantastici bambini, che portano avanti il pensiero di Mano Dayak[1], prefiggendosi di far conoscere al mondo la cultura e le condizioni del loro popolo. Non in maniera ortodossa, ma con l’apertura di chi vede ricchezza nella mescolanza di esperienze diverse.
Capita allora di poter condividere con loro il rito del the, infuso zuccherato di foglie di menta, aspro e dolcissimo, del quale per tradizione devono essere bevuti tre bicchieri, uno dopo l’altro, perché: “Il primo bicchiere è aspro come la vita, il secondo è dolce come l’amore, il terzo è soave come la morte ”. Oppure di ascoltare le poesie recitate, o meglio cantate, nella loro lingua, il Tamasheq, che invadono di mistero e nostalgia lo spazio. O ancora di ammirare gli abiti tradizionali, tra i quali spicca il taggelmust, il lungo turbante color indaco che ricopre di tonalità bluastre il viso degli uomini che lo portano (per questo si parla di “uomini blu”).
Ci si ritrova così parte di una tribù pensata lontana, immersi in una dimensione quasi utopica che appaga tutti i nostri sensi. Entra in noi la voglia di deserto.
Improvvisamente però la voce della concretezza ci catapulta in una realtà dove, accanto alla magia dell’esotico, troviamo il tormento di un popolo che deve scontrarsi giornalmente con il problema della siccità e per il quale la ricerca dell’acqua è incessante; e a volte deprimente. Nel deserto si scava a volte fino a 50 metri di profondità, ma spesso accade che non ci siano i finanziamenti per costruire un pozzo [2] e quindi quel tesoro inestimabile scompare ingoiato dalla sabbia.
L’acqua è vita. Ma sembrerebbe che le vite del deserto siano di secondo ordine, dato che i soldi non arrivano. Questo popolo rischia di sparire per sempre e con lui la sua cultura e le sue tradizioni, ma il silenzio del mondo sta rendendo questo dramma invisibile.
I Tuareg di Pordenone, assieme all’Associazione Via Montereale, hanno deciso allora di lottare.
Lottare per l’acqua, affinché diventi un diritto anche per i propri fratelli rimasti nel deserto. Perché l’acqua è donata da Dio e tutti devono poterne usufruire.
Croce di AgadezLottare per consentire ai propri bambini, a tutti i bambini Tuareg, di andare a scuola ed imparare così ad usare quegli strumenti che serviranno loro per scoprire le proprie radici. Solo in questo modo, quando la tradizione imporrà al padre di regalare al figlio la Croce [3], simbolo dei “quattro angoli del mondo perché non sappiamo dove moriremo ”, egli potrà sentirsi tranquillo, suo figlio sarà forte, perché avrà sempre accanto se stesso.

Riflessioni nate dall’incontro con il mondo Tuareg:
Filosofia blu

Ammaliati da promesse di catarsi, iniziamo il nostro viaggio cercando in posti lontani nuovi occhi con cui vedere. Ma ci scorrono davanti solo immagini orfane di contenuti e di una stazione in cui fermarsi.
Incapaci di digerirle, sentiamo scendere sul nostro corpo il freddo in gocce. Ad un certo punto il rigetto, poi il vuoto. Alla ricerca disperata di nuovo cibo, il nostro esilio continua, attraversando senza vedere, cercando e trovando solo l’infinita ripetizione di noi stessi. Non c’è vuoto per lo spazio “Altro”.
Ma abbiamo mai salpato da Iolco? Ecco la domanda.
Restiamo con il passo sospeso sulla frontiera. Il vento spaventa: se ti affidi all’aquilone, sarà difficile non perdersi.
Invisibili draghi difendono il territorio che ti trova prigioniero. Speri di dissolverli nel sole; invano. Il terreno si fa arido, si popola di voci e gli echi delle voci ti ruotano attorno, creando un labirinto di specchi.
Smarrito, rimani in ascolto del vento. Diventa blu. Si converte in un sussurro: “Uomo, bisogna saper tacere per ascoltare il canto dello spazio ”.
Il verbo vacilla e si spegne.
Solo gli uomini che non temono il silenzio addormentano i draghi.

ragazzo tuareg

Solo gli uomini che non conoscono il silenzio cercano confini. Per loro Dio è lì, ma dal cielo i confini non esistono.
Immobili, finalmente aggrappati all’aquilone, lasciamo decidere al vento il punto cardinale.
Rispuntano tutte le parole. Nasce la poesia. Le immagini trovano il loro tempo e il loro spazio. Atena soffia sulla fiamma che mescola l’acqua al mondo: nasce il thé forte del deserto e il rito trova la sua verità: “il primo bicchiere è aspro come la vita, il secondo è dolce come l’amore, il terzo è soave come la morte ”.
Con il gioco degli incastri e delle dissolvenze, il bimbo prende sopravvento sull’uomo creando l’Uomo, realtà che assomiglia solo a se stessa.
Sparisce la paura delle risposte corrette dal tempo. “Chi dorme per terra non ha paura di cadere dal letto ”.
Inizia il vero Viaggio. Con occhi nostri.

Note
[1] Mano Dayak (1950-1995) è stato il più grande interprete moderno del popolo Tuareg. Dopo essersi laureato in Scienze Politiche presso la Sorbona di Parigi, tornò ad Agadez dove aprì un’agenzia di viaggi con l’obiettivo di stimolare la conoscenza dei Tuareg. Fece studi approfonditi sulla loro cultura, dando vita ad una ricca biblioteca personale. Coordinò le riprese di Il thé nel deserto di Bernardo Bertolucci (1990), che fu il primo film ad addentrarsi in questo mondo. Fu uno dei capi negoziatori durante la rivolta in Niger degli anni ’Novanta, riuscendo a far riconoscere il movimento dal governo. Morì in un incidente aereo mentre era diretto a Niamey per delle trattative di pace.
[2] Il costo della costruzione di un pozzo si aggira sui 3.000 Euro.
[3] La Croce è il gioiello simbolo del popolo Tuareg; ne esistono una ventina, ma la più conosciuta è quella di Agadez.


A questa lotta tutti possono partecipare; basta mettersi in contatto con:
ASSOCIAZIONE “VIA MONTEREALE”
www.viamontereale.it
e-mail: viam.cultdivers@tin.it
tel. 0434/363255

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