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Cinema

Luis Enríquez Bacalov

Il lavoro è la nostra vita

Luis Enríquez BacalovAll’incontro, organizzato nell’ambito della rassegna del Trieste Film Festival dedicata a Franco Giraldi, sono intervenuti molti ospiti per rendere omaggio al regista triestino. Tra questi, il musicista e compositore argentino Luis Enríquez Bacalov, suo affezionato collaboratore. Da moltissimi anni Bacalov vive e lavora in Italia e, nel mondo del cinema, è considerato un professionista ormai più che affermato. Una carriera di successo la sua, ricca di collaborazioni con mostri sacri del cinema come Fellini e Pasolini, coronata nel 1995 da uno dei maggiori riconoscimenti internazionali: l’Oscar, vinto grazie alle struggenti musiche originali composte per la colonna sonora del film Il postino, indimenticabile testamento cinematografico di Massimo Troisi.
Subito dopo l’incontro, vista la cortese disponibilità di questo distinto musicista di mondo, abbiamo colto l’occasione per scambiare quattro chiacchiere con lui.

Cristina Favento (CF): Come ha iniziato a scrivere musica per il cinema?

Luis Enríquez Bacalov (LEB): Ho iniziato forzando la mano a Damiano Damiani. In quell’epoca lì, parlo degli anni Sessanta, per guadagnarmi la vita lavoravo come arrangiatore di musica leggera e scrivevo anche delle canzoni all’interno di una casa discografica a Roma che era abbastanza importante: la RCA (ormai io la chiamo ex-RCA perché è passata di mano parecchi anni fa).
Damiano Damiani stava preparando il film La noia, tratto dal romanzo di Moravia, e aveva bisogno di una canzone. Il responsabile delle colonne sonore all’interno di RCA, Enrico De Melis, mi chiamò e mi disse: “Senti, loro hanno bisogno di una canzone e a noi ci farebbe piacere che tu ce ne scrivessi una ad hoc, in modo che dopo la facciano veicolare anche al di fuori del film”. Io presi la palla al balzo perché, venendo da degli studi musicali di un certo tipo, pensavo di esser capace a scrivere tutte le musiche del film.
Ne parlai con Damiani. Quando chiesi il primo incontro lui si aspettava di sentire una sola canzone, invece, mi presentai dicendo: “Perché non mi mette alla prova? Lei mi chiede di fare una canzone, ma io credo si essere in grado di scrivere interamente la musica di questo film”. Volle sapere cosa avevo studiato, qual era il mio percorso, eccetera e mi chiese un po’ di tempo per pensarci su. Dopo tre giorni mi chiamò e disse: “Facciamo questa cosa a questa condizione: lei mi fa sentire le musiche che le frullano per la testa per il film e, se mi vanno bene, andiamo avanti, sennò pazienza”. Sulla base di questo accordo non verbale, io scrissi dei temi, delle musiche e le feci sentire a Damiani che le accettò ben volentieri. Dopo abbiamo lavorato assieme per altri due film.
Lì cominciò dunque il mio percorso all’interno del mondo del cinema. Sono stato anche fortunato per due ragioni. Primo perché, in quel momento, i film italiani erano molto richiesti, sia all’interno dell’Italia, sia per essere esportati. Era un grande cinema, molto amato anche al di fuori delle frontiere italiane, di grande successo, anche commerciale. La seconda ragione è che La noia fece un notevole successo di pubblico e, di colpo, nell’ambiente si erano chiesti chi avesse scritto le musiche. “Si chiama Bacalov…” si diceva “un argentino che vive qui da qualche anno…”. Così cominciai a lavorare nel cinema.

Luis Enríquez Bacalov

CF: Qual è il suo metodo di lavoro? In genere come si ispira per creare le musiche di un film?

LEB: Ci sono state varie fasi della mia vita, una delle costanti è che io voglio la corresponsabilità del regista. Ci si vede, si parla, si discute e, se non si è d’accordo, io me ne vo’. Se, invece, c’è un dialogo costruttivo, allora vedo il film. In genere non lavoro sulla sceneggiatura, ma direttamente sul film, perché è un’altra cosa. Vedere la pellicola è qualcosa di totalmente diverso, anche se si rispetta la sceneggiatura, la suggestione della fotografia, degli attori, vengono dopo.
Ci si vede in moviola quando c’è una prima copia già montata, che solitamente sarà oggetto di ulteriori manipolazioni: taglia di qua metti di là, taglia questo blocco, eccetera.. In generale, però, la struttura del film già c’è e allora si può discutere, si parla dello stile. Io faccio sempre una domanda: “Che ti aspetti te dalla musica? A che ti serve questa musica?”; spesso sono anche provocatorio: ”Sai che ci sono dei film dove la musica non serve a niente…”. Alcuni qualche volta rimangono interdetti, se non mi conoscono possono pure pensare che io sia uno da lasciar perdere subito. Se, invece, non si spaventano (e in generale mi è capitato poche volte che si spaventino) si comincia a lavorare.
Se c’è un bisogno di musiche preesistenti perché c’è una scena da ballo, un cantante, eccetera, bisogna scriverle e farle prima, in modo che il regista possa girarle. È il caso de La frontiera (Film di Giraldi proiettato il giorno prima al Trieste Film Festival, ndr), dove per esempio ci sono delle ragazze che stanno suonando, altri che suonano un pianoforte. Quando c’è il ballo, la canzone oppure i musicisti che si vedono suonare, le musiche vanno elaborate prima, per poterle girare, o perlomeno scelte, se sono musiche preesistenti.
Segue un periodo di riflessione e di lavoro tematico delle idee. Mi vedo con il regista (non uso la parola “convocare” perché non mi piace! mi sembra un po’ da poliziotti o da giudice “venne convocato”), ne parliamo, gli faccio sentire le mie idee e ci sono eventualmente altri momenti di ripensamento su certe cose. Poi, quando tutto è chiaro, tra il regista e me, io comincio a lavorare puntualmente sul film, su ogni scena, per vedere quanto va variata un’idea, quanto va colorata in un altro modo. Valuto anche in funzione di un dialogo, un paesaggio, un movimento di camera, eccetera.
Infine ci sono la scrittura vera e propria per orchestra che, in genere, c’è, piccola o grande che sia; l’orchestrazione; la registrazione delle musiche e il montaggio delle musiche. Io, se posso, assisto sempre anche al missaggio. Molte volte, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, per il missatore era più importante il rumore di una tazzina di caffè rispetto alla musica! Allora andavo lì a bastonare questi trogloditi e a difendere il mio lavoro. In genere succedeva con l’accettazione del regista che, ogni tanto (e qui faccio autocritica), poteva anche ricordarmi che non c’è solo la musica nel film, ci sono pure la storia, i dialoghi, etc… Io, in questi casi, gli do ragione e mi ritiro in buon’ordine. Questo a grandi linee è il lavoro.

Franco Giraldi

CF: Lei è stato invitato al Trieste Film Festival anche per rendere omaggio a un regista col quale ha collaborato in molte occasioni, una collaborazione che dura da tanti anni. Qual è il suo rapporto con un conoscitore come Franco Girali, che potremmo definire un esperto musicale e che spesso le ha posto alcune richieste specifiche?

LEB: È un bellissimo rapporto, altrimenti non si giustificherebbe il fatto che ho lavorato con Franco per più di trent’anni. Credo che siano circa 15 i film fatti assieme: alcuni anche per la televisione, altri che nascevano direttamente per il grande schermo. È stato un rapporto sempre molto cordiale, corretto e, oltretutto, siamo diventati amici, Franco è un amico fraterno. C’è grande rispetto reciproco, grande confidenza, grande gioco, grande divertimento.
Per me segue anche la fatica di scrivere, questo è vero. Per lui è un gioco la musica, io non posso dire altrettanto! Spesso dice: “Ah! Ho faticato tanto”, io rispondo: “E che ti credi, che io non ho faticato a scrivere la musica del film?” e lui si mette a ridere, perché per Franco la musica è un momento di grande gioia.
Ho sempre rispettato un aspetto particolare del suo lavoro come regista: il suo amore e la sua necessità di esprimere anche i propri gusti musicali all’interno di certe scene. Ci mette sempre specialmente la musica che lui ama di più, quella mitteleuropea, la musica che io definisco “di impronta germanica”.
Io sono più ecumenico, vengo da Buenos Aires. Amo molto quelle musiche, ma a volta succede pure che non le ami affatto. A misura che passa il tempo, talvolta ci vedo dietro tutta una forma semantica… Dietro ci vedo Nietzsche, la volontà di potenza, il culto dell’eroe, qualcosa che dopo va a finire, purtroppo, nel secolo ventesimo, nella catastrofe culturale del nazismo e del fascismo, una catastrofe non solo culturale, ma tout court. A volte provo amore, qualche volta turbamento, qualche volta vero e proprio odio per certi aspetti di quella musica.
Mi sono ben guardato dal parlarne fino a poco tempo fa, perché sarei stato, e forse continuerei ad esserlo, lo zimbello dei critici musicali: “Ma come si permette questo musichetto di terz’ordine di parlare in questi termini della grande musica?”. Io, invece, me lo permetto perché so di che sto parlando, posso motivare le mie affermazioni, anche tecnicamente.
Dunque in me c’è questa ambivalenza, per lui invece tutto questo è pura gioia. In quasi tutti i film, dove ho lavorato con Franco, c’è un momento nel quale i suoi amori musicali sono presenti: Il flauto magico (che io adoro oltretutto, Mozart è un’altra storia rispetto a quello che stavo dicendo) in Cuori Solitari; nella Rosa Rossa c’è Mahler; persino in un wester c’è una citazione di una sinfonia di Mahler. C’è tutto un mondo con il quale abbiamo fatto i conti, sempre gioiosamente. Mahler è il tipico esempio di quel che stavo dicendo sull’ambiguità e l’ironia all’interno di un certo tipo di mondo. Mahler viene dopo la critica totale a quel mondo, con il nazionalismo e Schönberg, e i suoi successori o allievi che, coscientemente o meno, hanno fatto i conti con l’ego, con la glorificazione di una nazione, col nazionalismo.
In ogni caso ho sempre accettato di buon grado le intrusioni di Mozart e di Mahler nelle musiche per i film di Franco, lui è molto acuto anche nelle sue scelte.

locandina del film Il PostinoCF: Lei ha lavorato con dei grandi maestri del cinema e poi è approdato all’Oscar con le musiche scritte per il film Il postino. Come ha vissuto quest’esperienza?

LEB: Io non ho mai mitizzato l’Oscar. Mi ha fatto molto piacere la nomina, perché è un riconoscimento da parte di un musicista a un musicista. Che trecento musicisti votino per te o, quanto meno, ti nominino come uno tra i cinque candidati di quell’anno è una grossa gratificazione. L’Oscar lo è meno, dal punto di vista narcisistico, perché sono seimila le persone che votano (il truccatore, gli effetti speciali, il montatore) e, molte volte, questa gente di musica ne capisce poco. Per questo l’Oscar è, fondamentalmente, circoscritto ai film di successo. Detto questo, certo è stato un momento di grosso cambiamento per la mia vita. Dopo quel momento, per gli altri, io ero un altro. Dunque ho avuto tante porte che si sono aperte, tante richieste.
Avevo previsto, negli anni Novanta, di avviarmi lentamente a una tranquilla terza età… Non è successo. Ne sono felice o ne sono dispiaciuto? Tutte e due le cose. L’Oscar mi ha portato grosse gratificazioni e molte grane, molte scocciature, molte storie sgradevoli. Una in particolare, della quale non voglio parlare, legata purtroppo al successo e ai quattrini.
Certo negarne i vantaggi sarebbe idiota, però lo sarebbe anche negare gli aspetti negativi e contradditori, che forse ci sono in tutte le cose nella vita. Penso che ci sia sempre il lato oscuro, ma nell’oscurità c’è anche il lato luminoso, e viceversa.
Vorrei aggiungere una cosa riguardo la fatica. I premi si vincono dopo, prima devi dimostrare che non è un caso, il riconoscimento non è frutto del lavoro di un giorno. Inoltre, una volta ottenuto il premio, devi dare il meglio di te, che significa più fatica: non puoi prendere sottogamba più niente, perché te la devi meritare quella statuetta che costa trecentomila lire! La gente crede che sia d’oro, ma non è vero…

CF: Che cosa pensa del cinema italiano contemporaneo? C’è qualche autore, italiano e non, con cui le farebbe piacere lavorare?

LEB: Penso che, dopo un periodo di buio, il cinema italiano stia risorgendo su altre storie, con un’altra connotazione e questo mi fa un enorme piacere. Io dal cinema italiano però non mi aspetto più niente, in realtà non mi aspetto più niente dal cinema in generale. Nel 2006 non ho lavorato per il cinema, faccio tante altre cose e mi sorprendo quando, come per esempio quest’anno, mi ritrovo pieno di progetti.
Mi chiedo perché un vecchio leone come il sottoscritto deve ancora lavorare per il cinema quando ci sono tanti giovani. Alcuni di loro li conosco, d’estate vengono con me a fare dei laboratori all’Accademia Artigiana, dove insegno musica applicata per il cinema. Vedo che ci sono un sacco di ragazzi pieni di talento e che devo dire? Che, nonostante ciò, mi dispiace lavorare? No, però qualche volta mi mette in imbarazzo.
Quest’anno sarò impegnato in almeno quattro produzioni, che non sono poche, qualcuna anche molto importante. Ad esempio la prossima settimana parto per Praga, per un colossal sulla vita di Caravaggio. Tra l’altro ne ho parlato con un vecchio collega e amico, Ennio Morricone, e gli ho espresso le mie perplessità, ero dubbioso a ricominciare tutto daccapo un’altra volta. Lui m’ha risposto: “Un’altra volta c’è stata sempre, che ti lamenti? Non fare il signorotto aristocratico che non sei! Lavora perché il lavoro è la nostra vita”. Forse ha ragione.

Luis Enríquez Bacalov

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