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Cinema

Luigi Di Gianni

Il Tempo dell’inizio

Luigi Di Gianni“Special Guest Star” del NodoDocFest è Luigi Di Gianni, regista di documentari e fiction, diplomato e oggi docente al Centro Sperimentale di Cinematografia. Autore negli anni ’70 dello sceneggiato Rai Il processo da Kafka e del film Nastro d’Argento 1975 Il tempo dell’inizio; Di Gianni ha recentemente ricevuto la laurea honoris causa in filosofia conferitagli dall’Università tedesca di Tubinga. Di questo regista così eclettico, NodoDocFest ha presentato una selezione dei lavori d’ispirazione antropologica, tra i quali il documentario d’esordio Magia lucana (1958), La potenza degli spiriti (1968), Il male di San Donato (1965) ed il più recente La Madonna in cielo, la “matre” in terra (2006). Si tratta di opere invisibili, al confine tra il documentario scientifico e la finzione più suggestiva, che costituiscono oggi le uniche testimonianze di una memoria altrimenti destinata all’oblìo. E che al tempo stesso consentono, a chi le vede per la prima volta, di intraprendere un vero e proprio “viaggio” attraverso luoghi e paesaggi misconosciuti del Meridione italiano (Bagnara, Montesano, Raiano), che sullo schermo si ricompongono in una sorta di unico “luogo dell’anima”.

Diversi sono invece i fenomeni che Luigi Di Gianni prende in considerazione nei suoi documentari, dal culto delle anime del Purgatorio a Napoli alle virtù terapeutiche attribuite a San Donato nei casi di possessione, alla presenza di alcune forme rituali collegate ad antiche credenze pagane. Ma, al di là dei contenuti, tutti questi lavori contengono già la visione originale e personale dell’autore tradotta, sul piano estetico, nella particolare attenzione riservata al volto e alla capacità espressiva dei tratti umani, che rimandano al cinema d’ombre e fantasmi di Carl Theodor Dreyer, e ai volti segnati da una spasmodica tensione nella pittura espressionista.
Abbiamo chiesto a Luigi Di Gianni di guidarci attraverso questo suo affascinante percorso cinematografico, dagli albori fino agli ultimi progetti, e abbiamo scoperto che il suo cinema rivela la capacità di restituirci le emozioni ed i sentimenti così come stanno, aldilà di qualsiasi appartenenza o identità geografica. Un cineasta “apolide” a tutti gli effetti.

Sarah Gherbitz (SG): Il suo documentario d’esordio Magia lucana vede la consulenza scientifica del noto studioso e antropologo Ernesto de Martino, che cosa ricorda di questa collaborazione?

Luigi Di Gianni (LDG): Devo premettere che mi sono diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia in regia nel ‘54 con un saggio ispirato al Processo di Kafka. Pochi volevano consentire che lo facessi, ma poi finalmente l’ho fatto, ed ha avuto anche un certo successo perché questo short è stato mandato al festival di Venezia. Questo per dire che io non pensavo minimamente di occuparmi di documentari.

Ero nutrito di storia del cinema, a quei tempi facevamo tre lezioni alla settimana; avevo visto anche documentari, li consideravo una forma preziosa nel campo del cinema, di eguale dignità della finzione. Però io, personalmente, non sentivo una vocazione documentaristica e, anzi, uscito dal Centro Sperimentale, cercavo di fare un film di lungometraggio di finzione, ispirato ad una vicenda drammatica di quel tempo che volevo portare non sul piano cronachistico ma su di un piano metaforico. Senonché c’erano molte difficoltà, erano passati quattro anni dal mio diploma in regia al Centro Sperimentale, quando nel ‘58 ebbi occasione di leggere un trafiletto sul Messaggero di Roma dove si parlava di una spedizione scientifica sulle tracce della civiltà magico-contadina in Basilicata, capeggiata dall’etnologo e storico delle religioni Ernesto de Martino.

La cosa mi eccitò moltissimo, per due ragioni. Primo perché i temi magici riguardanti soprattutto la magia contadina mi interessavano, me ne ero già in qualche modo occupato. In secondo luogo, per una ragione molto più personale: la Basilicata era terra d’origine della mia famiglia da parte di padre. Ero stato solo una volta in Basilicata perché sono nato a Napoli e vissuto a Roma. L’avevo vista una sola volta all’età di nove anni ed ero stato colpito in modo clamoroso da alcune situazioni che avevo visto, in particolare nel paese della mia famiglia che è Pescopagano, un paese ai confini con l’Irpinia.
C’erano inoltre altre ragioni. Prima di tutto, un paesaggio che mi sembrava un po’ dell’altro mondo, che non immaginavo potesse esistere, un paesaggio difficile. Difficile era il percorso per arrivare a questo paese c’era questo pullman che saliva, curve su curve, non arrivava mai.

E poi appena arrivato a Pescopagano, un episodio mi ha toccato probabilmente in senso fatale. Ho assistito ad un funerale molto particolare: c’era una donna che precedeva la bara del figlio portata sulle spalle da quattro uomini e cantava piangendo le lodi di questo figlio, era il cosiddetto lamento funebre tradizionale. Io non sapevo niente di questi lamenti funebri, avevo nove anni, però ero stato molto colpito da questo avvenimento, non solo dalla situazione ma da questo canto, questo lamento che era estremamente struggente.

Allora mi sono ricordato di queste cose nel ’58, e mi sono detto: forse è il caso che io passi a fare delle esperienze in campo documentario, cerchiamo di conoscere Ernesto de Martino e vediamo che cosa possiamo fare. Mi misi in contatto con lui e si stabilì subito un’amicizia che poi è durata fino alla sua morte. Oltretutto un’amicizia stimolante, lui era un uomo estremamente stimolante, che poteva veramente suggerire delle cose a un giovane, suggerire sul piano degli stimoli più che delle idee.

Insomma, scrissi insieme a un mio collaboratore una scaletta che proposi a Ernesto de Martino e lui promise la sua consulenza scientifica nei titoli di testa, però dopo aver visto il documentario montato. Era una persona molto rispettosa del lavoro altrui, non entrava nei miei modi cinematografici, nei miei modi di concepire per immagini cinematografiche questo racconto; si limitava a dire che la cosa a lui poteva interessare o non interessare. Non era cioè uno di quelli antropologi invadenti, non lo era affatto.

Le difficoltà erano semmai di altro genere, erano difficoltà economiche per poter fare questo primo lavoro perché, nonostante i miei buoni risultati alla scuola, quando mi rivolsi alla Documento, una produzione di film di lungometraggi ma anche di documentari, mi dissero: tu quali garanzie ci dai? E allora dovevo portare delle garanzie. Quali potevano essere? Di carattere economico, cioè una partecipazione economica alla produzione. Mia madre riuscì a trovare cinquecentomila lire e le portammo come partecipazione personale alla produzione del lavoro, poi la Documento mise i mezzi tecnici, ecc.

Quindi feci questo primo lavoro su cui ci sarebbe molto da dire, ci sarebbero parecchi aneddoti… Andare nel ‘58 in Basilicata non era una cosa semplice, era piuttosto complicata. C’era soltanto l’Appia, piena di curve, tortuosa e difficile da percorrere, poi c’erano strade, sentieri ecc. Quindi già viaggiare era difficile.
Poi era difficile sopravvivere, per esempio per dormire e mangiare c’erano solo due sedi, Potenza e Matera. I paesi in mezzo non avevano niente, non avevano né alberghi, né locande e dunque bisognava arrangiarsi. Io portai una troupe ben composta, approfittando del fatto che c’era la partecipazione economica personale. Oltre l’operatore e l’aiuto operatore, portai anche un elettricista, un macchinista e un gruppo elettrogeno con gruppista. A quei tempi non si poteva girare in interno perché non c’era corrente elettrica in questi paesi, e allora bisognava per forza portarsi il gruppo elettrogeno. E tutto a favore dell’immagine. Dovendo trascurare per necessità l’aspetto sonoro, non mi portai appresso il fonico, e quindi puntai tutto sull’eloquenza delle immagini.

Luigi Di Gianni

Una cosa debbo dire: a quei tempi eravamo costretti a girare in pellicola perché c’era solo quella; e non solo in pellicola, ma in pellicola a 35 millimetri, perché il prodotto che noi dovevamo portare al Ministero dello Spettacolo doveva essere a 35 millimetri, professionale. Questi prodotti venivano poi esaminati da una commissione addetta ai cosiddetti premi di qualità, e, in quel periodo, venivano attribuiti 120 premi annuali divisi trenta per trimestre. Io naturalmente vinsi il premio, ebbi quindi la possibilità di rientrare nelle somme che in qualche modo avevo stanziato.

Adesso si gira in video, prima c’era una legge che tutelava il cinema documentario, una legge assistenziale che però permetteva, sia pure con difficoltà economiche, sia pure girando con poca pellicola, se vuoi girando in pochi giorni, però permetteva una libertà di scelta dei contenuti che attualmente ci sogniamo. Questo perché siamo condizionati dall’audience televisiva, perché è entrata di mezzo la televisione con l’imperio dell’audience.

SG: Il suo lavoro documentaristico l’ha portata spesso in Basilicata, terra dall’indiscusso fascino e panorami ancestrali, dove ancora oggi è possibile trovare tracce di ritualità pagane. Che cosa intende quando dice che questo è il suo paesaggio dell’anima?

LDG: Questa definizione di paesaggio dell’anima è di un’antropologa mia amica che si chiama Clara Gallini, io me ne sono appropriato perché la trovo molto aderente alla realtà. Questo paesaggio dell’anima non è soltanto una concezione di paesaggio visto in termini fisici ma è un paesaggio che entra dentro, che stabilisce un clima, un rapporto intimo con la persona che si avvicina. Questa descrizione appartiene soprattutto alla regione in questione.

Luigi Di Gianni al NodoDocFest

Io poi mi sono occupato non solo di Basilicata ma soprattutto di Italia meridionale, per due ragioni. Innanzitutto io sono di origine meridionale, anche se vivo a Roma, e sento molto le mie radici e la mia matrice e anzi chiedo, mi appello, affinché queste origini, queste matrici, quest’identità meridionale non siano cancellate in nome di un falso progresso. Penso che ogni progresso porta con sé un regresso, per cui bisogna stare molto attenti.

In secondo luogo, ho una concezione un po’ unitaria dell’Italia meridionale, non dico politicamente, non lo posso dire, ma sentimentalmente mi sento borbonico: penso che l’unità d’Italia non abbia molto giovato al Sud, non perché non dovesse essere fatta, ma è stata fatta male.

SG: Fra i suoi interessi figura anche la cultura mitteleuropea… non sono due aspetti un po’ in contraddizione?

LDG: Sì, insieme a questo modello, io ho anche un altro modello, che mi stimola, mi eccita, ed è un modello mitteleuropeo. Io qui mi sento molto bene proprio per questo, perché Trieste è una città mitteleuropea; devo dire che sono felice di essere qui, mi sembra di aver trovato un’altra patria. Questo mio modello mitteleuropeo viene fuori da una serie di incontri culturali con alcuni scrittori con i quali sento un legame molto stretto, che emblematicamente rappresentano per ma qualcosa di molto importante.

Prima di tutto Kafka, uno scrittore che io ho scoperto all’età di vent’anni. Quando ho letto Il processo, Il castello, li ho letti furiosamente e, per tre notti, non ho fatto altro che piangere perché mi sembrava di avere incontrato un grande padre, un grande fratello, un grande qualcosa con cui dovevo avere necessariamente un rapporto.

E dico di più, che anche per quanto riguarda la storia del cinema, di cui mi sono nutrito alla scuola del Centro Sperimentale, io ero su posizioni non proprio neorealiste. Apprezzo molto il neorealismo italiano, apprezzo molto alcuni film che considero bellissimi, importantissimi, come Germania anno zero e Umberto D. Per me sono due capisaldi, ma la mia sensibilità era portata di più verso un altro tipo di cinema, verso il cinema nordico, quello di Carl Theodor Dreyer e verso il cinema tedesco per il fenomeno dell’espressionismo in generale, non solo cinematografico, ma anche pittorico, letterario, teatrale e musicale. Soprattutto musicale perché la scuola espressionista di Schoenberg e dei suoi allievi mi stimolava molto.
Andavo da ragazzo a sentire le musiche di questi illustri personaggi che a quei tempi erano fischiati regolarmente perché erano considerati non comprensibili, mentre io li capivo molto, perlomeno credevo di capirli molto, e applaudivo freneticamente da solo.

Ora questo interesse mitteleuropeo, che rientra in un certo modo di concepire le immagini anche nel campo del cinema documentario, pur occupandomi di meridione, mi porta a concepire le immagini in termini di un cinema classico, non tanto quello tedesco quanto quello nordico di Carl Theodor Dreyer.

C’è da aggiungere che questa la cultura mitteleuropea mi è entrata particolarmente nel sangue soprattutto per le mie esperienze di cinema di finzione. Ho fatto varie esperienze, come ad esempio un film nel 1974 che si chiama Il tempo dell’inizio e risponde a certi modelli, sia da un punto di vista tematico, è un film più che realistico, semionirico, sia dal punto di vista formale. Poi ho addirittura realizzato per la Rai l’intero Processo di Kafka come film televisivo nel 1976. Il film è andato in onda nel ‘78 ed è un film che dura tre ore e venti.

Terza cosa, dovevo realizzare Il castello di Kafka nell’80, il mio progetto era stato approvato dal numero uno del Cda Rai senonché, improvvisamente, cambiò la dirigenza e cambiarono anche le cose. Da allora la politica culturale della Rai scivolò per vie completamente diverse.

SG: Che cosa le è rimasto della sua esperienza nel cinema neorealista con Cesare Zavattini?

LDG: Sono stato indotto a questa collaborazione non dal fatto che a me interessasse il tipo di cinema di Zavattini, del pedinamento, della realtà ecc. M’interessava Cesare Zavattini, che era un personaggio notevolissimo. Volevo fare un’esperienza con lui, e del resto anche un’esperienza di questo tipo di cinema, anche se le mie posizioni erano completamente differenti.

Una scena del film di Luigi Di Gianni

Dico di più.. amichevolmente c’erano un po’ di dibattiti con Zavattini, lui mi diceva: come mai nei tuoi documentari nessuno si soffia mai il naso?, io rispondevo: perché non hanno il raffreddore. Nel senso, lui rimproverava ai miei documentari di essere un po’ troppo stilizzati, secondo lui non c’era un filtro diretto con le cose. E in effetti mi mancava perché ho cercato in qualche modo di distanziarmene. Avevo bisogno, proprio per come io sento il cinema, di costruire e non di riprendere per immagini. Costruire secondo una sensibilità e secondo un rapporto che c’è non solo con la realtà, ma tra l’autore e la realtà.

Ho collaborato con Cesare Zavattini per un film che s’intitolava I misteri di Roma dove eravamo 13 giovani registi e ognuno si occupava di certe cose. Io ho preso talmente passione per questo tipo di esperienza, nei limiti di questa esperienza, che finivo tutti i giorni al commissariato perché facevo delle cose proibitissime che sarebbe lungo raccontare… (ride,nda)

SG: Molti registi hanno scelto di girare a Matera per la sua atmosfera particolare, mi riferisco ad esempio a Pasolini per Il Vangelo secondo Matteo, oppure Mel Gibson per The Passion. Lei ha girato lì il film Il tempo dell’inizio, come mai scelse proprio Matera?

LDG: Perché i miei primi documentari li ho girati lì, in Basilicata. Ci sono arrivato dopo una serie di sopralluoghi e di ricerche fatte in altre zone, mi ero messo in testa di girare in un primo momento Il tempo dell’inizio in zone balcaniche. Mi sono fatto il giro di tutta la ex-Jugoslavia, la conosco tutta a memoria. Ho trovato l’attore protagonista in Croazia, un attore di teatro delizioso, anche dal punto di vista umano, che si chiama Sven Lasta, e ho deciso di girare in zona ex-Jugoslavia.

Senonché ad un certo punto non riuscivo ad essere soddisfatto completamente. Allora mi sono ricordato che esisteva la Basilicata, che è la mia matrice originaria, e che lì c’erano delle cose, come paesaggio e come suggestioni, che non riuscivo a trovare altrove. E mi sono detto: ma perché non girare un film di finzione in Basilicata?

Allora l’ho ripercorsa e ho girato in parte a Matera, in parte a Pisticci. nel materano, in parte in un paese che si chiama Craco, che nessuno conosceva. Sono stato il primo a filmare a Craco! E poi in parte a Napoli, e in parte anche in teatri di posa a Roma, a Cinecittà.

SG: Attualmente è impegnato in diversi progetti, che cosa ci può dire dei suoi impegni futuri? E che cos’è il progetto De Oliveira che lei cita sempre?

LDG: È un grande regista portoghese, Manoel De Oliveira, l’ho conosciuto a San Benedetto del Tronto, poi l’ho rivisto a Matera, ci ho parlato, ecc., e mi ha affascinato la sua situazione. Lui ha 98 anni e fa un film all’anno, si muove in tutto il mondo, invitato da tutte le parti. Allora ho detto: il progetto della mia vita, sempre che l’Eterno sia d’accordo, perché se non è d’accordo l’Eterno io posso poco. Il progetto Manoel de Oliveira è questo, cioè arrivare a 98 anni a fare un film all’anno!! È un progetto scherzoso ma in qualche modo può essere interpretato anche alla lettera.

In secondo luogo, come progetti aperti, a parte un progetto sulle anime del purgatorio, tema che ho già preso in considerazione nei documentarii Grazia e Numeri, Grazia e morti, ma che non ho mai potuto sviluppare come volevo, c’è anche un altro progetto del quale mi sto occupando decisamente adesso Quello delle anime del purgatorio è un culto particolare, che ha il suo centro a Napoli, anche a Palermo, ma soprattutto a Napoli.

Le anime del purgatorio sono praticamente, detto in napoletano, le cosiddette anime “pezzentelle”, le anime bisognose, cioè quei morti di cui nessuno si occupa. Allora ci sono dei devoti che cercano di trovare una mediazione con il sacro, con il divino, occupandosi di questi morti abbandonati, appunto le cosiddette anime del purgatorio.
Intorno a questo tema ci sono tutta una serie di racconti e di leggende straordinarie, tra le quali una che somiglia molto a quella del Dongiovanni, una specie di Dongiovanni napoletano, in cui il protagonista è un teschio che viene definito Il capitano.

Per il nuovo progetto, invece, ho iniziato le riprese e spero di finirle per il mese di giugno, se riesco a trovare i fondi. Il problema è sempre il combattimento all’arma bianca per trovare dei soldi. Sto girando rimettendoci di persona e con la collaborazione di alcuni giovani deliziosi e devoti, i quali non prendono una lira, anzi, ci rimettono pure. Però certo non possiamo andare avanti all’infinito per questa strada e allora sto cercando dei fondi per terminare le riprese.

È un misto tra documentario e finzione, si chiama Appunti per un film su Carlo Gesualdo. Appunti che significa? Che dovrebbero precedere un film di lungometraggio dedicato proprio a Carlo Gesualdo. Chi è? Un principe del Cinque-Seicento, un principe che a quei tempi era potentissimo, e che non solo amava la musica ma realizzava la musica, era un grande madrigalista che è stato riscoperto da Stravinskij nel nostro secolo, e adesso è molto eseguito soprattutto in Germania, in Francia e in Inghilterra, meno ovviamente in Italia.

Questo grande musicista mi ha suggerito alcune idee… Lui ha avuto una vita molto tragica, era un uomo un po’ melanconico, un po’ scuro, amava moltissimo la musica e amava moltissimo anche la moglie. Intendiamoci, aveva sposato la donna più bella di Napoli, Maria Davalos, che era poi una sua cugina. Questa Maria aveva già portato a morte per la sua esuberanza due giovani mariti: morti d’infarto perché chiedeva troppo! Allora il principe si divideva tra l’amore per la moglie e l’amore per la musica.

La moglie però voleva ancor più amore e trovò un amante, un nobile il quale, pur avendo famiglia e 4 figli, era molto esuberante pure lui e si dedicava molto a lei. Si sapeva che la tresca sarebbe finita male, lei però non usava nessuna prudenza, voleva vivere questa sua passione fino in fondo. Praticamente il principe, criticato sia dai nobili, sia dal popolino, da cui era visto come un personaggio debole che non muove un dito, fu costretto a farli uccidere tutti e due. Lui poi fu chiamato alla corte del viceré di Spagna, a quei tempi il reame di Napoli era viceregno di Spagna, e venne discolpato in quanto aveva agito per motivi di onore.

La sentanza suscitò però apprensioni e pensieri nefasti da parte della nobiltà perché il principe non aveva ucciso di persona, aveva fatto uccidere mentre nelle situazioni di difesa dell’onore, secondo il codice cavalleresco di allora, bisognava uccidere di persona e non fare uccidere ad altre persone di sangue non nobile.
Gesualdo ebbe insomma una vita molto tragica, in cui tentò sempre di espiare questo suo delitto. Si faceva fustigare tutti i giorni per pagare il suo debito morale e spirituale.

Luigi Di Gianni

Io ho iniziato entrando addirittura direttamente nella vicenda, faccio parte io stesso di questo lavoro come personaggio. Inoltre, sono andato a dormire nel luogo del delitto la notte della celebrazione, il 17 ottobre, il giorno in cui ricorreva l’anniversario del delitto avvenuto nel Cinquecento.
Mi sono impadronito di quest’ambiente attraverso l’istinto e le mie vocazioni, che talvolta oscillano verso l’onirico, e da qui è cominciata tutta una serie di riprese in funzione di questi Appunti che dovrebbero precedere il film dedicato a Carlo Gesualdo da Venosa. Il principe sarà raccontato soprattutto attraverso un personaggio importante, Il Prevetuccio, suo consigliere e colui che in qualche modo organizzò il delitto.

Le interviste a Erik Gandini e Luigi Di Gianni si sono svolte in occasione della prima edizione del NodoDocFest, il Festival Internazionale del Documentario (Trieste, 9-14 maggio 2007). Il festival si è articolato nelle seguenti sezioni: Panorama, a cura di Manuela Buono e Fabrizio Arpesella, in cui è stata presentata una selezione delle migliori opere degli ultimi anni, con particolare attenzione verso la produzione italiana: Odessa, Un’altra storia, L’udienza è aperta rispecchiano la ritrovata capacità di raccontare la realtà del Paese, raccontandone gli aspetti difficili, inaccessibili, oscuri, tenuti nascosti perché scomodi. Ad inaugurarla, sarà il film di Erik Gandini sul centro di detenzione di Guantanamo, GITMO-The new rules of war, vincitore di numerosissimi premi in tutto il mondo e mai proiettato in Italia. La sezione dedicata a Joris Ivens ha presentato i capolavori del grande documentarista olandese quali Il ponte, Pioggia, Terra di spagna, L’Italia non è un paese povero, Une histoire de vent. Ancora, l’Omaggio italiano a Luigi Di Gianni, Diritto all’infanzia, patrocinata dall’UNICEF, che ha proposto alcuni film che raccontano diversi aspetti del mondo dell’infanzia, dall’Africa al Sud America e all’Europa. Infine, Outro Lado, documentari sociali dal Brasile e Rock&doc, realizzata in collaborazione con il RomaDocFest, che ha visto proiettati Parco Lambro 1976 di Angelo Rastelli ed Alberto Grifi e Trieste, se ci sei batti un colpo di rock! di Giovanni Pianigiani e Claudio Scaramuzza.

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