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Arte

Dall’Action Painting alla Body Art (I)

La storia del corpo

“L’uomo è ossessionato dalla necessità di agire in funzione dell’altro, ossessionato dalla necessità di mostrarsi per poter essere.”[1]
Lea Vergine

Immagine articolo Fucine MuteIl corpo si “dis-vela”: allontana da sé quella tendina, quella tela, che l’ha costretto nascosto per tutta la storia dell’arte.
Secondo Lea Vergine, l’esibizione del corpo dell’artista è stata del tutto soffocata dal Modernismo: il corpo è stato l’oggetto fobico per eccellenza, poiché minacciava di scardinare quella ragione cartesiana, che faceva dell’”io penso, dunque sono” un baluardo all’ingombro della carne. Cartesio priva il corpo del suo mondo e lo relega nella res extensa, dove questo è definito come oggetto e decifrato, al pari di tutti i corpi, secondo le leggi della fisica. L’anima, all’opposto, libera dalla gravezza corporea, viene intesa come puro intelletto, come Ego intersoggettivo, il quale dà significato al mondo e ai corpi che lo abitano.
Alla base del Modernismo c’è un soggetto privo di fisicità, ovvero il cogito trascendentale e spersonalizzato della filosofia cartesiana. Questa tendenza, quindi, reprimendo il corpo, manifesta l’incapacità di riconoscere che tutte le forme e i prodotti della cultura sono parte integrante della società, dal momento che è il corpo il collegamento innegabile tra il soggetto e il suo contesto sociale. Attribuendo, invece, maggior prestigio all’Ego intersoggettivo (al cogito), si soffoca l’esistenza di un tipo di soggetto “interessato”, legato indissolubilmente alla propria fisicità e interamente inserito nel contesto sociale.

Bisogna aspettare la seconda metà del ‘900 perché il corpo dell’artista divenga visibile e questo coincide con i grandi cambiamenti sociali e culturali, oggi indicativi per la collettività.

Il corpo, in questo periodo, assume sempre più prepotentemente la funzione di locus dell’io, luogo dove pubblico e privato s’incontrano e dove si negozia, si crea e si dà senso al sociale [2]. Si fa concreta la necessità di un ritorno dall’oblio del corpo dell’artista e quest’esigenza sorge in risposta alle problematiche, che l’individuo quotidianamente incontra in un una società capitalista. Società che è caratterizzata dal dominio di un’economia politica globale, la quale assoggetta e trasforma il corpo in un ingranaggio governato dagli imperativi categorici di produzione, consumo e ordine. Nel capitalismo l’individuo diviene oggetto e di conseguenza inghiottito dal mercato. L’esibizione e la rappresentazione del corpo dell’artista si presentano come un antidoto ad una società, che mercifica e quindi monitora ogni aspetto del quotidiano. Il corpo dell’artista si batte e si dimena, molte volte invano, contro quella che Heidegger definisce la dittatura del “Si” (in tedesco man), che “regola innanzitutto ogni interpretazione del mondo e dell’Esserci ed ha sempre ragione”[3]. Questa dittatura corrisponde alla tirannia dell’indeterminazione e dell’anonimato, in cui tutto quello che è fuori dal nostro cogito è res extensa quindi oggetto, merce: il nostro corpo rientra, perciò, in questa caratterizzazione. In questo fosco e incerto scenario l’arte sceglie il corpo: un corpo usato, abusato, svuotato, un corpo come perdita di sé, un corpo che si ribella, che ardentemente desidera liberarsi da quei marchi, quei segni e quelle tracce indicativi di un potere coercitivo.

Ancora una volta ci viene incontro la letteratura. In Nella colonia penale, Kafka racconta di un ufficiale, che spiega con rigorosa precisione il funzionamento di una macchina per la tortura, alquanto bizzarra (“…ein eigentuemlicher Apparat”): “Poi trasse di tasca una piccola busta di pelle e disse: “La nostra sentenza non è severa. Il comandamento che il condannato ha violato gli sarà scritto sul corpo dall’erpice. A questo per esempio” l’ufficiale indicò l’uomo, “verrà scritta sul corpo la frase: Onora il tuo superiore ! ”…(il viaggiatore, protagonista del racconto, disarmato interrompe l’ufficiale chiedendogli) “Lui conosce la sentenza?” “No”, rispose l’ufficiale…ma il viaggiatore lo interruppe: “Come, non conosce la sua sentenza?” “No”, ripetè l’ufficiale…”Non ci sarebbe motivo di comunicargliela, dal momento che la deve apprendere dalle sue carni”.[4]

Kazuo Shiraga, Challengin Mud

L’artista non solo marchia il proprio corpo, ma denudandosi, mette in mostra una carne già solcata da mille e impercettibili incisioni. Delle suture sottocutanee, che tendono la pelle, in modo che il corpo sia liscio e teso: un corpo lindo, in cui non ci sia traccia d’aperture “peccaminose”.
Gli artisti, che per primi intraprendono il tortuoso cammino della Body Art, hanno come fine ultimo la piena espressione del sé attraverso il corpo per reclamare il proprio diritto a “essere”. In quest’ottica diviene più comprensibile la citazione iniziale di Lea Vergine, che continua: “[…] si vuole vivere l’ethos e il pathos collettivi, cogliere nella sua fisicità brutale l’esistenza, produrre fenomeni spudoratamente tali […] riportare l’uomo all’autorelazione e alla relazione con gli altri, cioè al suo modo di esistenza pacifica. ”[5] L’accento è posto sul rapporto tra l’Io e l’Altro. Un Io, che non si vuole distinguere dal proprio corpo, che non lo contempla come uno strumento, bensì, insieme ad esso rappresenta un’apertura originaria, una presenza.

Gli artisti vogliono provare tutte le possibilità che ci sono date di conoscere per mezzo del corpo e della sua “perlustrazione”. Va da sé che le esperienze sono, la maggior parte delle volte, autentiche e, quindi, dolorose e crudeli. Una crudeltà, da molti giudicata come espressione di squilibrio mentale. Nell’intervista a Brus e moglie, quest’ultima afferma: “[…] L’80% della gente che veniva a vederci, veniva perché “lì succede qualcosa: ci sono donnine nude, un paio di pazzi e c’è uno che si lacera il viso! ”[6]. Quello che gli artisti si proponevano di dimostrare, attraverso queste esperienze “brutali”, era che il corpo ha un linguaggio proprio, che, come ogni altro sistema di comunicazione, è in continua evoluzione. Un linguaggio fisico fondato su segni, in cui il gesto ne è la materia e l’essenza: l’uso del corpo pareva, dunque, l’unica via per ritrovare una comunicazione diretta, un rapporto sensoriale e tattile con l’Altro. Naturalmente gli artisti non si prefiggevano di trovare una sorta di grammatica del linguaggio corporeo categorica e facilmente decodificabile, come, invece, avviene per il linguaggio verbale. Il corpo come linguaggio è contemporaneamente rigido e flessibile; con i suoi movimenti è in grado di esprimere un’infinita gamma di significati, a volta anche involontariamente. Mettendo, quindi il corpo al centro di svariate esibizioni si cercava di contestualizzare e fissare con maggior precisione questi significati. È proprio attraverso questa contestualizzazione, che l’artista può meglio esprimere il suo modo di “essere” che altrimenti sarebbe inafferrabile, per l’eccedenza simbolica propria del corpo-vivente[7].

Le radici di questa modalità d’espressione sono molteplici, già le varie tendenze dell’espressionismo manifestavano con brutalità un corpo che interagiva con il quadro, tanto da sfigurarne oggetti e figure. Gli artisti della Body Art scelgono, allora, di esibire la propria persona con creazioni realizzate o in presenza o in assenza di un pubblico, ma sempre in vista di uno spettatore, che ha in genere accesso a queste opere grazie ad una mediazione documentaria. Registratori, cineprese, macchine fotografiche e quant’altro sono i mezzi, che utilizzano per fermare una quantità di piccoli episodi privati. L’artista diventa, dunque, il suo oggetto: simultaneamente tetico di sé e tetico dell’oggetto. Il corpo esibito, a volte tormentato e martoriato, si propone, quindi, di sconvolgere i tradizionali rapporti tra arte e pubblico.

La fotografia, in particolare, introduce nell’universo delle immagini, un modo di rappresentazione che offre un accesso molto particolare al referente, dato che, per principio, presuppone la sua presenza davanti all’obiettivo. Di conseguenza, quando, come nel caso della Body Art, l’opera e il corpo dell’artista sono un tutt’uno, l’accesso, da parte dello spettatore, diventa una vera e propria porta spalancata nell’universo dell’arte, un universo in cui l’esposizione di un artefatto è sempre coincisa con il dileguarsi del suo artefice. La Body Art annulla quei convenzionali dispositivi della simbolizzazione artistica, per cui l’artista era adombrato dalla sua stessa creazione.

Jackson Pollock, Sentieri ondulatiFu Jackson Pollock, emblema di tutta l’action painting, a rappresentare con la sua opera una delle più intense fonti d’ispirazione per tutti gli artisti che volevano utilizzare il proprio corpo come forma d’arte. Furono, però, le famose fotografie di Hans Namuth del 1951, che ritraevano Pollock nell’atto di gettare il colore sulla tela, a favorire il diffondersi in tutto il mondo dell’influenza dell’opera pionieristica dell’artista, dall’Europa al Giappone: per quanto riguarda il Sol Levante basti ricordare il gruppo Gutai Bijutsu Kyokai[8], fondato nel 1954 da Jiro Yoshihara. Il momento della svolta, quindi, è rappresentato da quell’atto di gettare il colore: alcuni critici, tra i quali Harold Rosenberg, affermeranno che, una pittura che è atto risulterà inseparabile dalla biografia dell’autore. Pollock era un artista tormentato, che solo attraverso l’atto della pittura riusciva a raggiungere la propria essenza più profonda: un atto che non era soltanto l’espressione dell’inconscio, era tutta l’esistenza fisica e psichica che era coinvolta nel ritmo dell’azione.

L’enfasi posta su Pollock ritratto nell’atto di dipingere portò a identificare la personalità dell’artista con la sua opera e a fare dello stesso un modello d’ispirazione. Pollock, difatti, rappresenta l’ultimo artista che risente ancora dell’ideale romantico, retaggio del pensiero modernista, di individuo posseduto dall’ispirazione: l’ultimo artista esistenzialista sopraffatto da una folgorazione, che con gesti eleganti distilla il colore sulla tela. L’artista americano incarnava questa figura, poiché il suo “corpo” era sempre in secondo piano rispetto alla sua arte: i critici attribuivano significati soltanto all’opera d’arte e non al corpo che l’aveva creata.

Il “corpo in azione”, dagli anni Sessanta in poi, viene, dunque, messo in primo piano, creando scalpore in chi in tutto questo scorgeva solo un impoverimento dell’arte. C’era, però, chi aveva colto in queste testimonianze fotografiche qualcosa, che non voleva essere solo una provocazione al modo di fare e intendere l’arte, ma una domanda rimasta troppo a lungo celata dalla parte visibile dell’opera: chi c’è dietro la tela?

In occasione della prima mostra d’arte Gutai, a Tokyo nel 1955, Kazuo Shiraga realizzò un’opera dal titolo: Lottare nel fango.
Questa più che un’opera era un vero e proprio spettacolo dell’arte, in cui l’artista, dopo aver fatto scaricare, all’ingresso dell’edificio, una tonnellata circa di fango, ci s’immerse e si dimenò come un lottatore. Creò un dipinto bidimensionale scolpito, in cui era possibile scorgere i segni o le tracce della lotta tra l’artista e la materia. L’intenzione dell’artista è quella di rivelare in diretta il processo di creazione e di rendere visibile quello che fino allora non lo era: il corpo dell’artista, la sua presenza concreta. Il corpo, quindi, assurgeva da soggetto e origine della creatività, cosa, quest’ultima, che, fino a pochi anni prima era prerogativa solo della mente illuminata e ispirata. Gli artisti del gruppo Gutai portarono alle estreme conseguenze il modo di fare arte di Pollock. I documenti fotografici delle loro mostre ritraggono artisti che squarciano tele di carta, o lanciano, con gesti volutamente teatrali e violenti, barattoli di colore su tele, stese a terra, come Shozo Shimamoto, esasperando quel gesto elegante di Pollock: l’aspetto esibizionistico della performance era un elemento chiave di quest’opera. Il desiderio immanente, dunque, era quello di rendere visibile la “presenza” dell’artista, ma non più come smania di far parte del quadro, com’era anche per il gruppo giapponese, bensì volontà di far diventare il “quadro parte del proprio corpo”[9].

Carolee Schneemann, Eye BodyI primi artisti che si muovono in questa direzione sono Carolee Schneemann e Yves Klein: con questi due artisti si ha, dunque, un superamento della concezione dell’arte, che aveva investito Pollock. Entrambi lavorano con la “carne”, ma mentre Klein trasforma il corpo in “pennello vivente”, il colore veniva steso sulla tela direttamente dal corpo umano[10], la Schneemann faceva del corpo un vero e proprio action painting, mescolando la propria carne alla “carne” dell’ambiente.
La Body Art mette in scena corpi che sono pesantemente connotati nelle loro contingenze sociali: Carolee Scheemann mette in mostra un corpo in movimento, estremizza il nudo femminile, negando la sua funzione di mero oggetto dello sguardo maschile. La figura dell’artista geniale, tipica fino a poco tempo prima, muore e si trasforma in uno strumento della lotta politico-sociale.

Negli anni Sessanta fare del proprio corpo nudo un’estensione delle tradizionali tecniche pittoriche e scultoree, rappresentava, soprattutto per una donna artista, la volontà di lanciare un forte messaggio contro quei vecchi preconcetti che tenevano lontane le donne dal processo creativo dell’arte, relegandole allo status di modelle, o tutt’al più a muse ispiratrici.

Si assiste ad un progressivo superamento dell’arte e dell’estetica come dicotomia tra artista che crea e pubblico che fruisce: l’arte si fa meno trascendentale e si avvicina al quotidiano. Gli artisti sembrano vivere con ansia la divisione tra pubblico e privato e avvertono che il corpo è il palcoscenico sul quale questa divisione è maggiormente visibile: un corpo che, giorno per giorno, risente di quel conflitto tra l’istinto di piacere, che non conosce “né valori, né bene e male, né moralità”[11], e l’Io organizzato, soggiacente al principio di realtà, che ha imparato a distinguere il bene dal male, il vero dal falso, l’utile dal dannoso. Ne consegue che i desideri dell’individuo sono organizzati dalla società. Quello che si vuole portare in scena, allora, è un corpo quotidiano, che emana odore, che respira, un corpo connotato da pulsioni sessuali e che non nasconde le proprie bassezze, come gli escrementi. Questo è, necessariamente, un corpo collettivo, che annulla sia il corpo moderno, che è chiuso e privato, sia la pura mente cartesiana, che tralascia la fisicità in favore di una “salvifica” trascendenza. Il quotidiano incontra un corpo carico di desideri e pulsioni sessuali in continuo fermento, che la società tendeva ad assopire o a scaricare in altro modo: il mondo penetra nella profondità della carne e questo porta gli artisti a rappresentare, attraverso della performance, le esperienze di tutti i giorni in opposizione al razionalismo e all’inarrestabile avanzata della cultura capitalista. Le testimonianze di sé, della propria vita, l’intera sfera del privato sono impiegate come materiale di repertorio. Tutto diventa recuperabile: una qualunque azione di un qualsiasi momento di una qualsiasi giornata; le proprie foto e le radiografie; la propria voce; tutti i possibili rapporti con gli escrementi e con i genitali; ricostruzioni del proprio passato o messe in scena di sogni; l’inventario degli incidenti; le percosse e le ferite. Le strategie, per rendere più labile il confine tra l’arte e la vita hanno avuto come principale risultato la fine della scissione tra le arti. Per la prima volta, negli anni Sessanta, si parla d’arte totale: l’intento era quello di unire tutte le branche dell’arte, dalla musica, alle arti plastiche, alla poesia. Tali metodi, che annullano il radicamento dell’opera artistica nell’oggetto, hanno svariate denominazioni, dovute più alle convenzioni acquisite che a specificità concettuali e formali chiaramente individuate: gli happening e gli event, che fanno capo ad un retroterra americano. L’artista americano Allan Kaprow inventò l’happening: il termine, ricalcato sull’etimologia del verbo to happen (accadere), appariva nel titolo di una manifestazione organizzata dall’artista a New York nel 1959, “18 Happenings in 6 Parts”.

Allan Kaprov, 18 happenings in 6 parts 1959

Gli spettatori potevano vedere, comodamente seduti, alcune proiezioni di diapositive, ascoltare musica improvvisata e assistere a diverse azioni elementari: una persona che accende dei fiammiferi, una donna nuda che sprofonda in un divano, un gruppo d’artisti che dipingono tele appese su tramezzi o altri che suonano strumenti musicali. In un’ora e mezza erano eseguiti diciotto happening: eventi che incarnano valori antitetici a quelli convenzionali delle “belle arti”; eventi che promuovono l’effimero, il quotidiano, in sostanza il riavvicinamento tra l’arte e la vita. Il fulcro dell’happening era di scatenare quegli eventi casuali che segnano e modellano la nostra intera esistenza. Secondo Allan Kaprow l’happening non si poteva in alcun modo ripetere, perché altrimenti gli interventi dell’artista non avrebbero significato nulla d’esplicito: l’evento avrebbe perso il suo diretto contatto con la realtà, con la quotidianità, per trascendere in qualcos’altro. Questi eventi (happening) erano allestiti in luoghi normalissimi, all’aperto, in studi, in soffitte o per le strade, in ogni luogo dove non esisteva alcuna distinzione tra pubblico e artista, ma dove tutti potevano essere degli attori. L’happening voleva cancellare le barriere tra spettatore e creatore, tra quotidiano e opera d’arte, facendo aprire per la prima volta gli occhi ai partecipanti sulla grande forza della quotidianità, che unisce i corpi attraverso uno spazio comune d’interazione sociale. L’happening trova comunque la propria ragion d’essere nell’origine della sua enunciazione (to happen): non l’artista genio trascendente, ma l’artista conscio della propria fisicità, vista come centro di potere culturale.

Queste stesse premesse hanno indotto il movimento Fluxus nella rappresentazione di gesti estremamente semplici e nella messa in scena della banalità assoluta. Le opere di questo movimento, fondato nel 1961 da Gorge Maciunas e da Georgee Brecht, pongono l’accento sulla semplicità e l’essenzialità di una proposta destinata a vanificare sia i confini tra l’arte e le non-arte, com’era per il Dadaismo, sia i confini ancora esistenti tra le varie arti, in particolare le arti plastiche (musica, poesia e arti dello spettacolo). S’inserisce in questo contesto L’identical Lunch, opera del 1973 di Alison Knowles: rappresentazione di una routine quotidiana, che consisteva nel mangiare sempre lo stesso cibo alla stessa ora e nello stesso posto. Un gesto monotono, che fuori dal contesto artistico sarebbe decisamente banale.
Nelle opere Fluxus e anche negli happening, il corpo dell’artista era spiccatamente sociale: la ripetizione continua di gesti abitudinari incoraggiava a soffermarsi sull’analisi della struttura e del significato della vita di tutti i giorni e, per certi versi, riscoprire gesti snaturati della società consumistica, come, per l’appunto, mangiare o sbrigare le faccende di casa: basti pensare a come queste stesse mansioni siano spettacolarizzate dagli spot televisivi.
Gli artisti, attraverso le opere Fluxus e gli happening, proiettavano volontariamente il proprio corpo all’interno di una sfera d’indagine sociale che si proponeva di coinvolgere gli spettatori e aprire loro gli occhi: il loro fine era, quindi, di carattere pedagogico. Si voleva porre l’accento sull’importanza della collettività e a contrastare l’individualismo.

Carolee Shneemann, Meat joy, 1964

L’Action painting con i suoi corpi che agiscono nell’ombra, ma il cui movimento è impresso come una radiografia nelle opere, è, oramai, lontano anni luce; gli artisti del quotidiano sottolineano la dimensione storica e sociale dell’esistenza mettendo in scena il loro corpo, che non è più lo strumento di una mente illuminata. Dalla metà degli anni Sessanta agli anni Settanta, in concomitanza con la nascita dei movimenti di rivendicazione dei diritti umani e del valore sociale delle comunità, il corpo dell’artista si mostra in tutte le sue capacità, in quanto depositario di un sé autentico e in aperta opposizione al determinismo della tecnologia e della scienza.

Si parlò spesso di corpo “autentico” in relazione alle opere della Body Art di questo periodo. Il desiderio d’autenticità del corpo o del sé è la diretta conseguenza dello strapotere del consumismo, che regola ogni rapporto secondo lo schema binario domanda/risposta, in cui tutte le possibili variabili sono già comprese in un modello prestabilito. Questo desiderio può essere interpretato come il tentativo di ridare peso e consistenza al soggetto incarnato attraverso gesti che ne rivendichino la libertà d’espressione. Il corpo dell’artista si fa militante per sottrarre l’individuo alla morsa del consumismo, che appiattisce e omologa i corpi mercificandoli come meri oggetti o dei veri e propri feticci: il corpo della donna è ancora oggi considerato un “oggetto” di consumo. All’interno di quest’ottica vanno inquadrate le opere di molte donne, che condannano o  enfatizzano, in modo sarcastico, il ruolo della donna nella società.

Il corpo militante-Joseph Beuys

Per inquadrare meglio il senso di quest’arte militante, che si riappropria di un corpo considerato, prima come una prigione dell’anima e poi come forza lavoro e oggetto mercificabile, prenderò brevemente in considerazione l’operato e la vita di un’artista che ha creduto fortemente nelle capacità pedagogiche di un’arte “difforme”: un’arte sempre più lontana dalle “belle arti” e più vicina alla quotidianità e ad un privato considerato troppo “immondo”, che rischia di insudiciare la società capitalista: il tedesco Joseph Beuys.

L’artista tedesco aveva tentato di promuovere un superamento dell’arte fondata sulla dicotomia tra l’artista che fa e il pubblico che guarda. Beuys, attraverso l’arte voleva “spiritualmente ricostruire l’unità dell’uomo, ridargli energia e tensione per trasformare il suo rapporto con il mondo ”[12].

Una parte dell’opera di Beuys s’ispira ad un episodio della sua vita divenuto leggendario. Quando l’aereo della Luftwaffe da lui pilotato venne abbattuto, fu raccolto da una tribù di Tartari e curato con tecniche sciamaniche. Il curatore-santone della tribù gli cosparse il corpo di grasso e lo avvolse con dei panni, fino alla lenta, graduale cicatrizzazione delle ferite. In seguito a questo bizzarro e rocambolesco avvenimento, l’artista utilizzò sempre materiali isolanti o conduttori d’energia. Il grasso, il feltro, il cuoio, lo zolfo, il miele e l’oro, gli animali selvaggi o domestici, vivi oppure morti, intervengono spesso nelle sue istallazioni e nelle sue performance: elementi che paiono enigmatici ma che diventano immediatamente comprensibili se si risale al codice metaforico che sottendono. Per esempio il grasso assume il valore simbolico della vitalità; il feltro svolge la funzione d’isolante termico, di protezione, ma rappresenta anche un legame magico tra natura e cultura, animalità e umanità, in quanto è un materiale organico ottenibile attraverso l’agglutinamento di peli animali; la lepre indica la crescita e la moltiplicazione: è un animale totemico, che diventa funzione del suo pensiero.

Joseph Beuys, I like America and America likes me

Tutti questi elementi sono presenti nelle sue actions, per esempio in Come spiegare dei quadri ad una lepre morta (1965) o Coyote. I like America and America likes me (1974). Nella prima performance l’artista tedesco, chiuso all’interno dello spazio espositivo e visibile dal pubblico solo attraverso la porta e la finestra, che dava direttamente sulla strada, era seduto, con la testa ricoperta di miele e lamine d’oro, stringeva affettuosamente tra le braccia una lepre morta. La performance consisteva nel portare l’animale senza vita davanti ai quadri appesi alle pareti, glieli faceva toccare con la zampina esanime e, muovendo le labbra senza emettere alcun suono, glieli descriveva e illustrandogli com’erano stati creati e concepiti. Il senso di quest’azione lo diede lo steso artista, che affermò che non apprezzava per niente dover spiegare il significato di un’opera d’arte alla gente, perché accecati da troppo razionalismo, mentre suggeriva alla lepre di dare solo una breve occhiata ad un’immagine per capirne l’importanza. Coyote. I like America and America likes me è una spettacolare e prolungata azione, in cui Beuys avvolto in un rotolo di feltro si fa trasportare in aereo da Duesseldorf a New York. L’artista fu portato dall’aeroporto JFK fino alla René Block Gallery in ambulanza ed entrò nella stanza cosparsa di fieno impugnando un bastone da pastore e vi soggiornò per cinque giorni, chiuso da solo, insieme ad un coyote selvaggio di nome Little Joe. Durante questa singolare permanenza, se l’animale era aggressivo Beuys si proteggeva col bastone e con il feltro. L’azione è caratterizzata da lunghi periodi di silenzio e osservazione reciproca, interrotti solo dalle conversazioni dell’artista con l’animale e dall’offerta di alcuni oggetti al coyote, tra cui il “Wall Street Journal” quotidianamente. L’azione piuttosto complessa e articolata, ha come valore simbolico fondamentale il rapporto d’incontro-scontro fra natura e civiltà urbana, fra un simbolo dell’America incontaminata e anche della terra degli indiani, e l’America moderna e capitalista. Il ruolo di Beuys in questa performance “rituale” è quello del pacificatore tra queste due anime.

Ritagliandosi addosso un personaggio pieno di fascino e mistero, Beuys assunse la parte di artista sciamano in un mondo dominato dalle frivolezze e dalla mercificazione di ogni cosa, compreso l’artista stesso. La funzione che lui attribuisce all’artista è quella d’interprete della crisi, d’animatore di una catarsi spirituale, una sorta di nuovo profeta della civiltà moderna. Beuys attribuisce all’arte una capacità magica, alchemica di modificare gli elementi, nel senso che dà forma ed intenzione all’energia del mondo e da questa trasformazione creare un nuovo e più penetrante dialogo con il pubblico: una comunicazione che si estenda in senso orizzontale e non più in modo verticale, dall’alto al basso. L’artista tedesco attraverso questo dialogo diretto e intenso, cercava di realizzare un’equivalenza di ruoli tra “creatore” e pubblico: in questo senso tutti possono diventare artisti collaborando al suo progetto di “scultura sociale”. Il desiderio è che la società si possa modellare e automodellare grazie alle progressiva presa di coscienza, che il pubblico acquisisce attraverso questo dialogo con l’artista. Lo stesso Beuys, in un’intervista apparsa in una testata giornalistica italiana nei primi anni Settanta, alla domanda se temeva di incorrere nel pericolo di fare un tipo d’arte che fosse solo informazione, rispondeva: “L’unica cosa che mi preme è il colloquio con la gente: l’arte m’interessa solo nella misura in cui mi dà la possibilità di comunicare, di stimolare ”[13].

Tra gli anni Sessanta e Settanta la Body Art assume toni più radicali e gli artisti, non solo mettono in mostra il proprio corpo al centro dell’opera, anche se sarebbe più corretto dire al centro della propria creazione, ma intendono, mossi da propositi pedagogici, svelare in maniera simbolica la trama di compromessi, che ogni individuo è costretto a contrarre per soffocare la spinta dirompente dei propri corpi. Gli artisti, allora, esibiscono il dolore fisico e la decadenza del corpo in modo di proiettare le sofferenze psichiche individuali sulla scena sociale. La volontà di produrre uno shock intenso nel pubblico, attraverso la messa in scena d’esperienze violente sul proprio corpo e la propria carne, ha come scopo fondamentale quello di far riflettere, in una situazione di reale tensione, sul significato delle sofferenze personali e collettive dell’umanità, che attraverso i media sono ridotte a semplici informazioni asettiche, a meri dati statistici o a strumenti politici resi spettacolari. I protagonisti di quest’arte “macabra” sono, in primis, gli artisti membri dell’Azionismo viennese, anche se non è propriamente riconosciuto come gruppo, in quanto non è mai apparso un manifesto programmatico e Paul McCarthy, Chris Burden, Gina Pane. Quest’ultima artista, negli anni Settanta, mette al centro delle proprie opere di Body Art un corpo martoriato ai margini della società e in bilico tra la vita e l’oblio della morte. Pane è stata una delle poche artiste, insieme a Günter Brus e Rudolf Schwarzkogler (artisti dell’Azionismo viennese), ad incidere e ferire il suo corpo e a mettere alla prova l’integrità del sé incarnato.

Gina Pane, Azione sentimentale

Le ferite di Pane non sono solo fisiche, ma anche mentali: sono un’apertura al mondo. La ferita, che l’artista s’infliggeva in performance minuziosamente documentate in servizi fotografici, rappresenta i segni della società, che lei rende dolorosamente espliciti sulla sua stessa carne: “trasforma il suo corpo in un luogo di ribellione ”[14].

Gina Pane assumeva su di sé e sul proprio corpo i segni di un sociale, che appiattisce gli individui omologando la comunicazione tra essi, nel segno del principio di realtà, che non concepisce una comunicazione passionale tra gli esseri viventi. Per esempio nella performance Escalade non-anesthésiée (1971), realizzata nel suo studio, l’artista utilizzò una scala molto particolare: sui pioli erano fissati dei chiodi. Con le mani e con i piedi nudi, Pane salì uno ad uno i gradini della scala, alludendo, nelle sue intenzioni, all’escalation americana nella guerra del Vietnam, conflitto che in quegli anni era al suo culmine più sanguinoso, e alla situazione degli artisti, costretti ad “arrampicarsi” sugli scalini della società: chiaro riferimento alle leggi di un mercato, che stava diventando il nuovo padrone dell’arte. Le sofferenze di Pane diventano, quindi, un vettore di comunicazione, provocando ripugnanza nel pubblico e puntando i riflettori su quelle perdite (come il sangue, l’urina e così via), che la società finge di ignorare: questi corpi sono colmi di perdite. Queste opere, come anche quelle d’altri artisti a lei contemporanei, che hanno usato il loro corpo come “materiale” delle loro creazioni, danno voce alle sofferenze represse e “private” d’individui emarginati dalla società, in quanto membri di determinate realtà sociali, come le donne, i gay, i malati.

Gli artisti della Body Art fanno sempre più ricorso alla fotografia per prolungare l’emozione delle performance e studiano con i loro collaboratori le inquadrature e gli angoli di ripresa più pertinenti, in modo che non ne scaturisca mai un semplice surrogato dell’azione vista e “vissuta” dal vivo. Non si tratta più, quindi, di una mera documentazione fotografica, ma la fotografia diventa parte integrante del linguaggio dell’azione. Le performance, le azioni e tutte quelle manifestazioni creative, che fanno del corpo il soggetto e, allo stesso tempo, l’oggetto dell’espressione artistica, entrano nell’universo delle arti plastiche grazie alla mediazione di dispositivi visivi, che hanno acquistato con il tempo uno statuto estetico rilevante. Qui sta la differenza fondamentale rispetto al teatro: le arti plastiche prevedono ed elaborano dei reperti, in modo che questi mantengano la loro efficacia. Esattamente come facevano la pittura e la scultura nell’ambito delle “belle arti”. La Body Art, perciò, si riscatta da tutti coloro che vedevano in questo nuovo linguaggio artistico nient’altro che un prodotto posticcio del teatro.

Il corpo si allontana nuovamente dal pubblico e attraverso le immagini diventano sempre più distanti e vissuti sempre più come cose da osservare, manipolare e dominare. Sul finire degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta molti artisti fanno sempre di più uso di queste nuove tecniche, oramai entrate prepotentemente nel novero dei mezzi d’espressione artistica, rappresentando un corpo in modo eccessivamente parodistico e potenzialmente critico. L’effetto che queste creazioni sembrano aver prodotto è un nuovo distacco del corpo dalla sua dimensione soggettiva, ma allo stesso tempo collettiva, di sofferenza, dolore e incoerenza, per relegarlo dietro la superficie lucida e levigata di corpi riprodotti in serie. Gli artisti della Body Art cominciano, allora, a porre molta attenzione all’elaborazione delle immagini legate alle loro performance o alle loro azioni. Molti di loro hanno lavorato direttamente per l’immagine, prefigurandola come componente inseparabile dell’azione o progettandola intenzionalmente in quanto tale.

Cindy Sherman. Senza titolo n. 409, 408

La Body Art esprime (tradisce) una seconda anima, una duplice modalità d’esistenza estetica: “in vivo ”, nel tempo reale dell’evento, e “in vitro ”, attraverso le immagine rielaborate in un secondo momento. La seconda modalità, in cui si esprime l’arte del corpo, non va, però, identificata come una sterile riproduzione di ciò che si è consumato in presenza del pubblico, bensì come una rielaborazione estetica di un evento. Rielaborazione che non vuole mortificare nuovamente un corpo, che soffre nel silenzio anonimo e privato il disagio di vivere in una società, che identifica l’esternazione del dolore come sintomi psicotici: la dissociazione, il delirio, la depressione, le manie persecutorie. Non bisogna mai dimenticare, allora, che lo spettatore, che davanti ad un quadro occupa la stessa posizione del pittore, di fronte ad un’immagine, in cui l’artista esibisce il suo corpo segnato dalla storia, s’impossessa del posto lasciato vacante dal quest’ultimo. Si potrebbe interpretare questo come uno scambio di ruoli, in cui l’artista, il suo corpo e, perciò, il suo mondo sono la realtà osservata e messa in scena, in modo critico, parodistico o ironico, e lo spettatore si trova, inaspettatamente, dietro l’opera, quasi fosse lui l’ideatore di questa. In quest’ottica si può parlare d’effetti collaterali della Body Art: il corpo, in questi anni, comincia ad assumere i connotati di un simulacro. Per fare più chiarezza basti pensare ad Andy Warhol: le repliche moltiplicate del viso di Marilyn sono allo stesso tempo la morte dell’originale e la fine della rappresentazione. Gli artisti Sherman, Koons e Morimura, che nelle sue opere fotografiche di grande formato si traveste assumendo l’aspetto di personaggi dei “capolavori” della storia dell’arte, rimangono legati ad un riferimento continuo e ossessivo ad un corpo dell’artista chiamato in causa e replicato ossessivamente. Quella che è inscenata è una “presenza”, così maniacalmente esposta che non fa altro che svelare l’assenza del corpo dell’artista nelle opere fotografiche. Sherman, Koons e Morimura simulano anziché rappresentare la propria immagine. La rappresentazione è la raffigurazione d’aspetti delle realtà o di concetti mediante immagini grafiche, scultoree e simili: quest’operazione implica, di fatto, l’esistenza di un punto di riferimento fisso o reale. Posando come quadri viventi Sherman e Morimura imitano, simulano le grandi opere dell’arte e sottolineano l’assenza di un referente “originale”. La riproduzione della propria immagine come simulacro è una conseguenza inevitabile della società uscita dalle contestazioni degli anni Sessanta-Settanta. Una società che Jean Baudrillard definisce di “ordine neo-capitalistico cibernetico ” (“arte di pilotare”), intendendo con ciò un modello in cui “Dio, l’uomo, il progresso muoiono a vantaggio del codice, in cui la trascendenza muore a vantaggio dell’immanenza ”[15]: Il significato è annullato in favore del suo significante e niente sussiste fuori di e questo.

Il corpo/sé simulato delle opere degli artisti sopra menzionati è, quindi, il frutto di una società, contraddistinta da una crescita esponenziale dell’importanza dell’aspetto fisico e del culto della bellezza. Il corpo, che già prima era percepito come un bene di scambio, ora, negli anni Ottanta viene avvertito solo come un’immagine: il corpo ha perso quella pretesa di “autenticità”, caratteristica della Body Art degli anni Settanta, o di trascendenza. Gli artisti, anziché proiettare il proprio corpo/sé in opere militanti per esternare in pubblico i dubbi del privato, stimolando nello spettatore un’analisi della realtà da altri punti di vista, lo mostrano duplicato all’infinito in costante scambio d’identità: ciò che sopravvive, di conseguenza, è solo un involucro del sé, per l’appunto un simulacro.

Bisogna, però, fare un passo in dietro prima di approdare all’esibizione del corpo tipica degli anni Ottanta: il nuovo corso, inaugurato dagli artisti di questo nuovo decennio, che non sono solo figli di una rinnovata società dell’immagine, ma anche “discepoli” d’artisti, come Urs Luthi e Hannah Wilke, che durante gli anni ’70 inaugurano una nuova, aggressiva ricerca di un soggetto-simulacro ambiguo ed esibizionista. I soggetti della serie Numbergirl (1973) di Luthi e S.O.S.-Starification Object Series (1974) di Wilke sono reiterazioni continue dell’immagine dell’arista. Le foto di queste serie sono solitamente riprodotte in successione, raggruppate in pannelli.

Nei primi anni Settanta l’artista svizzero Luthi cominciò ad esibirsi con travestimenti ambigui, dando vita ad un’infinità di soggetti diversi, ma pur sempre uguali a lui. In Numbergirl l’artista adotta pose suggestive e sensuali, tenendo davanti a sé vecchie foto, che lo ritraggono in altre pose e altre fotografie di carattere paesaggistico. Con posture e ed espressioni in continuo cambiamento Luthi si presenta come un feticcio disperato. La sua immagine sdoppiata (la foto dell’artista che tiene in mano una foto che lo ritrae) “raddoppia” l’idea di simulacro in queste serie, con il risultato che l’esistenza di Luthi come referente originale è negata come anche il suo corpo/sé reale. L’artista si consegna a noi sempre in fogge molto seducenti e questo scatena un contagio emotivo nei riguardi dello spettatore, che, volente o nolente, diventa un partner che collabora. Quello di Luthi non è un corpo che cerca di farsi spazio nel reale, ma un corpo-desiderio: il luogo “oscuro” dove si convogliano i desideri dello spettatore, pur senza mettere in mostra un corpo “reale”. Luthi si presenta, non nella vesta d’artista/origine delle serie fotografiche, ma come feticcio dello spettatore.

S.O.S.-Starification Object Series (1974) di Wilke Hannah Wilke

Anche per quel che concerne l’opera della Wilke, S.O.S.-Starification Object Series, si assiste ad una ripetizione ossessiva dell’immagine dell’artista, fotografata in pose diverse, ma il suo approccio e le finalità di questa creazione sono leggermente differenti rispetto a quelle dell’artista svizzero Urs Luthi. Hannah Wilke è ritratta in alcune fotografie, avvolta da un velo, in altre con degli occhiali e un cappello, ma quasi sempre a mezzo busto e nuda o seminuda con il corpo coperto da molte gomme da masticare a forma di “vulva”. Queste pose, sempre diverse, alle volte drammatiche, altre molto ammiccanti prendono parte al paradosso della commercializzazione su larga scala del corpo delle celebrità per soddisfare i bisogni del consumismo. La maniacale riproduzione della celebrità come immagine da vendere rappresenta proprio ciò che svuota e appiattisce la persona famosa come individuo, spazzando via la profondità e il fascino del proprio sé incarnatosi e sostituendoli con la superficie perfettamente levigata e impenetrabile del simulacro. Lo scarto tra i due artisti è minimo Luthi presenta se stesso come feticcio dello spettatore, mentre l’approccio di Wilke è quello di smontare il sistema dei valori individualista del capitalismo e della società patriarcale occidentale. Entrambi, però, mettono in mostra un corpo, che attraverso una riproduzione seriale, perde ogni connotazione con la realtà per trasformarsi in pura e inconsistente immagine, non più di un sé che si fa carne, ma di un desiderio feticista, che è più facile da vendere e da esportare in tutto il mondo.

Le opere di Luthi e Wilke inaugurarono un tipo di produzione che diverrà dominante negli anni Ottanata: una strategia d’autosimilazione e autoproduzione ossessiva che prende in prestito i processi del capitalismo, che trasformano prodotti, sesso e immagini in feticci e condizionano i significati e le esperienze degli individui. Tra gli artisti che hanno maggiormente influito nella propagazione del “sé/simulacro” tipico della cultura di questo periodo, va menzionata Cindy Sherman, alla quale verranno commissionate molte opere per svariate campagne pubblicitarie: questo per meglio comprendere il nuovo legame che si viene ad instaurare tra il mondo dell’arte e quello della produzione. L’arte e l’industria, allora, si scambiano i loro segni: “Lo stesso vale per la produzione…assume anch’essa, come l’arte, un valore di finalità senza fine: l’arte può diventare macchina riproduttrice, senza cessare d’essere arte, perché la macchina non è più che segno. E la produzione può perdere qualsiasi finalità sociale per realizzarsi ed  esaltarsi infine nei segni prestigiosi, iperbolici, estetici che sono i grandi combinat industriali, le torri alte 400 metri o i misteri cifrati del PNL. ”[16]

Cindy Sherman, Senza titolo n. 131Cindy Sherman, attraverso i suoi autoritratti, allarga ulteriormente la frattura fra i due ruoli imposti dalla società patriarcale alle donne, quello di “donna oggetto” e “donna artista”. Le immagini mostrano l’artista in pose artefatte, che veste abiti “alla moda” e con espressioni grottesche o lunatiche: il risultato era quello di rivelare la natura stereotipata e caricaturale dell’immagine della donna moderna.
L’obiettivo che si proponeva Sherman era di smascherare le identità fittizie proposte alle donne dall’industria della moda utilizzando le stesse “armi” dello spettacolo: l’artista impugnava lo spettacolo stesso come un coltello affilato per distruggere in un colpo solo sia l’ideale della donna oggetto, così come veniva e viene idealizzata dall’industria della moda occidentale, che il mito dell’artista come soggetto coerente, maschio e “cartesiano”. Lo stesso Jeff Koons, artista americano del kitsch, sosteneva, che era necessario che l’arte, perché non fosse “divorata” dalla pubblicità e dall’industria dello spettacolo, dovesse adottare tutti i mezzi di seduzione disponibili, in altre parole quelli forniti dalla realtà.

Queste immagini patinate, che concordano con l’estetica vigente in questo decennio, rivelano un corpo che si mostra in apparenza lindo e purificato dal delirio quotidiano, ma che, ad una più attenta analisi, denuncia un’ambiguità: il corpo diviene il luogo in cui è messa in scena e contestata l’identità di genere. L’identità dell’autore si rifugia nell’illusione e nella maschera, mostrando un corpo, che invece la società vorrebbe unico e indivisibile, sul quale sono inscritte le contraddizioni più intime. Quello che, però, manca rispetto alla Body Art del periodo precedente, è il pubblico: un pubblico che, prima, era richiesto per completare l’evento. Lo spettatore doveva essere coinvolto in un esperienza collettiva che lo spingesse a riconsiderare, di rimando, il proprio quotidiano e, soprattutto, a sospettare del proprio comportamento: il pubblico serviva così da cassa di risonanza. Gli artisti avevano bisogno di sentire gli altri ricettivi nei propri confronti e che stavano al gioco della sua provocazione: la cooperazione del pubblico era indispensabile ai fini di una conferma dell’identità contraddittoria dell’artista. Adesso, però, il pubblico è tornato ad essere un semplice fruitore, ma non come lo era nei confronti delle “belle arti”: lo spettatore sta di fronte ad un’immagine ambigua, che non è solo l’immagine provocatoria dell’autore, ma vuole essere lo specchio di una società sorda, che nella forma della domanda/offerta, ha previsto una forchetta di possibilità entro le quali ricadono tutte le risposte dei consumatori. L’uso del corpo come linguaggio è man mano abbandonato: il corpo, in quanto tale, non sparisce, manca. Nascono così luoghi dove si proclama l’assenza. Si guarda l’invisibile, la sparizione del corpo, appunto.

Sul finire degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta si diffonde il fenomeno delle identità mutanti, delle contaminazioni tecnologiche, degli ibridismi: il corpo tecnologico sostituisce quello degli artisti in qualità di creatori dell’opera d’arte. La Painting Machine (1988) di Rebecca Horn è un macchina che dipinge a comando: il corpo è esclusivamente meccanico. Gli artisti hanno cominciato a sfruttare ed esplorare le possibilità offerte dalle nuove tecnologie per ri-formare e deformare il proprio corpo. I corpi delle produzioni artistiche di questi anni sono diversi da quelli feriti, mortali, e militanti, che subivano la violenza quotidiana del mondo reale, emblematici negli anni Sessanta e Settanta. Così mentre Gina Pane nelle sua performance negli anni Settanta tagliava la propria carne, mostrando il suo corpo lacerato e sanguinante come metafora della violenza della società contemporanea, nei decenni successivi gli artisti hanno cominciato a produrre complesse videoinstallazioni, che non avevano lo scopo di creare una comunicazione nuova e aperta con il pubblico, ma delle vere e proprie composizioni già mediate: come soprascritto il pubblico non è più parte attiva dell’opera, quindi l’artista si arroga la possibilità di comunicare, senza un feedback negativo[17], i propri dubbi e le proprie contraddizioni. Questo sembra essere un segnale di regressione della Body Art: il corpo, come nelle opere di Ana Mendieta, sparisce lasciando come testimonianza della sua presenza dei calchi, delle impronte o delle fotografie. Pare essersi, allora, compiuto interamente lo spettacolo del simulacro, in cui tutta la realtà è, in definitiva, pura rappresentazione e la res extensa è solo un’illusione. Il postcapitalismo e l’industria dello spettacolo hanno fagocitato nei loro ingranaggi il corpo/sé, il corpo autentico, ripulendolo da ogni “stravaganza” e da ogni eccesso e reintroducendolo all’interno del sociale. Ma in questo nuovo scenario i rapporti tra il corpo e la società vengono rinegoziati. L’ambiente non è più concepito come esterno, come una sfera pubblica, che soffoca quella privata, ma anch’esso diverrà parte del corpo e della carne. Da questo particolare punto di vista la Body Art non appare più come un’espressione oramai decadente, ma al contrario si è evoluta, come, d’altronde si è modificata anche la società.

Mona Hautom, Corps étrangerSignificativo per comprendere questo corpo/sé concepito come uno spazio sociale è l’opera il Corps étranger (corpo estraneo o straniero, del 1994 di Mona Hatoum, artista palestinese d’origine libanese. Quest’opera, esplicitamente tecnologica, consiste in un enorme cilindro bianco con due entrate. Il pavimento è formato da un grande schermo circolare che proietta immagini di dotti e cavità umide che pulsano e si contraggono. L’artista utilizzò sonde per endoscopia e colonscopia penetrando ogni anfratto e scrutando ogni superficie del suo corpo, catturando i rumori generati dal respiro e dal battito cardiaco mediante un’apparecchiatura per ecografia: l’occhio clinico della sonda, entrando e uscendo dal corpo di Hatoum, ne offre una visione estremamente intima accompagnata da suoni sibilanti, che cambiavano tono a seconda del punto in cui erano percepite le pulsazioni. Lo spettatore improvvisamente capisce che quello che vede è in realtà l’interno e la superficie di un corpo, che è possibile riconoscere solo in alcuni brevissimi momenti trattarsi di quello di una donna e al tempo stesso la proiezione, racchiusa in uno spazio simile ad un grembo, sembra quasi volerlo inghiottire: l’ambiente è claustrofobico e sensuale allo stesso tempo.

L’opera di Mona Hatoum sovverte i criteri d’appartenenza e d’identità che per lungo tempo sono stati espressi e messi in scena dagli artisti delle generazioni precedente: i corpi degli artisti di questi anni non sono più chiaramente identificabili come un tempo. Per una donna quel caleidoscopio pulsante d’orifizi del corpo “la fa sentire come se venisse risucchiata dall’interno in quello schermo senza fondo o, ancora più in là, oltre il pavimento, nel ventre della terra ”[18]: sentire il rumore dell’interno del corpo acuisce ulteriormente la sensazione di sprofondare dentro questo baratro di carne. Qui il corpo della donna non assume alcuna simbologia fallica, cha possa dar conforto allo sguardo maschile. Per un uomo, quella carne e quelle pulsazioni assumono significati differenti: si è partecipi di una penetrazione che può avere una valenza Freudiana. Corps étranger umilia l’immagine, la fa calpestare dallo spettatore, che viene inglobato dal corpo di Hatoum anziché limitarsi di partecipare dall’esterno: una volta che il suo sguardo penetra le viscere e le profondità del corpo dell’artista, lo spettatore non è più in grado di provare desiderio ed è risucchiato dal quel vortice di femminilità incarnata. Hatoum sottolinea, con quest’opera, le tendenze invasive delle tecnologie, che “penetrano” sempre più nel mondo privato d’ogni individuo, in modo disinteressato, cioè senza alcun interesse di genere, di razza e d’inclinazioni sessuali. Quello che è inscenato, quindi, è un corpo/sé tecnologico piatto, inqualificabile: non sono messe in mostra le diversità perché siano riconosciute dal pubblico, ma un corpo sondato e invaso dal reale.

La tecnologia eliminando il concetto di pelle come confine-limite tra il sé e il mondo, invade il corpo trasformandolo, da struttura biologica di contenimento e protezione a struttura aperta, mutante, in grado di accogliere al proprio interno il sistema logico-matematico della macchina, da una parte, e l’incognita della fusione dall’altra. Una fusione ambigua quella tra uomo e tecnologia, che evidenzia un mondo privato che è sempre più pubblico e un corpo, quello dell’artista, che continua a specchiarsi in noi pur non appartenendoci: il corpo non è solo invaso dal reale, ma invade, allo stesso tempo, con la sua carne e la sua pelle, allungata da vari innesti, il mondo e tutta la realtà.

Segue con Dall’action painting alla body art (II)

Note


[1] Lea Vergine, Body art e storie simili il corpo come linguaggio, Skira, Milano 1974, p. 8.
[2] Amelia Jones, Il corpo dell’artista, Phaidon, 2006, p.21.
[3] Martin Heidegger, Essere e tempo, parte I, sezione I, capitolo 4, p.27, Bocca, Milano 1953. Il “Si” è il pronome riflessivo indeterminato ed è qualificato del filosofo come dittatura, in quanto in esso viene dissolversi il singolo. Heidegger intende riferirsi alle manifestazioni di conformismo e alle mode che appiattiscono l’individuo anche nella sua quotidianità.
[4] Franz Kafka, Nella colonia penale, Romanzi e racconti, L’espresso grandi opere, 2005, pp. 945-946.
[5] Lea Vergine, Body art e storie simili il corpo come linguaggio, skira, Milano 1974, p. 8.
[6] Anna Brus, intervista all’artista Guenter Brus e moglie, Graz, Austria 27 Aprile 2006, p. 129.
[7] Uso il termine “corpo-vivente” e non semplicemente corpo, rifacendomi alla distinzione husserliana tra “Koerper” e “Leib”. Il primo è il corpo fisico, oggettivato dalla scienza: un corpo che si offre all’indagine dell’anatomia e della fisiologia. Con “Leib” si intende il corpo proprio com’è concretamente vissuto: la presenza.
[8] Gutai Bijutsu Kyokai significa associazione dell’arte concreta. La prima mostra d’arte fu realizzata a Tokyo nell’Ottobre del 1955 e due opere vennero realizzate in presenza del pubblico.
[9] Amelia Jones, Il corpo dell’artista, Phaidon, 2006, p.24.
[10] I dipinti antropometrici 1960.
[11] Herbert Maercuse, Eros e civiltà, Gruppo editoriale l’Espresso, 2006, p.23.
[12] Achille Bonito Oliva, L’arte fino al 2000, Nuova edizione Sansoni, 2002, p. 313.
[13] Intervista con Mario Perazzi a Joseph Beuys, Corriere della Sera, 1° Aprile 1973.
[14] Francesca Alfano Miglietti, Nessun tempo, nessun corpo…Arte, Azioni, Reazioni e Conversazioni, Skira, Milano, 2001, p. 24.
[15] Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 71-72.
[16] Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 89.
[17] Effetto retroattivo di un’azione, in questo caso un segnale di ritorno da parte dello spettatore, che in questo caso diviene parte attiva per la riuscita di una performance.
[18] Amelia Jones, Il corpo dell’artista, Phaidon, 2006, p. 43.

Commenti

Un commento a “Dall’Action Painting alla Body Art (I)”

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    Di Inez | 17 Ottobre 2012, 11:52

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