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Cinema

Kujtim Çashku

Magic Eye – l’occhio interiore del cinema albanese

Kujtim ÇashkuIl premio CEI è stato assegnato, nell’ambito del Trieste Film Festival 2007, all’albanese Kujtim Çashku, personalità di spicco della cinematografia più giovane ed emarginata d’Europa. Il regista, da anni impegnato al fine di rompere l’isolamento culturale che ancora grava sulla cinematografia albanese, è il fondatore e direttore della nuova scuola di cinema nonché del Festival Internazionale dei Diritti Umani di Tirana.
Al di là di qualsiasi giudizio artistico, il premio intende soprattutto essere un riconoscimento per la costanza e la tenacia di Çashku, un uomo che ha fatto tanto, che ha creduto in quello che faceva, che ha avuto la forza di esporsi in prima persona per esprimere le proprie opinioni e lanciare un segnale positivo alle giovani generazioni.
Dopo una prima esperienza a Trieste nel 1994, quando presentò Kolonel Bunker, quest’anno il regista è tornato in concorso con il lungometraggio Magic Eye, ambientato nel 1997 in un’Albania che stava vivendo un disastroso crollo economico. La profonda crisi politica e civile che ne deriva si riflette nella confusione sociale e psicologica che investe i protagonisti del film. L’elemento drammaturgico scatenante è un tragico episodio, avvenuto nella cittadina di Gjirokaster, che incrocia i destini dei diversi personaggi. Mossi da motivazioni divergenti, inizieranno ciascuno il proprio viaggio sino a raggiungere, affrontando differenti percorsi fisici e introspettivi, una catartica consapevolezza collettiva.

Cristina Favento (CF): Come sei diventato regista?

Kujtim Çashku (KÇ): Non saprei dire quale sia stato il vero punto di partenza, non c’è stato un momento preciso. Le origini del mio mestiere sono rintracciabili sin dall’infanzia, sono parte di un processo che, in modi diversi, credo coinvolga chiunque s’innamori del cinema. Non so tracciare un percorso preciso, si tratta piuttosto di un meccanismo interiore. Neppure ora sono in grado di capire con esattezza quando ho iniziato a pensare al cinema e ad amarlo.

CF: Hai fondato a Tirana la prima scuola di cinema nel tuo paese. Immagino che, per te, ai tuoi esordi, non sia stato facile avere dei punti di riferimento precisi, hai fatto tutto da solo…

KÇ: Ho iniziato all’Accademia d’Arte a Tirana e poi ho proseguito gli studi all’istituto Untac Caragiale di Bucarest, proprio la scuola di cinema che è ospitata quest’anno dal Trieste Film Festival (nella rassegna “Scuole di cinema” che ad ogni edizione propone i lavori degli allievi delle scuole più interessanti di tutta Europa, ndr), infine ho studiato alla Columbia University di New York.
Il mio percorso educativo è stato dunque un lungo viaggio e, sommato poi alle mie personali esperienze sul campo, mi ha portato a preoccuparmi anche per gli altri.
Nella vita è meraviglioso poter condividere e assaporare la vera gioia. Attraverso i lavori dei miei studenti sto vivendo delle emozioni che non avevo mai provato prima, neppure per i miei film! Provo una bellissima sensazione quando fanno un buon film, potrei definirla davvero una “goccia di felicità”; quando invece il loro non è un buon lavoro, soffro molto più di quanto abbia sofferto per me stesso. Credo che arrivati ad una certa età si esca da una dimensione personale per scoprire il piacere della condivisione, dello scambio con l’altro. Questo è ciò che veramente mi realizza nel rapporto che ho con la scuola e i miei studenti.

locandina del film Kolonel BunkerCF: Lei ha avuto delle pessime esperienze con la censura, qual è la sua opinione a riguardo? Che cosa pensa di queste sue esperienze passate e com’è, invece, la situazione attuale?

KÇ: Oggi, potrei dire che il vero tiranno della mia vita è sicuramente il tempo, che passa implacabile ed è una sorta di dittatore delle nostre energie. Ogni secondo ci sfugge così velocemente che non so più come organizzarmi…
Parlando invece della vera dittatura, sotto la quale ho portato avanti parte della mia carriera, e del periodo successivo, dell’Albania di oggi che io definisco società post totalitaria, ciò che penso è piuttosto cinico. Non credo che appartenere a queste due epoche fosse il mio destino, ciò nonostante mi ha giovato.
Non penso che a tutti possa fare bene vivere una simile esperienza, capire davvero che cosa significa dittatura e post dittatura, eppure, per quanto mi riguarda, mi considero un uomo ricco per averla vissuta. Penso che il nostro paese abbia attraversato una situazione politica senza uguali in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Intendo unica per l’isolamento totale dal resto del mondo, la nascita di una “mentalità bunker” è stata il riflesso di quest’isolamento.
Ho fatto un film intitolato Kolonel Bunker, che è stato presentato al Trieste Film Festival tre anni fa, proprio per spiegare che cosa intendo. La mentalità bunker è un auto-isolamento, è la tendenza a proiettare il dittatore, il male, all’esterno rispetto a noi stessi. In questo modo si crea un meccanismo masochistico che ci fa provare piacere per le nostre sofferenze e si trasforma in uno strano strumento di autocensura.
Ora che la situazione politica è cambiata, la maggior parte delle persone riconoscono e rifiutano forme di censura imposte dall’esterno, ma non si accorgono di quanto invece sia ancora presente l’autocensura. È una mentalità sedimentata e radicata profondamente che deve essere sconfitta passo dopo passo, riuscire a rendersene conto e a liberarsene richiede molti sforzi.
Negli ultimi anni si è palesata anche una nuova forma di censura, tipica della nostra società occidentale: la censura del denaro. Ci sono moltissimi artisti di talento che non hanno la possibilità di esprimersi per mancanza di mezzi. Se ci azzardassimo però a fare un paragone tra censura economica e ideologica, non sarebbe difficile capire quanto più grave possa essere la seconda, che uccide la libertà di espressione, ti priva del diritto di manifestare anche ciò che potrebbe essere espresso nella maniera più semplice.
Per abbattere le difficoltà finanziarie fortunatamente oggi ci sono sempre più strumenti e mezzi a disposizione, si può fare qualcosa di grande valore anche senza avere grossi capitali a disposizione. Io, ad esempio, sono riuscito a realizzare Magic Eye con un budget molto modesto. Nell’era della rivoluzione digitale, le nuove generazioni hanno addirittura la possibilità di girare un film con una piccola videocamera, come quella che state usando voi ora.

Kujtim ÇashkuCF: Affermavi che, nonostante l’esperienza che hai affrontato nel tuo paese, ti senti ricco e, nel corso della conferenza stampa, hai anche affermato che un artista può considerarsi fortunato a vivere in un periodo di crisi: “È un pensiero cinico” hai detto “ma è utile”.

KÇ: Nel momento stesso in cui affermo che mi sento ricco sono molto cinico. Ovviamente mi riferisco al fatto che le mie esperienze mi abbiano arricchito ed abbiano affinato il mio modo di pensare, di vedere il mondo. Ad esempio, non ho certo bisogno di comprendere il pensiero di Orwell attraverso i suoi libri, 1884 piuttosto che La fattoria degli animali, perché io stesso sono stato parte dell’atmosfera e dei luoghi orwelliani. È l’esperienza diretta a insegnare.
Non ho sofferto come alcuni amici che sono stati giustiziati o hanno trascorso la vita intera in prigione ma, in ogni caso, ho l’obbligo di usare la mia esperienza e di raccontarla agli altri. C’è il caso emblematico di un prete che, dopo aver trascorso vent’anni in prigione, ha scritto un libro che s’intitola Vivere per raccontare. Il nostro raccontare, scrivere, realizzare film o altre opere ha il valore della testimonianza per le altre generazioni.
Non si tratta semplicemente di convivere con il passato e con i ricordi ma di servirsene in maniera positiva, di trasformarli in uno strumento per riuscire a comprendere meglio il futuro.

CF: Potremmo dire che questo è proprio l’intento dei tuoi film, è difficile immaginarli completamente sconnessi dalla realtà politica e dalle tue esperienze. Immagini di poter fare dei film totalmente diversi?

KÇ: Si, certamente. Nel corso della mia carriera ho affrontato anche dei temi storici. Specialmente nel periodo della dittatura, per ovvi motivi, era consigliabile allontanarsi dal presente e concentrarsi su un periodo storico diverso. Ad esempio ho fatto Balada e Kurbinit, presentato al Festival di Venezia nel 1991, che parla della conversione degli albanesi dal Cattolicesimo all’Islam. Parla del periodo in cui molti albanesi si rifugiarono in sud Italia e continuarono a vivere lì.
Nello stesso anno in cui presentai il film, era molto caldo il tema dei profughi albanesi in Italia: anche se per motivi diversi, centinaia di miei connazionali stavano nuovamente cercando rifugio nel vostro paese. Ovviamente il film aveva a che fare con i due elementi del titolo e con questi due cruciali periodi caratterizzati dallo stesso fenomeno d’immigrazione di massa in Italia.

CF: Potresti spiegarci che cosa significa Magic Eye, il titolo del tuo ultimo film?

KÇ: Magic Eye si riferisce a una sorta di occhio interiore, di un occhio del sentire, un occhio della mente. Nella nostra lingua si usa anche dire “hai un occhio magico” per dire che hai dei bellissimi occhi. Purtroppo, invece, penso che perdiamo sempre di vista l’altro occhio, appunto quello interiore, che ci guida nelle nostre scelte, che ci orienta nella vita.
Per esempio nel film, l’occhio della telecamera è una sorta di stanza nera all’interno della quale si sviluppa la pellicola. Dobbiamo entrare in camera oscura per sviluppare il film stesso, per scoprire che cosa quell’occhio ha catturato. È come se in qualche modo avessimo bisogno di un altro punto di vista per comprendere noi stessi, le nostre relazioni, per riflettere sulle nostre vite.
Questo per me è il punto focale in questo ultimo lavoro. Se hai visto il film, ricorderai che ho iniziato con la ripresa di un occhio ed ho concluso con le inquadrature di tanti occhi. Quegli occhi stanno guardando qualche cosa che non esiste più nella realtà, che non è presente in quello stesso momento (e che neppure noi vediamo nella sequenza finale, ndr) ma che consente loro una sorta di meditazione. Riescono a valutare, a riflettere da soli con se stessi attraverso quello che io chiamo occhio interiore, il vero occhio magico delle persone.

locandina del film Magic EyeCF: Molto presente nel film è anche il tema dell’immagine, connessa alla verità, ai media, a diversi valori incluso quello del mercato. Qual è per te il valore dell’immagine?

KÇ: Penso che in questo senso stiamo tutti vivendo un’epoca particolare, decisamente diversa rispetto al passato, rispetto alle cosiddette culture orali e scritte, in cui la comunicazione passava prevalentemente attraverso l’oralità, il dire, e attraverso la carta, le lettere.
Oggi viviamo nella cosiddetta cultura dell’immagine e della rivoluzione digitale. Il problema è la velocità di quest’era che non corrisponde ai tempi di digestione necessari all’essere umano. C’è talmente tanta velocità, viviamo un eccesso dinamico che appartiene a questa rivoluzione, ma non coincide con la percezione umana.
Dobbiamo appena renderci conto di quel che sta succedendo in quest’epoca. Ci sarebbe bisogno di un periodo di riflessione e di meditazione, non soltanto di una corsa continua, di un costante bombardamento digitale. Non dobbiamo perdere la consapevolezza dei sensi e degli altri canali di comunicazione, non possiamo concentrarci solo sulla comunicazione digitale e dimenticare la comunicazione umana intesa in senso lato. Se perdiamo la capacità di comunicare andiamo incontro ad un processo di alienazione sia a livello individuale, sia dell’intera società moderna.
Non posso dire che abbiamo bisogno di un’altra epoca per leggere i crimini di questa, sicuramente però c’è bisogno di una maggior consapevolezza. Ogni individuo avrebbe bisogno di un periodo per riflettere e metabolizzare, per comprendere quali sono i nostri nuovi valori.
Solo ora, ad esempio, ci stiamo lentamente accorgendo che attraverso la celebrazione di un mondo digitale e materialistico abbiamo perso alcuni principi morali ed etici che racchiudono il senso della vita stessa.
Stiamo esplorando nuovi sapori, ma ne stiamo perdendo altri, stiamo perdendo una dimensione umana. Abbiamo tutti bisogno di credere, di investire noi stessi in qualcosa e il maggior investimento che un essere umano possa fare non può limitarsi solo a valori di tipo materiale. Il gusto della vita ha necessariamente a che fare con le emozioni, la mente, il cuore. Solo riconoscendo questi valori fondamentali possiamo recuperare una diversa possibilità di vivere.

CF: Parliamo un po’ delle donne in questo film: sembrano delle figure piuttosto ambigue. La ragazza bionda per esempio, sembra subire una sorta di metamorfosi che la trasfigura completamente rispetto alla prima impressione che si ha di lei. Qual è la tua idea di donna, il tuo modello? Che cosa pensi dei personaggi femminili del tuo film?

KÇ: Vorrei subito allargare il discorso parlando del significato dell’amore nel film. L’amore si presenta sia sotto forma di ricordo, sia concretamente nella realtà, sintetizza parte del nostro conflitto interiore tra reale ed immaginario.
In questo senso, la donna provoca ed allarga lo spazio immaginativo dell’uomo e ci offre una visione alternativa per decifrare la dimensione reale. La donna ha un potere interiore molto più forte rispetto a quello dell’uomo, quello femminile è un potere misterioso e mistico. Il mistero stimola l’uomo; di tanto in tanto, noi uomini ci rendiamo conto di quanto ingenui e stupidi siamo. Basti pensare alla Lisistrata. Nell’antichità greca, le donne decisero di dare agli uomini una lezione, di renderli consapevoli dei loro limiti e della loro vulnerabilità. Le donne si nascosero mentre i mariti erano in battaglia e questi, quando tornando fieri delle proprie conquiste e del proprio ricco bottino non le trovarono, si resero conto che anziché essere vincitori, si sentivano perdenti. Senza la presenza della donna l’uomo vive una dimensione incompleta, fallimentare.
Nel mio film il protagonista Pedro vive in bilico tra il ricordo, una certa immagine idealizzata dell’amore, e la dimensione presente, in cui si rende conto di quanto l’amore possa arrivare al limite dell’abuso. Volevo creare una contrapposizione che mettesse in luce il confine tra amore e abuso d’amore. Pedro è in parte colpevole perché è sulla soglia dell’abuso e, allo stesso tempo, sta vivendo un processo che lo porta a condannare quest’abuso. Ciò nonostante, egli continua ad amare la ragazza francese che aveva conosciuto all’inizio della sua carriere, riconferma il suo “abuso”. È un dubbio che rimane, che riguarda i due volti del femminile. Ho tentato di trovare un modo più articolato di avvicinarmi alla figura della donna.

scena del film Magic Eye

CF: Dal punto di vista tecnico abbiamo delle qualità di immagini molto diverse: alcune molto chiare, per esempio quelle riferite alla cognata di Pedro, altre molto scure, confuse, altre ancora che evocano un’atmosfera da sogno, un ricordo, qualcosa che non ha consistenza reale. Qual’era il tuo scopo?

KÇ: Ho usato cinque diversi formati: ho girato con la 8 mm, con la telecamera digitale, in 35 mm, ho inserito alcuni vecchi frammenti di pellicola e nel film compaiono anche immagini proiettate su degli schermi e provenienti dalla televisione. Bisognava trovare un equilibrio tra tutti questi diversi formati, è pericoloso portare in un film un’eccessiva frammentazione. Dovevo creare una sorta di unità, dare allo spettatore l’impressione che fosse di fronte a qualcosa che sta succedendo davvero, nonostante le immagini provenissero da fonti diverse come i media, la tv o dei filmati. Dal punto di vista estetico è necessario bilanciare le differenze e si può farlo attraverso il nero oppure inframezzando la pellicola con immagini digitali.

CF: Ma qual era lo scopo? Quando e perché utilizzavi un certo tipo di telecamera o di pellicola piuttosto che un altro? L’uso era legato ai diversi punti di vista dei personaggi, alla situazione, avevi intenti sperimentali? Qual è il significato di queste continue alternanze?

KÇ: Era una scelta obbligata al fine di rimanere coerente dal punto di vista drammaturgico. Il protagonista ha una 8mm e quindi, quando ci si riferisce a lui, tutto viene ripreso con quella. Il giornalista ha invece una digitale, io giravo con una 35mm e poi c’erano tutti gli altri materiali visivi che appaiono nel corso del film.
La combinazione era, quindi, legata alla costruzione drammaturgica che imponeva l’uso di un formato in determinati casi, ma, allo stesso tempo, l’intento era creare l’impressione che il film fosse una sorta di docu-fiction, che ti fa vedere qualcosa che sta tra il documentario e la fiction.

CF: Avevi anche degli intenti sarcastico/ironici? Per esempio c’è la scena della donna che inciampa in un cadavere per strada e non sembra per niente impressionata, sembra che ci sia abituata e che non provi alcun particolare sentimento. Non è una scena realistica…

KÇ: C’è stato un periodo in cui c’erano davvero morti per le strade, questo però non ha a che fare con l’indifferenza della donna. Il personaggio di cui stiamo parlando deve vivere in modo “lunatico”, è una persona atemporale che non prende in considerazione il tempo in cui sta vivendo. Hai notato anche il violoncellista? (nel film appare parecchie volte un musicista che suona giorno e notte seduto sul tetto, ndr) Entrambi sono personaggi fuori dal tempo, come un coro greco. Sono persone che arrivano e compiono le stesse azioni nelle situazioni più diverse. Rappresentano una dimensione statica a dispetto di qualsiasi cosa accada loro attorno, sono addirittura insensibili alla pace o alla guerra. Sono ovunque, per sempre, in un loro luogo.
Il violoncellista sul tetto rappresenta anche la figura dell’artista che vede il mondo in maniera diversa. Per la donna lunatica è normale passare sopra ad un cadavere senza farci caso, tutta la loro vita è così: è un guardare senza agire, senza reagire.

CF: Quali sono i tuoi punti di riferimento e modelli cinematografici? Se ce ne sono…

KÇ: No, non ne ho di fissi, cambiano… Quando ero studente ero molto affascinato da Bergman, poi c’è stato il periodo Tarkovskij. Sono amori transitori che cambiano continuamente. Non ho un modello, mi piacciono le costellazioni. La mia concezione di modello ha a che fare con una costellazione di stelle, vivo all’interno di quello che definisco “il pianeta”, alla cui creazione hanno contribuito i più grandi registi d’ogni tempo e d’ogni parte del mondo.
Questo è il motivo per il quale nella mia scuola organizzo proiezioni dei classici che fanno riferimento ai grandi maestri. Serve a creare il pianeta dei miei studenti, non quello su cui viviamo ovviamente. Come spettatori cosmonauti ci muoviamo nell’universo creato da questi grandi artefici del cinema che ci guidano e ci fanno passare con facilità dal mondo antico a quello medievale, in qualsiasi posto, in qualsiasi tempo. È un tesoro di immenso valore, un patrimonio che abbiamo il privilegio di esplorare e di vedere.
La settimana scorsa abbiamo organizzato una rassegna sui film di Antonioni e gli studenti, ma anche le persone comuni che possano partecipare alle proiezioni, sono rimasti deliziati dal suo universo. Lo scorso anno abbiamo esplorato Fellini. Ciascuno ha creato il proprio personale mondo, un universo parallelo che serve sempre a comprendere anche ciò che sta succedendo nella nostra realtà.

Kujtim Çashku

CF: Che cosa significa per te il premio CEI che ti è stato assegnato al Trieste Film Festival? C’è qualcuno a cui vorresti dedicarlo?

KÇ: La gente non è abituata ad essere felice, la felicità è un istante, una goccia. Allo stesso modo definirei questo premio per me: una goccia di felicità, ne sono davvero contento. Non è il primo riconoscimento per questo film, ne ho ricevuti otto, tre al Valencia Film Festiva l, sono stato premiato anche a Il Cairo, ecc.
Ricevere un riconoscimento di questo tipo nel vostro paese mi fa però un piacere particolare, soprattutto perché l’Italia rappresenta un legame con quelle istituzioni europee di cui l’Albania vorrebbe esser parte. È un grosso incoraggiamento per le persone che ci stanno ancora lavorando e stanno facendo tanto.

CF: Nuove idee per altri film?

KÇ: Ho appena finito la sceneggiatura per il prossimo film.

CF: Allora ci si rivede forse al prossimo Festival…

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